"109°: L'hanno portato alla fine del viaggio"
Michele
"Mi dispiace tanto, Michele! Adesso dobbiamo tornare in cella." dice il commissario.
Il suo volto esprime dolore. Il dolore di un padre. Esatto: proprio un padre, perché lui sa benissimo che non è stata colpa mia. Lui sa quanto le disavventure che la mia piccola ha vissuto mi facciano stare male. Sa quanto l'idea di stare lontano da lei, poterla vedere per un tempo limitato e soprattutto pensare costantemente al fatto che la mia vita potrebbe finire anche tra due secondi mi faccia soffrire.
"Non si preoccupi. Lei ha già fatto tanto per me ed io non potrò mai ringraziarla a sufficienza per questo" gli dico forzando un sorriso. Un sorriso che lui capisce perfettamente che non è vero. Mi sforzo, ma non riesco a combinare nulla.
Torniamo in cella, ma quando la raggiungiamo veniamo accolti da una sgradita sorpresa. C'è un ragazzo sdraiato a terra che si contorce dal dolore. Mi avvicino, per capire cosa può essere successo, e resto sconvolto nel vedere un proiettile di forma conica conficcato nel suo braccio destro. Rabbrividisco, ma mi faccio coraggio e corro verso di lui.
"Antonio, ma cos'è successo?"
"Questo ragazzo è stato appena giustiziato. Gli restano solo pochi giorni."
"Giustiziato... per cosa?"
"Per aggressione. Da quanto dice lui un tizio stava aggredendo una ragazza e lui l'ha preso a botte!"
"Ma questo non può essere! L'hanno quasi ammazzato!"
Mi avvicino al ragazzo, mi getto in ginocchio e gli premo sul braccio, per far uscire quel proiettile.
"C'è un modo per curarlo?" chiedo, rivolto al commissario.
"Deve rigettare il veleno. SUBITO!" esclama l'uomo.
"Antonio, aiutami! Non riesco a tirarlo su da solo!"
Antonio si avvicina. Gli tremano leggermente le mani, ma mi aiuta ugualmente a tirare su il ragazzo e portarlo in bagno.
"Lascialo andare... piano, piano" gli dico con voce tremante. Spero tanto che quello che ha detto il commissario serva a salvargli la vita. Qualunque sia la sua colpa, questa punizione non va bene per nessun essere umano.
Infilo le dita nella sua bocca.
Lui si agita in preda al dolore e sembra che la febbre gli renda difficile anche respirare.
"Tiralo fuori."
Il ragazzo sembra un vegetale. Ora non reagisce più agli stimoli, anche se respira ancora... a fatica, ma almeno respira. Poi un fiotto di vomito finisce dove dovrebbe finire.
"Ecco... su, coraggio! Gettalo fuori!"
Il ragazzo continua a rigettare per cinque minuti buoni, poi crolla a terra, completamente privo di forze. Cerco di tirarlo su, ma non ce la faccio da solo. Il mio compagno di sventura mi raggiunge, venendomi in aiuto. So che ha paura dei detenuti, ma non credo che possa abbandonare una persona malata.
Lo mettiamo sulla mia branda ed io vado a prendere una vecchia maglietta, la prima che avevo, ormai ridotta a uno straccio, e vado a bagnarla con dell'acqua fredda. Torno alla branda e adagio la maglia sulla fronte di quel poveretto.
"Perché... mi stai... aiutando? Non sei uno sbirro?"
"No. Sono un povero disgraziato senza neanche un soldo in tasca, finito in cella per cose non fatte e che non può pagarsi nemmeno l'ultimo degli avvocati. Ti basta come resoconto?"
Lui agita le braccia, come se volesse colpire qualcuno.
"Io li distruggo! Io li farò soffrire come loro hanno fatto soffrire me, lo giuro..."
Qualcuno entra nella cella. È Romano: pronto a prendere in giro me, Antonio o questo poveretto in fin di vita.
Il ragazzo lo riconosce. Lui, in maniera imprudente, si avvicina alla branda e, con una forza che non so da dove diavolo gli sia uscita, il ragazzo lo afferra per la gola e lo stringe talmente forte da fargli mancare il respiro per qualche istante.
Riesco in qualche modo a tirarlo indietro. La mia maglietta fradicia mi finisce addosso, ma non m'importa più di tanto in un momento come questo.
"Che fai? Sei impazzito? Non sprecare le forze! Non ne vale la pena..."
"Ecco! Bravo Michele! Non ne vale la pena di avere un'altra persona sulla coscienza prima di sprofondare nelle fiamme dell'inferno..."
Sul volto del poliziotto arriva uno schiaffo.
"FERMO!" grido bloccando il ragazzo per le braccia. "Ti ho già detto di non sprecare le forze con questo tizio! SMETTILA!"
"Non potrà fare molto, Michele! E tra qualche giorno nemmeno tu potrai fare molto, Robin Hood dei miei stivali!" mi deride Romano.
Ormai le sue prese in giro non mi toccano neanche più. Lo guardo come per dirgli che, se vuole farmi arrabbiare, sta sbagliando le battute e dovrà cercarne delle altre. Lo so: a breve ritornerà alla carica con qualche cretinata delle sue, ma se devo dirla tutta... non m'interessa.
