3) BUIO
Dovette lottare duramente per fuggire davanti a tutta quella oscurità. L'unica cosa che lo teneva ancora legato alla vita era quel muschio esangue che stringeva in mano. A breve si sarebbe spento del tutto e non sapeva per quanto ancora avrebbe dovuto proseguire.
Non sapeva nulla, né cosa l'avrebbe aspettato una volta giunto da Gioturna, né come avrebbe fatto a riconoscerla una volta che fosse arrivato al suo nascondiglio. Nessuno glielo aveva detto. Si diede dello stupido, ma questo non migliorò la sua situazione. Non sapeva nemmeno come avrebbe fatto a tornare indietro, se fosse riuscito a fare quello che doveva.
Si domandò da quanto tempo fosse sottoterra, perché non ricordava nemmeno da quanto tempo avesse lasciato Salice che Ride dietro di sé. Ormai aveva perso la nozione del tempo. Potevano essere pochi minuti o giorni interi. Non lo sapeva. In quell'ambiente ostile il tempo non aveva senso. Scorreva come voleva, senza nulla che lo scandisse. Non esisteva giorno, alba o tramonto, solo una lunga eterna notte. Con tutti i sensi concentrati sull'unica cosa reale in quel momento, ogni secondo durava un'eternità. L'unica cosa vera era il buio, perpetuo e totale. Impenetrabile. Poteva essere a centinaia di metri sotto la foresta, come a poche decine. Non avrebbe saputo dirlo, perché ormai aveva perso qualunque senso dell'orientamento. A forza di svoltare non capiva più la direzione che seguiva e tutte le sue energie si concentravano nel mantenere sotto controllo il panico.
Con uno sforzo inumano si obbligò a portare un piede in avanti, poi un altro e un altro ancora.
Ora che era solo sentì l'eco di ogni suo passo crescere a dismisura ed ebbe l'impressione che qualcuno lo seguisse a poca distanza. Nonostante sapesse che era impossibile, un paio di volte si voltò a guardarsi alle spalle, ma l'unica cosa che vide fu l'oscurità. Al di fuori di quel piccolo cerchio di luce pulsante in cui si trovava non vedeva nulla che non fosse buio. Mano a mano il buio si avvicinava sempre più con l'affievolirsi della luce emessa dal muschio. Quando vide il cerchio di luce a non più di un passo da sé, si mise a correre seguendo la pendenza della galleria che lo conduceva sempre più giù, sempre più giù, nel buio e nel caldo, nell'aria densa e soffocante di quel mondo sotterraneo che lo schiacciava sotto il suo peso immane.
Le Yaonai avevano scelto bene il nascondiglio di Gioturna, si disse. I mostri di ghiaccio non avrebbero potuto in nessun modo giungere fino a dove era arrivato lui, ma subito si pentì di aver pensato a quegli esseri orrendi. Per quanto si ripetesse che non poteva essere possibile, si immaginava mani invisibili che gli sfioravano le spalle e il volto, nascoste da quel buio che lo circondava. Le percepiva come presenze maligne, si allungavano quasi a ghermirlo e si ritraevano respinte solo da quel debole alone di luce che ancora lo difendeva dal buio. Smosse debolmente il muschio quasi esangue e quello parve riaversi un momento. Un guizzo di luce, un brillio. La sua unica difesa contro il nulla. Un buio tremendo, differente da quello notturno della foresta, dove una stella, la luna, qualcosa insomma, emanava sempre un minimo di luce.
Qui no. Non c'era nulla. Era un buio totale, eterno, che avrebbe potuto portare alla follia un uomo che ci si fosse trovato all'improvviso immerso dentro. Quando pensò che quell'uomo poteva essere lui, accelerò ancora il passo, correndo a perdifiato, incurante della polvere che alzava e delle ragnatele che gli sfioravano il volto. Era sudato fradicio per il caldo e per la fatica, eppure tremava al pensiero di cosa poteva produrre quell'eco che lo inseguiva senza mai allontanarsi, per quanto corresse veloce. Faticava a respirare, i suoi polmoni reclamavano dell'ossigeno che scarseggiava. La testa gli girava, per un momento temette di svenire e si obbligò a rallentare l'andatura, lottando contro la paura. Se fosse caduto avrebbe perso il muschio e con esso quella poca luce che ancora poteva dargli.
Attraverso la pelle e il sudore non sentiva quasi più il suo calore pulsante e capì che stava giungendo alla fine. Doveva sbrigarsi, avanzare senza porsi domande alle quali non avrebbe saputo rispondere.
Ancora una svolta, dopo pochi passi un'altra. Provò la tentazione di fermarsi, girare sui talloni e scappare via. Ormai la luce era solo una pallida idea, un fievole lumicino che gli illuminava le palme delle mani, poi, d'un colpo, si spense del tutto e in quel momento Wal si sentì morire. Strinse forte quello che rimaneva del muschio tra le mani, poi lo lasciò cadere in terra. Con esso finiva la sua speranza.
Deglutì più volte, ma la saliva era finita da tempo. Si sentiva riarso, asciutto come sabbia. Si obbligò a pensare.
