Capitolo 8
Dopo tre anni, con la società in difficoltà economica, mi proposero un contratto come prima allenatrice. Non c'erano nemmeno i fondi per avere una squadra completa di 12 atlete, ma essendo obbligatorio, mi fecero un tesseramento speciale come allenatrice-giocatrice. La squadra non era male, ma l'obiettivo iniziale rimaneva la salvezza. Era composta da un paio di giocatrici di alto livello, mentre il resto era formato da giovani promesse, atlete senza esperienza, provenienti dalle giovanili.
Il primo anno fu un vero e proprio banco di prova. La partenza fu terribile, e dopo sette sconfitte consecutive, mi chiamarono per dirmi che stavano pensando di sostituirmi con un allenatore più esperto. Ma, alla nostra ottava partita, riuscimmo finalmente a vincere. Quella vittoria cambiò tutto: il morale delle ragazze salì e l'esperienza delle giocatrici crebbe di partita in partita. Da lì, intraprendemmo un percorso positivo che ci portò alla salvezza, con un girone di ritorno ricco di successi sorprendenti. Non era merito solo mio, ovviamente. La società, nonostante le difficoltà economiche, non aveva mai smesso di lavorare con passione sul settore giovanile. Le ragazze che avevo inizialmente incontrato impaurite e inesperte, si erano trasformate.
Io avevo portato un po' di freschezza. Pretendevo molto, ma cercavo di non bacchettare troppo. Se una giocatrice non si allenava bene, la prendevo da parte e le parlavo in modo amichevole, cercando di capire il problema. Le facevo riflettere sul fatto che erano fortunate ad essere pagate per giocare allo sport più bello del mondo, e che, come avevo imparato sulla mia pelle, tutto poteva finire in un attimo. Non c'era tempo da perdere, e io lo sapevo bene. Ogni tanto portavo le ragazze in ritiro, ma non per punirle. Le portavo lì perché si creavano momenti unici, ci allenavamo con dedizione, ma alla sera ci divertivamo insieme, facendo gruppo con giochi demenziali e, ogni tanto, alzando anche il gomito con qualche birra di troppo.
Molti mi criticavano per questo, ma io ero consapevole dei benefici che una squadra coesa e unita poteva portare. In passato avevo visto gruppi di ragazze dove screzi e tensioni rendevano il clima pesante, e si percepiva quell'egoismo che in campo non poteva che tradursi in disastro. Non volevo che accadesse a noi.
Arrivammo alla fine della stagione con una grande soddisfazione: mancava solo un punto per entrare nei play-off scudetto, ma, soprattutto, avevamo messo le basi per una stagione successiva da protagonisti. Le ragazze erano cresciute tanto, e io vedevo in loro il mio passato, quando ero all'apice della forza, spensieratezza e determinazione.
Eppure, nonostante fosse ancora impossibile, un pensiero iniziò a farsi sempre più assiduo: "E se vincessimo lo scudetto?" Quella domanda cominciò a girare nella mia testa, come una piccola speranza che, anche se distante, non smetteva di crescere.
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