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Capitolo 3

I due anni successivi furono quelli della svolta mentale. Iniziai a giocare sempre titolare, a comprendere gli insegnamenti dell'allenatore e, soprattutto, a capire davvero la pallavolo. Ero l'unica a non aver saltato nemmeno un allenamento. Una volta, mi presentai con trentotto di febbre, nascondendo la cosa sia ai miei genitori che all'allenatore. Lui però se ne accorse quasi subito e, a fine allenamento, mi disse di non farlo più, che non era necessario; ma in fondo so che, sotto sotto, gli faceva piacere vedermi così appassionata.

Avevo appreso la tecnica e allenato il corpo. Da un po', il mister mi aveva trovato il ruolo ideale: schiacciatrice. Dovevo ricevere, attaccare, difendere, murare. Ora non ero più quella ragazza scoordinata del centro estivo che non riusciva nemmeno a prendere la palla. Ero diventata la più brava tra le mie compagne. Alcune erano tecnicamente simili a me, ma io avevo i polpacci di papà e un'esplosività rara. Mi servivano molti palloni durante le partite e, spesso, ero decisiva, facendo tanti punti.

Le squadre avversarie cominciarono a conoscermi e a temermi, e il mio nome, a livello regionale, si diffuse nel mondo del volley. Fui chiamata nella Nazionale giovanile, dove mi ritrovai catapultata in una realtà molto più grande di quella che immaginavo. Ma ero clamorosamente pronta. Un po' di tensione c'era sempre: affrontare cose nuove, conoscere nuove compagne, nuovi allenatori, un pubblico sempre più numeroso, i primi insulti. Ma avevo sempre in testa il mio sogno di vincere uno scudetto in serie A1 e la determinazione per raggiungerlo.

Proprio durante un torneo Under 14 successe una serie di eventi che cambiarono per sempre la mia vita. Nel girone non andammo benissimo, ma riuscimmo ugualmente a passare il turno come miglior terza classificata. Agli ottavi di finale affrontammo l'Austria, vincendo senza particolari problemi. Ai quarti di finale, c'era il Brasile, campione del Mondo Under 14 delle ultime tre edizioni, che aveva vinto il loro girone perdendo un solo set in tre partite.

Ricordo tutto di quella partita. La tensione pre-partita, la notte quasi insonne della vigilia, i discorsi con le compagne, gli occhi determinati del mister. Ma la cosa più clamorosa era il boato sugli spalti. Io ero passata da avere una decina di genitori a bordo campo a una cinquantina al palazzetto a Parma. Per quel quarto di finale, giocato a Milano, c'erano tremila persone. Molte delle mie compagne, appena entrate in campo, avevano le gambe che tremavano e gli occhi persi.

Io ero in forma e, soprattutto, avevo una carica dentro che era una novità anche per me. Una avversaria brasiliana, Sheila, dopo il primo punto, mi guardò negli occhi, mi urlò in faccia e mi indicò con l'indice, come per dirmi: "Vediamo cosa sai fare!". Iniziai una partita nella partita. La nostra palleggiatrice, Martina, che era proprio la mia compagna di squadra del centro estivo (l'unica di quel gruppo, insieme a me, a raggiungere quel livello), mi alzava quasi tutti i palloni. Io, caricata dall'avversaria, saltavo con una spinta in più e passavo sempre sopra al muro. Saltavo così tanto che avevo il tempo di analizzare la posizione difensiva delle avversarie e schiacciare dove volevo. Ad ogni punto cercavo gli occhi di Sheila, che spesso si girava o abbassava lo sguardo in segno di sottomissione.

Perdemmo tre a due al tie-break, ma io diedi tutto quello che avevo. Ero triste per la sconfitta, ma Sheila, a fine partita, mi strinse la mano e, con un italiano stentato, mi disse: "Sei l'avversaria più forte che abbia mai incontrato!". Ero ancora immersa nei pensieri della partita e della sconfitta, in mezzo al campo, e non mi accorsi che le mie compagne erano già tutte andate nello spogliatoio. Mi incamminai, cercando tra il pubblico il solito pugnetto di consolazione di mio padre. Lo vidi, e alzai le braccia lungo i fianchi, come a dire: "Ce l'ho messa tutta, ma non ce l'abbiamo fatta!". Lui si alzò in piedi e mi applaudì fiero. Tutto il pubblico si alzò e, in modo contagioso, partì un lungo applauso che mi accompagnò fino alla porta di uscita. Tremila persone in piedi stavano applaudendo me.

Quando arrivò Frank, il nostro scout, che teneva le statistiche della partita, si avvicinò e mi sussurrò: "Ani, hai fatto 47 punti oggi!".

La mia prestazione non passò inosservata e qualche giorno più tardi mi arrivò una notizia sorprendente: ero stata acquistata dalla squadra di A1 di Ravenna.

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