2e) LA STANZA NELLA ROCCIA
Dalle profondità del cunicolo gli giunse la voce della Yaonai che l'attendeva.
Rimbombava sulle pareti della galleria e si perdeva lontana, amplificandosi in mille suoni differenti. Pareva la voce di una gigantessa che parlasse nella montagna e il portale di pietra fosse la sua bocca. Le sue parole furono chiare, semplici e dirette.
Pareva lo stesse leggendo dentro, perché quello che disse fu ciò di cui lui aveva bisogno in quel momento.
"Un uomo saggio fece incidere quelle parole" disse "Tanto tempo è passato da allora, ma lo fece per coloro che sarebbero venuti dopo di lui".
Wal annuì. Forse la Yaonai nemmeno sapeva quanto fosse vero quello che aveva appena detto. E importante, per lui. La speranza si animò.
Chiunque avesse inciso trecento anni prima quella frase, forse prevedendone la paura, avrebbe aiutato un viandante. Poteva essere lui o un altro, poco importava. Però qualcuno sarebbe arrivato un giorno a leggere quelle parole incise nella roccia e le avrebbe capite al momento adatto. Il loro significato era chiaro, non ammetteva dubbi. Semplici e reali, indicavano la strada.
Poteva proseguire solamente se credeva in quello che faceva, e ora era giunto il momento di dirsi quello in cui credeva, perché da questo dipendeva la sua vita.
Era giunto il momento di mettere fine a dubbi e a incertezze; di smettere di pensare ai torti subiti o a quanto venisse usato. Quella era la sua strada e il suo destino. Accettarlo o rifiutarlo, questa era la scelta. Ora doveva crescere, in fretta, senza indugi. Non c'era più tempo per rimandare.
Aldaberon l'aveva condotto davanti a un bivio obbligato e toccava solamente a lui decidere quale strada voleva seguire. Poteva andare o restare, ma da questo momento qualunque scelta non sarebbe dipesa da nessun altro che da se stesso e dalla sua volontà. Doveva farlo ora, per la sua gente, per la gente con cui viveva ora, ma soprattutto per se stesso. Se lo doveva se voleva avere una possibilità di tornare indietro, a casa sua. Al suo mare. A Vandea.
Quando l'immagine in movimento del mare si formò nella sua mente capì che era quello che voleva veramente, era quello a cui voleva tornare sopra a ogni altra cosa. Era quella la sua casa, la sua gente di sempre, i Vareghi, i suoi amici, il suo mare difficile e terribile, il bianco dell'inverno e il suo freddo intenso. Gli apparteneva, come le Yaonai appartenevano alla foresta e i Ratnor alla loro idea di perfezione. Era quella la sua cuccia, il suo rifugio, il pensiero che lo scaldava di notte e lo difendeva di giorno. Ora se ne accorgeva forte e chiaro. Il mare gli scorreva nelle vene, gli aveva insegnato la paura e il coraggio, l'aveva portato lontano e lo aveva riportato a casa. Nella malattia tremenda che aveva dovuto combattere era stato il mare ad accoglierlo infine tra le sue braccia e a renderlo ancora alla vita. Ed era a lui che aveva pensato adesso, nel momento della decisione che avrebbe potuto cambiare la sua vita. Poteva anche fallire entrando in quel cunicolo, però leggendo quella frase illuminata dal sole, prese la sua decisione e rispose alla Grande Madre che l'attendeva immobile nella galleria. Non gli aveva fatto espressamente alcuna domanda, ma era come se fosse sospesa nell'aria ad attenderlo. L'attendeva e lui si fece trovare.
"Arrivo" le disse e senza indugi si incamminò verso il portale di pietra. Nel momento preciso in cui lo attraversò sentì un brivido di gioia. Era Aldaberon. Era felice anche lui. Lo erano entrambi.
Una volta dentro, riconobbe subito l'ambiente aspro, le pareti grezze e il pavimento liscio, il puzzo che arrivava dalla profonda gola che si inoltrava nelle viscere del vulcano e la corrente calda che scendeva lungo la galleria richiamata dall'esterno. Tutto era come l'altra volta. Nulla era cambiato, oltre a lui e il suo modo di guardarla.
Arrivò al fianco della Grande Madre e si incamminarono lungo il cunicolo. Avanzavano a passo lento ma deciso inoltrandosi sempre più nell'oscurità, anche se questa volta entrambi sapevano che tra non molto avrebbero incontrato i muschi luminosi. Però non era quello che sorprendeva Wal, in quel momento.
"Tu sai leggere le parole scritte nella pietra?" domandò alla Grande Madre e lei gli rispose come se fosse sorpresa da quella domanda troppo scontata.
