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Capitolo 10

Era il 12 maggio. Affrontavamo la fortissima e favorita Forlì. Decisero di farci giocare a Milano, in un palazzetto da 25.000 posti, tutto esaurito da un mese. Come sempre, i miei genitori erano presenti per i grandi appuntamenti. C'erano tantissimi giornalisti e televisori, e mi avevano avvisata che, come commentatrice per una televisione belga, sarebbe stata presente la Gruen. La cosa non mi rendeva affatto più tranquilla.

Il giorno prima della partita, la società mi aveva convocata per una riunione, sottolineando quanto fosse importante per loro la vittoria di quello Scudetto. Sarebbe stato il primo per una squadra femminile di Parma. Erano cose che già sapevo, ma mi avevano caricato di ulteriori responsabilità.

Prima di entrare in campo, guardai mio padre in cerca di sostegno. Mi fece il pugnetto incoraggiante. Un piccolo gesto, ma bastò per farmi tirare un sospiro di sollievo.

La partita iniziò tra il frastuono del pubblico, le indicazioni degli allenatori, le urla delle giocatrici, gli incitamenti delle compagne, gli schiamazzi dei bambini tra la gente, i fischi dell'arbitro, le musiche ad alto volume tra i time-out, la telecronaca esuberante dello speaker, i rumori delle suole di gomma che strisciavano sul parquet e il suono della palla colpita con forza dalle mani e dagli avambracci delle giocatrici. Ma dopo il fischio d'inizio, mi sentivo come avvolta in una bolla di sapone insonorizzata. Ero completamente concentrata sul mio lavoro: cosa dire, cosa fare, come guardare.

La partita stava andando benissimo, era avvincente e combattuta, e la giovane Giulia si stava comportando davvero bene. Nonostante la sua inesperienza, eravamo arrivati al tie-break con un incredibile punteggio di 14-10 per noi. Fu in quel momento che mi balenò in testa l'immagine della vittoria. E fu un errore. Non mi accorsi che Giulia, spossata dalla fatica e dalla tensione, aveva le gambe deboli e lo sguardo perso nel vuoto. 14-11. Chiamai subito un time-out e le parlai: "Giulia, un solo punto, ti batteranno addosso, stai concentrata, sforzati. Ce la fai?". Lei non mi rispose, abbassò il capo. Una bruttissima sensazione. Un ace su di lei. 14-12.

Chiamai l'ultimo time-out a mia disposizione, e questa volta mi rivolsi solo a lei: "Giulia, ci sei? Sei connessa?". Stavolta alzò gli occhi, mi guardò, e con la voce strozzata dalla paura mi disse: "Mister, sono out!".

Mi girai verso le ragazze che avevo a disposizione: nessuna alternativa di ruolo. Avevo tre ragazze giovanissime che si coprivano il viso con le mani, e poi una centrale che non era affatto abituata a ricevere.

Decisi di mettere nuovamente Giulia in campo. Un altro ace su di lei. 14-13.

Ci sono momenti nello sport in cui una piccola decisione può fare tutta la differenza. Mandare in campo una delle ragazze che avevo a disposizione sarebbe stato un massacro certo. E così, senza alcuna logica apparente, mi tolsi la felpa e sfilai le braghe della tuta, rimanendo con il completo da gioco, sotto lo stupore generale. Erano cinque anni che non toccavo un pallone, e soprattutto, non potevo né correre né saltare.

Entrai in campo al posto di Giulia, che, una volta sostituita, sospirò come a ringraziarmi.

Camminando, raggiunsi la posizione che mi era stata assegnata, tra le facce incredule delle mie ragazze. Cercai di scuoterle: "Ragazze, mi batteranno addosso, ma io la terrò su e poi toccherà a voi chiudere la partita. O adesso o mai più! Io posso giocare solo questo punto!".

Partì la battuta flottante delle avversarie, naturalmente indirizzata verso di me. Quella sensazione di attesa della palla, l'analisi della traiettoria e della velocità, la ricerca della posizione perfetta per il mio corpo, le braccia pronte ad accogliere il colpo... Era una delle sensazioni più intense che avessi mai amato nella mia vita.

La palla si spostò leggermente, costringendomi a fare una piccola correzione con le gambe. Un dolore acuto al ginocchio mi assalì, ma scomparve quasi subito. Impattai la palla che si alzò perfetta per l'alzatrice. Senza nemmeno rendermene conto, caddi a terra. La mia ricezione non fu perfetta, ma fu giocabile. L'alzatrice passò alla Iankovuc che, con tutta la sua potenza, fece partire una sassata in diagonale. Punto.

Un boato assordante. Tutte le ragazze mi saltarono addosso in mezzo al campo, e Giulia, con gli occhi vispi e spiritati, mi urlò: "Abbiamo vinto lo Scudettoooooooo!!".

Le ragazze mi portarono in trionfo, lanciandomi ripetutamente in aria. Non riuscivo a trattenere le lacrime.

Poco dopo, decisi di sedermi sulla panchina. Ero così felice che non riuscivo a pensare a nulla se non al mio sogno realizzato e all'impresa che avevamo compiuto.

Mi girai verso i miei genitori, che erano completamente ricoperti di coriandoli e gioia.

Poi, mi girai verso la postazione della TV belga. La Gruen sapeva che avrei cercato il suo sguardo, e me lo concesse. Muovendo lentamente le labbra, le dissi: "Te l'avevo detto che avrei vinto la mia finale!".

Lei distese il braccio e mi mostrò il dito medio.

Per me, quel dito era puro godimento. Del resto, nella vita non si può piacere a tutti.




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