Romano lascia la stanza. Ora sono certo che andrà a parlare al commissario e gli dirà quello che è successo.
"Lui... è stato lui a spararmi! Lui mi ha messo la corda!"
Lo vedo toccarsi il collo e quando vedo il segno rosso sulla sua pelle mi assalgono i brividi. Tra non molto questo brutto marchio ce l'avrò anch'io. E sarà l'ultimo ricordo che avrò di questa vita.
"Tu non sembri uno di quelli che sono in carcere perché ci devono stare. Esattamente di che cosa sei stato accusato?"
Lui parla lentamente, perché ha ancora la febbre alta.
"Perché si dice che io abbia cercato di usare violenza contro una delle persone che più amo al mondo..."
Lui assume un'espressione che non capisco.
In realtà è lui nel suo complesso ad essere indecifrabile per me, a livello caratteriale, ma forse è normale che accada questo visto che lo conosco solo da un quarto d'ora scarso, e la febbre alta non è esattamente la prospettiva migliore dalla quale partire per fare conversazione... per giunta in una cella di qualche metro quadro, nella quale, chissà come, siamo entrati in tre!
Il ragazzo crolla sulla brandina, abbassa la testa da un lato e smette di parlare. Io mi avvicino e vedo che i suoi occhi sono ancora lucidi di febbre ed il suo viso è ancora rosso. Forse avergli fatto rigettare quella robaccia potrà salvargli la vita... anche se qui non è che ci sia molto altro da fare. Non abbiamo praticamente niente per curare i detenuti e col cavolo che si occupano di uno che è stato giustiziato nell'infermeria!
Lui è crollato in un profondo torpore da quando è qui. Sono passate tre ore. In carcere l'orologio è una specie di altro compagno, che viene guardato spesso, per questo posso dirlo.
"Michele..." Antonio attira la mia attenzione con voce tremante.
"Dimmi."
"Secondo te sopravviverà?"
"Non lo so. Con le risorse scarse che abbiamo qui non so quanto potremo aiutarlo, ma lui mi sembra tanto attaccato alla vita! Credo che l'abbiano anche trascinato... guarda: ha dei segni rossi anche sui polsi e le braccia sono graffiate."
"Anch'io sono tanto attaccato alla vita. Non avrei il coraggio di salire su quella specie di palchetto, farmi mettere la cor... scusami, scusami... n-non volevo dire..."
"Non ti preoccupare. Te l'ho già detto: io ormai mi sono rassegnato. Quello che non capisco è cosa ci trovano di bello quelli che le mettono in atto, le esecuzioni. Che gusto si prova nell'uccidere qualcun'altro, per quanto male possa aver fatto? Che gusto si prova?"
"Posso chiederlo a quell'imbecille che ti vuole ammazzare, se..."
"Ehi, ehi, ehi, se ti sente come minimo ti sbatte in cella d'isolamento!" gli dico, coprendo la sua bocca.
Lui sospira. Si volta verso il ragazzo, gli si avvicina e gli controlla la temperatura con la mano. Non abbiamo termometri, quindi questo è l'unico modo in cui si può sperare di capirci qualcosa in merito.
"Io penso che questo poveretto non arriverà a domani." mi dice con tristezza.
Vorrei dargli torto, ma non ho più la forza di fare nemmeno quello. Spero solo che la settimana prima che io possa rivedere lei passi presto. Mi manca tanto.
Poi vengo fulminato da un pensiero. Di solito, quando si riceve il morso di un serpente, bisogna incidere il punto in cui è il morso ed estrarre il veleno succhiandolo via prima del siero che ne annullerà l'effetto.
Prendo la siringa che Bruno ha lasciato qui, quella con la quale mi curava.
Appoggio l'entrata di quella stessa siringa sulla ferita, che purtroppo è ancora aperta, e vedo che sul braccio è colata una sostanza di uno strano color viola acceso, che mette paura. Spero di non fare troppo male al ragazzo, ma in qualche modo devo togliergli questa roba dal corpo. Se non posso salvarmi io, almeno un mio compagno di cella da qui deve venir fuori vivo, con le sue gambe, e non dentro un carro funebre... se gli va bene, perché potrebbero anche abbandonarlo in cella come un oggetto qualsiasi. È orribile e non deve succedere... non davanti a me, se posso impedirlo in qualche modo.
Questa la chiamano "epoca moderna", ma oggi è come ieri. Anzi: oggi è peggio di ieri! Chi ha soldi, potere, agganci, come mio fratello, può fare i suoi sporchi comodi e a nessuno importerà nulla.
A quelli come me, invece, spettano insulti, porte in faccia, e in casi come il mio una bella corda intorno al collo e un proiettile nel corpo contenente il veleno dal quale sto cercando di liberare questo povero ragazzo che è disteso sulla branda che di solito sono io ad occupare, e alla condanna si aggiunge l'umiliazione di essere definiti dei delinquenti della peggior specie. Questo è un inferno... un vero inferno!
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