"Tutte le Yaonai lo sanno fare, Gopanda-Leta, marito mio. I Ratnor e le loro leggi non ci potranno mai impedire di insegnarlo alle nostre figlie. Fu un dono che la nostra dea ci fece e non ce ne scordiamo".
"Certo" fece lui, ma non avrebbe saputo dire se a rispondergli fosse stata Salice Splendente o Salice che Ride. Suppose che non avrebbe fatto molta differenza, perché probabilmente avrebbero risposto nella medesima maniera entrambe. Iniziava ad abituarsi alle stranezze di quel posto e porsi troppe domande non sarebbe servito a nulla. Lo sapeva. Inoltre, per quanto fosse risoluto, sentiva crescere la tensione dell'incontro imminente con Gioturna.
Lei era il cardine attorno al quale leggenda e realtà si univano ed era attorno a lei che tutto ruotava. Lei poteva essere la chiave per risolvere tutti i problemi della gente che lo circondava. Ma come, si domandava lui.
Dopo non molto furono avvolti completamente nelle tenebre e per un attimo il panico prese il sopravvento. Ebbe l'impulso di fuggire e si accorse che anche la Yaonai al suo fianco ebbe un momento di incertezza nell'incedere, ma ben presto l'oscurità venne sostituita dalla luce pulsante azzurrina del muschio attaccato sulle pareti e sul soffitto. Era come se lo ricordava. Calmo e rilassante, lento e perpetuo. Quell'andare e venire, quell'accendersi e spegnersi costante gli ricordarono il contrarsi e il rilassarsi di un cuore, di un enorme cuore palpitante in cui si stavano inoltrando come intrusi. Non aveva bisogno di toccare quelle campanule luminose per sapere che il loro potere calmante era rivolto alle Yaonai, alle loro sacerdotesse che per millenni avevano dovuto inoltrarsi nelle viscere buie del sottosuolo, nonostante il terrore che provavano nel farlo.
Rivolse uno sguardo furtivo alla Yaonai che l'accompagnava e riconobbe la tensione che quel posto le procurava nei lineamenti del suo volto. Il suo bel viso era contratto in una maschera inespressiva e le sue labbra erano tese in due fili sottili. Stringeva i denti, forse per non farli sentire battere tra loro. Aveva paura, forse più di lui. La volta scorsa era troppo scosso, troppo sorpreso per accorgersene. Molte cose che ora sapeva ancora gli sfuggivano e provò un rispetto profondo per la donna pianta che andava dove la sua natura la respingeva, inoltrandosi sotto terra solo per un senso del dovere atavico e lontano. Il suo coraggio era esemplare. Procedeva decisa senza cedere al terrore che l'attanagliava, non lasciando, però, che nulla trapelasse dal suo incedere elegante. L'ammirò per questo, anche se provò un improvviso, profondo, disagio nel trovarsi al suo fianco.
I passi leggeri della Yaonai si perdevano silenziosi nelle pareti della galleria, mentre i suoi risuonavano pesanti, amplificati dalla roccia, nonostante i muschi alle pareti li rendessero ovattati. Vergognandosi della sua goffaggine fece il possibile per fare meno rumore, ma i suoi sforzi ottennero un ben misero risultato. Si rassegnò dopo alcuni tentativi. Almeno aveva ottenuto un risultato. La donna lo guardò, distogliendosi per qualche attimo dai suoi pensieri. Aveva sempre creduto di essere silenzioso come le creature della foresta, eppure ora dovette ricredersi. Si vergognò talmente di essere stato colto così facilmente in fallo, che si riportò velocemente al suo fianco proprio quando giunsero alla rientranza che nascondeva l'ingresso della camera scavata nella roccia.
"Questa la scavarono le mie antenate, migliaia di anni fa" gli fece lei, fermandosi sull'ingresso per attenderlo "Centinaia di sacerdotesse hanno scavato in questo luogo e lungo la galleria, luna dopo luna, per ottenere un luogo dove sostare"
Lui ascoltò incredulo e guardò quel luogo con occhi diversi. Per ogni segno di piccone che vedeva ancora impresso sulla roccia, per ogni pietra levata a forza, immaginava le bellissime Yaonai, chine, sudate e determinate a ottenere un risultato da quel lavoro immane, nonostante il terrore che attanagliava ognuna di loro per essere sottoterra.
Entrando nella stanza insieme alla donna, Wal riconobbe le cose lasciate da lui e da Radice. Tutto era perfettamente in ordine, curato e pulito.