Calma, calma, calma, si ripeté più volte, ma il cuore prese a battergli forte. La respirazione aumentò. Se si fosse lasciato prendere dal panico, se si fosse messo a correre a perdifiato avrebbe potuto cadere, ferirsi, morire dissanguato. Avrebbe potuto soffrire per giorni e giorni senza che nessuno potesse venire in suo soccorso. Sarebbe morto in un modo orribile, se si fosse lasciato dominare dalla paura. Nessuno sapeva dove erano andati lui e la Grande Madre.
Faceva fatica a respirare, la mancanza di ossigeno gli dava il mal di testa. Si obbligò a rallentare il respiro. Piano, piano, piano... Quando fu sufficientemente padrone di sé, si sforzò di rammentare. La Grande Madre gli aveva detto che se camminava veloce, alla fine della luce del muschio non avrebbe dovuto mancare molto anche alla fine della galleria. Doveva procedere seguendo la direzione che aveva tenuto fino a quel momento e sarebbe arrivato. In breve tempo, forse.
Dove non lo sapeva, ma da qualche parte sarebbe arrivato.
Sentiva sotto i piedi il pavimento in pendenza e fino ad allora era sempre sceso, quindi sapeva quale direzione seguire. Se lo risaliva, andava verso la salvezza. Se lo seguiva, continuava a scendere. Il tunnel che avevano seguito non aveva avuto diramazioni prima di quel momento, era sceso senza biforcazioni. Se continuava a seguirne le pareti tastandole con le mani poteva proseguire ancora un po'. Oppure poteva tornare indietro e mollare, lasciare che fosse qualcun altro a caricarsi il suo fardello, ma appena lo pensò sentì una fitta al petto. Non seppe dire se fosse un'emozione sua o di Aldaberon, comunque si vergognò di averlo pensato. Raccogliendo tutte le sue forze, mise un passo avanti. Lo sentì scivolare sulla roccia grezza del pavimento. Continuò ancora.
Avvicinandosi a tentoni alla parete, la tastò finalmente con le dita: si aggrapparono a essa come un naufrago che incontra un legno in un fiume in piena. Poteva essere la sua salvezza. Non doveva staccarsi da lei per nessun motivo. Seguendola poco alla volta la sentì curvare e curvò con lei. Una pietra malferma crollò in terra non appena la toccò, rischiando di ferirlo alle gambe o ai piedi.
Doveva fare maggiore attenzione a cosa toccava. Muoversi solo quando era sicuro di non commettere errori. Proseguì lento per un tempo che gli parve infinito, scostando con i piedi le pietre che gli impedivano il passaggio e con le mani le ragnatele che pendevano dal soffitto. L'aria era pesantissima, soffocante, si pentì di non essersi portato dell'acqua.
A ogni svolta a cui arrivava sperava di giungere da qualche parte, invece continuava a sentire la parete che proseguiva ancora in avanti, calda e ruvida sotto i suoi polpastrelli, sempre uguale a se stessa.
Anche la speranza andava affievolendosi con il tempo che passava. La paura a stento tenuta sotto controllo rischiava di prendere il sopravvento a ogni ragnatela che gli sfiorava il collo, il volto, le mani... Il calore era opprimente. Sudava copiosamente per il terrore e per la temperatura. Si sentiva ardere dal calore e dalla sete.
Ormai non temeva nemmeno più i mostri di ghiaccio nascosti nel buio pronti a ghermirlo. Con la sete che aveva se li sarebbe bevuti pezzo a pezzo, si disse dopo un po'.
Sorrise, anche se si rese conto di essere allo stremo delle forze. La situazione rischiava di diventare disperata. Per quanto non volesse ammetterlo, la paura del buio stava avendo il sopravvento sulla sua forza di volontà.
C'era un limite per ognuno e lui sentiva di essere molto vicino al suo. Se fosse crollato, se avesse ceduto alla paura, avrebbe perso quell'unico barlume di ragione che ancora si sforzava di mantenere. Doveva darsi uno scopo, un obiettivo da raggiungere. Decise di arrivare ancora alla prossima svolta della galleria. Solo più una. Se per allora non fosse successo nulla sarebbe tornato indietro, si disse. Si passò più volte la lingua sulle labbra, ma non aveva più saliva per bagnarle. Era a secco di tutto. Cacciò indietro ancora una volta il terrore che lo minacciava e proseguì piano. Tastando la parete di roccia avanzò per un lungo tratto rettilineo, finché sotto le dita sentì che la parete cambiava, diveniva liscia e levigata. In alto e in basso, incontrò i bordi di pietra grezza non lavorati. C'era soltanto uno spazio non superiore ai due palmi di altezza, proprio davanti alla sua faccia, che iniziava all'improvviso e proseguiva oltre a dove si trovava. Ogni tanto percepiva dei leggeri avvallamenti nella roccia. Un sussulto di speranza lo convinse ad andare avanti più spedito. Quando incontrò la fine di quello spazio levigato lo tastò accuratamente: anche lì un bordo girava tutto attorno e oltre ancora segni di piccone incidevano la roccia. Non era naturale, qualcuno l'aveva lisciato. Forse era vicino alla meta.
