Capitolo 5
In un paio di stagioni, ero diventata titolare inamovibile, una delle leader di una squadra di A1. Ero regolarmente convocata in Nazionale maggiore, dove mi ero ritagliata i miei spazi. Tutto questo a 19 anni. Tutti mi consideravano un fenomeno, ma io non mi sentivo appagata. Non ancora. Volevo che il mio sogno diventasse realtà.
Durante la stagione avevo giocato piuttosto bene, realizzando ad ogni partita almeno venti punti. Arrivò il play-off, e dopo un facile primo turno, raggiungemmo la semifinale contro Bergamo, le campionesse uscenti. Sfavorevoli a ogni pronostico sensato, riuscimmo a vincere e ad accedere alla finale. La finale scudetto. Cominciai a sentire un brivido lungo la schiena e a pensare che tutti i miei sacrifici potessero finalmente essere ricompensati. La mia motivazione di vita era a portata di mano, a una sola partita di distanza.
La squadra avversaria era Parma, e la loro capitana non poteva che essere proprio la Gruen. Agguerrita e determinata a far rimpiangere allenatori e dirigenti di Ravenna che l'avevano esclusa per una ragazzina.
Avevamo l'attenzione di tutta la Nazione: palazzetto da 15.000 persone gremito, diretta tv, tantissimi giornalisti e fotografi. E in più, ovviamente, c'erano i miei genitori, Robocop, molte amiche di scuola e vecchie compagne di volley. Ci fecero fare anche la prova generale per l'ingresso in campo. Un'emozione unica. Tra i dirigenti di Parma c'erano alcuni volti noti, persone che mi avevano aiutato nella mia crescita, e lanciai loro sguardi di stima e rispetto. Durante la prova generale, dovevamo passare lungo la rete e scambiare un battito di mano con le avversarie, come si fa ad ogni match. Quando incrociai la Gruen, lei tolse la mano e mi disse: "Non vincerai mai lo scudetto, mocciosa!". Mi colse di sorpresa, ma risposi: "Vedremo!".
Quella frase mi caricò ulteriormente e mi aiutò a scrollarmi di dosso un po' di tensione. La partita iniziò e, ancora una volta, vidi un paio di mie compagne con lo sguardo assente, come se fossero avvolte dalle paure. Provai ad aiutarle con una semplice pacca sulla schiena e qualche parola di incoraggiamento, ma non riuscirono a uscire da quel tunnel. Io, però, ero in grande spolvero. Sentivo il mio obiettivo vicino e lo desideravo ad ogni costo.
Nel primo set arrivammo sul 25-24 per noi. La palleggiatrice mi alzò una palla perfetta. Avevo il muro a due contro, ma caricando le gambe, riuscii a saltare come non mai, superandolo. Vincemmo il primo set.
Il secondo set partì come il primo. La partita era combattuta, ma noi avevamo un po' di voglia in più. Più o meno a metà set, però, successe l'irreparabile: durante l'atterraggio di un salto, sentii un rumore terribile provenire dal mio ginocchio. Quasi istantaneamente, arrivò il dolore. La sensazione era come una lama che penetrava la carne. Mi coprii gli occhi, pieni di lacrime. Il dolore era lancinante, ma quello che sapevo con certezza era che, senza di me, il mio sogno e quello di migliaia di tifosi di Ravenna erano destinati a svanire. Mi fecero una puntura e mi portarono via in ambulanza tra gli applausi della gente.
Poco dopo, fu il silenzio a diventare assordante.
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