"Ora è Salice che Ride che l'accudisce" fece lei, quasi avesse voluto rispondere agli sguardi ammirati del ragazzo "Lei bada che sia sempre in ordine, mentre il Maestro del Sole la usa a suo piacimento". Wal notò una sfumatura di disgusto nella voce della donna. Sapeva che si riferiva a Flot e si chiese cosa mai le avesse fatto per meritare tanto disprezzo da sua madre, ma non osò chiedere nulla.
La Yaonai si diresse verso la nicchia scavata nella parete, dove c'era il piccolo bauletto. L'aprì con cautela per non sforzare le mappe arrugginite. Ne estrasse l'arma, tenendola tra le mani come fosse una reliquia.
"Lo Scettro degli Dei" disse porgendogli la bipenne "Te l'affido, mio signore. Fai in modo di essere degno di lui".
Lui la prese e una scossa corse nel suo corpo. Riandò indietro nel tempo, a quando brandiva altre armi dello stesso metallo. Era pesante, potente e letale. Si ricordò dei tanti momenti passati ad allenarsi con Neko e delle armi che suo padre gli donò prima che partisse per la scorreria. Si rivide nell'attimo in cui staccò di netto una testa per diventare uomo presso il suo popolo. Rivide gli occhi, quegli occhi chiari che lo perseguitavano fin da allora, domandandogli infinite volte: "Perché?", senza che lui sapesse trovare una risposta valida. Non riuscì a sopportare più a lungo quel ricordo.
Si vergognò tremendamente di quello che aveva fatto a quella ragazza innocente e abbassò l'arma.
"Che cosa ti succede, marito mio?" gli domandò la Yaonai, facendolo trasalire.
Si era talmente perso nel suo rimorso da essersi completamente dimenticato di lei. Gli ci volle un momento per comprendere che qualcosa era cambiato nella donna.
La sua voce, il suo profumo riportarono Wal al presente. L'aroma che spandeva attorno a sé non sapeva più di dolce e penetrante caprifoglio, ma di linfa fresca.
Alzando lo sguardo capì che Salice Splendente, moglie di Aldaberon il Varego, era andata via. Davanti a sé c'era Salice che Ride, che lo guardava calma e sorridente. La sua compagnia era rassicurante e dolce come l'affetto che i suoi occhi gli portavano.
Gli faceva piacere avere accanto lei, dopo la severa presenza della sua antenata. Era bello essere ancora in compagnia di sua moglie, perché quando era con lei sentiva di non dover dimostrare nulla, anche se gli avevano teso un tranello.
"Perché l'hai fatto?" le fece e lei inspirò a fondo prima di rispondere. Non cercò scuse.
"Tu e io siamo soltanto pedine in un gioco iniziato molto tempo fa" gli disse senza vergogna "Le regole non le stabiliamo noi, le possiamo soltanto conoscere e accettare. Il tuo e il mio passato sono al servizio di questo gioco e alla fine molti saranno gli sconfitti".
Wal si schernì. Si domandò a cosa potesse servire il sacrificio di una giovane vita innocente in una terra lontana, in questo gioco di cui non conosceva ancora tutti i giocatori.
"Trovi divertente la cosa?" gli fece lei fraintendendo e lui scosse la testa. In fondo come biasimarla, pensò lui, come poteva sapere.
"No, è che molte cose ancora mi sfuggono. Mi sento come chi tenta di dipanare una matassa e la trova piena di nodi. A ogni passo compiuto ce n'è uno diverso e il bandolo è ancora lontano".
Lei gli prese la mano che stringeva l'ascia.
Sollevandola gliela appoggiò al petto. Il metallo batté forte sulla pelle.
"Questa è il passato, marito mio" gli disse decisa "tu sei il presente, io il tramite attraverso il quale le due cose si incontrano. Se vorrai tornare un giorno al tuo mare, dovrai giocare la tua battaglia, altrimenti morirai".
Wal rimase colpito.
"Tu... come fai a saperlo?"
"Il tuo passato e il mio si uniscono attraverso i nostri corpi, dovresti saperlo".
Aldaberon! Era stato lui a dirlo a Salice Splendente e le Grandi Madri attingevano i loro ricordi da una memoria comune. Salice che Ride sapeva ogni cosa che Aldaberon volesse farle sapere. Mentirle non avrebbe avuto senso.
"Tu sai a cosa stavo pensando, allora" le fece, scoprendosi vulnerabile, quasi sussurrandone le parole. Un lieve cenno del capo gli diede la conferma temuta. Provò quasi sollievo nel saperlo. Almeno non avrebbe dovuto dirglielo a voce.
"Non provi ribrezzo, per quello che ho fatto?".
Lei scosse la testa.
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