Fece qualche passo nella speranza di aver pensato giusto, ma quando svoltò incontrò solo il buio, immenso, totale, ancora e solamente buio. Si arrese. Abbassò la testa e si dichiarò sconfitto. Avrebbe voluto avere la possibilità di parlare con Aldaberon e spiegargli che aveva tentato fino a che aveva potuto. Avrebbe voluto dirgli che se avesse avuto un aiuto, anche piccolo, forse ce l'avrebbe fatta a proseguire ancora un poco, ma lui taceva. Sapeva della sua presenza, la sentiva, eppure in quel momento sentiva il bisogno di qualcosa di più tangibile, di qualcosa che gli desse un grammo di fede in più, perché la sua era esaurita.
Con la sconfitta nel cuore percorse a ritroso l'ultimo tratto di galleria e per ogni passo che faceva, sentiva crescere la delusione. Con quale coraggio avrebbe potuto presentarsi davanti a Salice che Ride, si chiese. Già si immaginò il suo sguardo carico di comprensione per il tentativo fallito e questo lo ferì più di una roccia tagliente.
Mesto e sconfitto ritrovò il tratto di roccia levigato e pensò a chi aveva avuto la forza di lavorarlo in quelle condizioni. Lui, lei, o loro, non si erano arresi, si disse. La delusione per non essere stato in grado di portare a termine il suo compito lo fecero crollare. Appoggiò il capo e le mani alla parete e si mise a piangere. Si sarebbe lasciato morire lentamente, piuttosto di tornare indietro. Avrebbe preferito che quella roccia lo seppellisse con il suo peso, invece di fare ancora un passo indietro. Prese a battere violentemente la roccia con i palmi delle mani per sfogare la sua impotenza, quando a un certo punto si fermò. Un'idea gli balenò improvvisa nella mente. Con i polpastrelli prese a seguire i segni incisi nella pietra ed ebbe un tuffo al cuore. Questo era suo, ne era certo.
Risalendo a ritroso i segni arrivò alla fine del tratto levigato e lo riprese scendendo a valle. Piano piano gli comparve un sorriso e ringraziò Neko per la sua insistenza a volergli insegnare cose che parevano inutili.
I segni che sentiva sotto i polpastrelli, gli avvallamenti che aveva incontrato prima, non erano imperfezioni della parete, non erano colpi casuali di un attrezzo, avevano un senso. Li tastò seguendoli uno a uno dall'inizio e riconobbe la prima lettera:
¦
Era una P maiuscola, scritta nell'alfabeto Varego. Ne era certo. Neko aveva insistito così tanto perché studiasse con gli occhi bendati gli alfabeti fino a riconoscerli.
Proseguì fino a che incontrò un'altra incisione, poco distante dalla prima. L'alfabeto Varego era scritto fitto fitto, con le lettere molto vicine le une dalle altre. Tenendo una mano sulla prima lettera, con l'altra tastò la seconda e quando la riconobbe non ebbe più dubbi:
ŀ
Era una A maiuscola. Qualcuno aveva lasciato un messaggio scritto e voleva che a riconoscerlo fosse un Varego.
Passò alla seguente e la riconobbe agevolmente.
˦
Era una S, una delle sue preferite. Proseguendo veloce ne incontrò un'altra uguale a questa e infine un'altra A.
PASSA...
Subito dopo c'era uno spazio maggiore, quindi la prima parola era conclusa.
Con sempre maggiore agitazione seguì i segni incisi nella roccia e poco alla volta nella sua mente si formò una frase completa che ripeté a voce alta ogni volta che riconosceva una lettera nuova.
Quando terminò di tastare anche l'ultimo graffito, sospirò di sollievo.
La frase completa diceva:
PASSA PER DI QUA LA VIA DEL RITORNO
Non poteva sentirsi più felice di come si sentiva in quel momento. Finalmente aveva qualcosa di concreto sotto le mani, qualcosa da cui partire.
Ma il simbolo che trovò inciso in basso a destra, appena sotto l'ultima lettera, come si usava tra i Vareghi, lassù al Nord, lo fece sobbalzare.
Era un marchio, non poteva sbagliarsi. Ed era un marchio che conosceva molto bene: lo usavano tutti alla Casa delle Farfalle, nessuno escluso. Anche lui l'aveva usato molte volte, non potendo scrivere direttamente il proprio nome. Come tutte le case Vareghe, anche quella di Jarre la Farfalla aveva un marchio per distinguersi dalle altre e ora era lì: un salice con la chioma agitata dal vento.
Dal capostipite in avanti tutti l'avevano usato, aggiungendovi le iniziali del proprio nome e del padre per distinguersi dagli altri.
Il simbolo che Wal tastava era un salice con dentro incisa una A seguita da una J.
Sapeva di averlo già visto, l'aveva riconosciuto subito.
Non poteva sbagliarsi, quella scritta l'aveva incisa Aldaberon, figlio di Jarre, della Casa delle Farfalle. Suo nonno vissuto più di tre secoli prima.
Colui che aveva lasciato il Libro delle Foglie.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro