10) FAGGIOLA
I giorni passarono veloci e la luna nel villaggio di Kimani giunse al termine. Tra il caldo, le fughe improvvise in cima agli alberi e i doveri da Gopanda-Leta, il tempo per stare con Ranuncolo fu poco, però Wal cercò ugualmente il momento giusto per scusarsi con lui.
In fondo glielo doveva, anche se aveva mentito. Perché senza le sue droghe non impiegò molto a rendersi conto che non avrebbe potuto arrivare fin dove era adesso. Gli bastò un solo giorno per convincersi che non ce l'avrebbe fatta senza le sue pozioni. Le sole forze di un uomo non sarebbero bastate per soddisfare tutte quelle donne. Era troppo, per chiunque, benché giovane e forte. In fondo Ranuncolo era stato chiaro: o accettava le regole dei Ratnor, oppure poteva considerare terminata la sua libertà di movimento. L' avrebbero seguito, controllato e forse avrebbero trovato il modo di eliminarlo prima del tempo. Sapeva che i Ratnor non erano contenti di lui, ma se voleva ottenere la sua libertà, se voleva avere anche solo una possibilità di portare a compimento il suo piano, doveva comportarsi come si aspettavano da lui. Che gli piacesse o meno, non aveva nessuna importanza. Il cammino scelto era ancora lungo, i pericoli molti e in parte sconosciuti.
Voleva farla finita con quella gente viziosa e corrotta che lo ospitava. Difficilmente avrebbe saputo spiegare a parole quello che provava. Forse semplicemente li riteneva indegni di vivere. Orribili aberrazioni, ecco cosa erano. Avevano forzato la natura obbligandola a seguire un corso che non aveva diritto di esistere. Sapeva di non conoscere ancora tutto di quel popolo, però quello che sapeva gli bastava per comprendere che non voleva avere più nulla a che fare con loro. Per quanto tutta la sua gente, i Vareghi, si fosse comportata in modo ipocrita con lui, i valori, le azioni, il rispetto per la vita erano veri e reali, tangibili quanto dure e difficili erano le condizioni della loro vita. I Ratnor invece erano viziati e viziosi, insulsi davanti alle difficoltà, inetti nell'affrontare la vita. Vivevano in una abbondanza che non bastava mai. Ne avevano così tanta da non calcolare più quella degli altri. La sofferenza degli altri era solo un fastidio da evitare. Erano così presi a pensare al loro benessere individuale, da aver perso di vista qualunque altra cosa che non fossero loro stessi. Nessuno lo conosceva realmente o desiderava farlo: era soltanto un giocattolo utile finché non si rompeva.
Andò quindi da Ranuncolo. Gli spiegò quello che aveva appreso e gli chiese di aiutarlo. Lo fece in modo umile e per la prima volta si accorse che il Sednor non lo trattava come un ragazzo, un allievo a cui dover insegnare ogni cosa. Per la prima volta ebbero un confronto alla pari, in cui l'uno e l'altro si ritrovarono complici in qualcosa che andava oltre a loro stessi.
Per dimostrargli che aveva ancora fiducia in lui, Wal bevve la pozione che gli venne porta e, benché sperasse di non essersi sbagliato, vide che Ranuncolo mantenne la parola data. La droga che gli diede non ottenebrò la coscienza, lo rinvigorì soltanto senza togliergli la volontà.
Era salata, asprigna, dai forti sentori di muschio ed erbe della foresta, però funzionò alla perfezione. Grazie a essa, il giorno dopo affrontò le Ratnor con una determinazione e una rabbia tali, da lasciarle sconvolte e soddisfatte, pronte a vantarsi con quelle che non avevano giaciuto con lui.
Ben presto la voce circolò, lo scontento scomparve e la fila delle richiedenti si allungò a dismisura. Benché la sua insaziabile resistenza lo portasse a non esaurirsi mai, non provava niente nei confronti di quelle donne. Dava loro ciò che volevano, sia che fosse gioia o dolore, vergogna o disgusto. Faceva soltanto quello che doveva, perché così doveva essere fatto.
Ma appena poteva, appena anche l'ultima di esse se ne andava sorridente dalla sua camera, fuggiva e andava a rifugiarsi sull'albero, a respirare un poco di aria fresca e pulita. Voleva allontanarsi da tutto per riflettere e vedere ancora il lento, costante movimento di quel mare verde che sovrastava quella foresta stagnante di sudore e zanzare.
Ne aveva bisogno, perché in fondo era il mare che gli mancava. Il suo mare, freddo, ostile e implacabile con i deboli. Il suo mare che aveva saputo dare tanto a chi lo rispettava e così poco a chi non seguiva le sue spietate leggi. Il mare che aveva saputo forgiare una razza di uomini duri come il ferro e spietati come il gelo dei suoi inverni, ma saldi, forti e orgogliosi di quello che avevano costruito con le loro sole mani. Forse non l'avrebbe rivisto mai più, forse avrebbe dovuto ricordarselo per tutta la vita senza più solcarlo, ma quello che aveva imparato da lui, quello che le acque gelide gli avevano dato, quello, lui se lo sarebbe portato dentro e gli avrebbe sempre ricordato quello che in fondo era: un Varego, un uomo del Nord. Un testardo, cocciuto, implacabile uomo del Nord più lontano, che non si fermava davanti a nulla, nemmeno davanti a quello che avrebbe piegato qualunque altro uomo.
Una sera, poi, in cui l'aria nella sua stanza era particolarmente calda e asfissiante, non riuscendo ad addormentarsi e stanco di rigirarsi inutilmente nel letto, si avventurò su per i conosciuti passaggi tra le foglie e arrivò, in cerca di fresco, al ramo che ormai considerava un amico. Quando vi arrivò rimase abbagliato dalla bellezza delle stelle che splendevano limpide e serene rischiarando della loro fredda luce tutto il mondo fin dove lo poteva scorgere.
La luna, nel suo ultimo quarto, inondava di un chiarore argenteo le cime degli alberi, i quali, giocando con essa, formavano ombre fuggevoli che apparivano e scomparivano come onde in un mare in tempesta.
Era la prima volta che saliva sull'albero di notte e rimase stupito da quello che vide.
Tutto era perfetto, silenzioso e in pace.
Si lasciò trasportare da una sensazione di benessere e dal fruscìo costante del vento sulle foglie che danzavano solamente per lui. Sotto quella luce perfetta perfino il pennacchio del vulcano pareva meno minaccioso. Le difficoltà che doveva affrontare erano una piccola cosa in confronto alla maestosità di quello che vedeva.
Fu talmente assorto a guardare quella meraviglia, che quella sera, sull'albero, nemmeno si rese conto di non essere solo.
Su di un ramo un poco discosto, leggermente più in alto del suo e in penombra, vi era una donna, giovanissima all'apparenza, una Yaonai, vestita di foglie come l'albero su cui si trovavano. I lunghi capelli argentei arrotolati a vita gareggiavano in splendore con i raggi della luna e il volto, dolce e gentile, gli sorrideva, benché lui nemmeno si fosse ancora accorto della sua presenza. Guardandolo così assorto a bearsi della bellezza di quella serata estiva, la donna, furtiva, nel timore di spaventarlo e farlo cadere, prese a cantare. Con voce sottile imitò il suono del vento, proseguendo con note più alte perché si voltasse dalla sua parte.
Quando poi, finalmente, lui si voltò e la vide, sebbene sorpreso non se ne spaventò, quasi che trovarla lassù, di notte, sotto le stelle, fosse soltanto la fine di un'attesa già prolungatasi per troppo tempo. Era un piacere, un appuntamento rispettato. Nel vederla le sorrise e le fece un cenno di pace che lei ricambiò. Saltando agilmente da un ramo all'altro percorse i pochi passi che li separavano. Quando la raggiunse si accovacciò a cavalcioni del ramo accanto a lei e subito la delusione gli si disegnò sul volto.
"Non sembri contento di vedermi, Padre di Tutti" gli disse lei con voce suadente "Ti ho forse deluso? Ho mancato in qualcosa?" Sembrò sinceramente dispiaciuta e nella sua voce ci fu una nota di sconforto. I suoi dolci occhi si abbassarono confusi.
Lui si accorse di non essere stato gentile nei confronti di quella donna, ma in effetti non era chi aveva sperato di vedere. La delusione che aveva provato era reale, eppure ciò non rendeva meno gretto il suo comportamento verso di lei.
"No, è che pensavo che fossi mia moglie, Salice che Ride" le rispose ricambiandole il sorriso.
"Capisco" fece lei "In effetti mi ha detto che vi siete lasciati in modo un po' burrascoso, l'ultima volta che vi siete visti".
Una luce di speranza accese gli occhi di Wal:
"Ti ha detto... quindi l'hai vista!".
"Sì, Gopanda. È dispiaciuta di essersi allontanata in quel modo, ma a noi Yaonai non piace essere aggredite".
"Ti ha raccontato, quindi. In effetti non mi sono comportato molto bene" aggiunse affranto "Molte volte ho desiderato scusarmi con lei, ma non ho più avuto modo di farlo".
"Lei lo sa, stai tranquillo" lo rassicurò la Yaonai, facendo muovere il vestito che frusciò sommessamente. Nell'aria si disperse un gradevole profumo di viole di campo e liquirizia. Wal lo inspirò a fondo e non lo riconobbe. Era la prima volta che incontrava quella donna pianta. Doveva essere cauto. Sapeva quanto fossero ritrose al farsi vedere dagli uomini e questo gli punse la curiosità.
"Dolce signora" le disse " Hai un gradevolissimo profumo".
Lei gradì il complimento. I suoi capelli, sfiorati da un raggio di luna, rifletterono luminosi e lui si ricordò di sua madre, quando si lavò nella pozza d'acqua e lui la scambiò per una strega. Sorrise e la cosa non sfuggì alla Yaonai.
"È così difficile capire cosa pensate voi uomini del Nord" gli disse "Mi è parso di vedere ancora del dispiacere sul tuo volto, eppure non pensavo di aver fatto qualcosa di sconveniente".
Lui si rese conto quanto poco conoscesse quel popolo misterioso e riservato. Si affrettò a rassicurarla.
"Non hai fatto nulla, non temere. Erano soltanto ricordi che ogni tanto tornano a farsi sentire".
"Mi dispiace che tu abbia tante cose che ti rattristino, giovane uomo" aggiunse lei suadente "Mia Madre mi ha inviato proprio per questo: per rassicurarti".
"Salice che Ride? È tua madre?" fece sorpreso e la Yaonai fece un altro dei suoi sorrisi sommessi.
"Lei è madre di tutte noi, giovane uomo. Ogni Grande Madre lo è, credevo lo sapessi" aggiunse in tono di rimprovero.
Lui abbassò il capo sconsolato. Aveva ancora sbagliato e si chiese quando mai avrebbe imparato a trattenersi nel parlare. Gli sembrava di essere così inetto verso tutto quello che lo circondava che sospirò forte. La Yaonai sorrise più forte.
"Vedo che ambedue non facciamo che confonderci. Forse sarà per questo che i nostri popoli preferiscono vivere separati" gli disse comprensiva. Con la mano lunga e affusolata gli sfiorò il volto. Preso alla sprovvista, Wal sussultò al tocco freddo delle dita sulla sua pelle. La mano, la pelle, il vestito, tutto in quella donna profumava di viole e liquirizia. Wal si inebriò in quel contatto, lo inspirò a fondo e lei, confusa, si ritrasse veloce. Per un attimo parve addossarsi al tronco e scomparire, confondendosi in esso.
"Perdonami, dolce Yaonai" le disse veloce Wal "Mia madre, Yaonai come te, quando ero piccolo mi sfiorava il volto come hai fatto tu, e ne annusavo l'odore, come hai visto. Era a lei che pensavo poco fa. Non avertene, conosco così poco di voi e qualcosa di te me la ricorda".
Lei parve tremolare come l'aria calda estiva, poi tornò a essere completamente visibile e gli sorrise comprensiva. Fu lei a sospirare questa volta.
"So che per metà sei Yaonai e per questo ho accettato di incontrarti. Ma non credere, per me è difficile lo stesso. Non mi fido di voi uomini. Ma conobbi tua madre quando era poco più di un seme e quando se ne andò al Nord provai un grande dolore" disse mesta "Ognuna di noi deve seguire la strada che il Fato ha disegnato per lei".
Quelle parole fecero sussultare il cuore a Wal.
"Davvero la conosci ! Sai dove si trova?" disse precipitoso, ma la sorpresa e il desiderio di sapere di sua madre erano stati troppo improvvisi.
"Non essere impaziente, giovane uomo. Anche se la tua razza non è longeva come la nostra, avrai tempo da passare con Salice nel Vento".
"Sul serio? Quando?" le chiese speranzoso. Lei scosse piano la testa.
"Presto, solo questo posso dirti. Non è mio compito risponderti. Sappi solo che presto vi incontrerete".
Quando udì quelle parole, a Wal si tolse un peso dal cuore.
"Grazie per avermelo detto..." le disse e, al colmo della gioia, fece per chiamarla per nome. In quel momento si accorse di non saperlo.
" ...come posso ringraziarti se nemmeno conosco il tuo nome, mia bellissima signora? Se ti è permesso dirmelo, sarei immensamente felice di conoscerlo".
"Certo che posso dirtelo" fece lei divertita "Io sono Faggiola e questa è la mia Scheggia" aggiunse facendo un ampio gesto: gli mostrò le foglie e i rami che li circondavano.
"L'albero? La tua Scheggia?" fece lui allibito.
"Certo, la mia casa e la mia forza. Lei e io siamo una cosa sola. Corpo e anima. Quello che succede all'uno, l'altra lo patisce. Chissà come soffrirà quando la dovrò lasciare" Sospirò così forte che Wal sul momento credette stesse scherzando. Ma quando la vide rattristarsi mentre accarezzava dolcemente il ramo su cui sedeva, capì che non scherzava.
"Se mi è permesso chiedertelo, perché dovresti lasciarla?".
Lei lo guardò perplessa.
"Sei uno strano uomo, tu" gli disse fissandolo intensamente negli occhi. Un rapido luccichìo di luce le illuminò le pupille di un intenso verde bosco:
"Tu sei il Gopanda-Leta e il Padre di Tutti non chiede, prende quello che vuole".
Lui scrollò le spalle:"A me va bene così. Ma ti prego, rispondimi". Soddisfatta lei riprese.
"Io sono stata scelta per seguire le orme di Salice che Ride. Lei stessa me lo ha comunicato e io ho accettato" abbassò lo sguardo, improvvisamente irata "Un grande onore, non saperlo da Flot di Yasoda. Quando lei cingerà il capo con il Diadema della Vita, sarò io a toglierglielo. Da quel momento il suo e il mio destino saranno segnati".
La tristezza sul volto della donna si mescolò con la malinconia della voce e vederla così mesta fece male a Wal. A fatica si trattenne dal sfiorarle una mano. Non sapeva di cosa parlasse, ma era evidente che lei non volesse farlo. Il sangue gli andò alla testa.
"Rifiuta! Cosa ti obbliga ad accettare?" urlò quasi.
La Yaonai si allarmò e indietreggiò verso il tronco. Iniziò a confondersi con la corteccia dell'albero. La sua immagine vacillò, si fece eterea e parve scomparire nel legno.
<Dovevo saperlo> pensò lui. Si vergognò delle sue parole e abbassò il capo. Se voleva rimediare a quello sbaglio doveva fare in fretta perché in breve Faggiola sarebbe scomparsa del tutto.
"Scusa, non volevo spaventarti" le disse con occhi supplicanti:"Sono solo uno sciocco uomo che non sa capire. Prosegui, ti prego, e prometto che non ti interromperò più".
"Rifiutare? Se potessi sradicare la mia Scheggia fuggirei, come fece tua madre" disse lei mesta, scrollando la testa "Ma io non ho il suo coraggio. Non posso abbandonarla. Flot di Yasoda, che il suo dio lo maledica, la farebbe abbattere e bruciare".
"Farebbe questo?" disse sorpreso Wal. Lei annuì piano.
"Con il fuoco ci tiene prigioniere da secoli, non lo sapevi? Ci ricatta da quando ha preso il potere: o facciamo quello che vuole, oppure da alle fiamme le nostre Schegge. Tra noi poche hanno il coraggio di abbandonarle. Lui lo sa e ci tiene in pugno. Non ho scelta, come vedi".
Accarezzò con una tal impotente dolcezza la corteccia su cui sedeva, che lui non poté non accorgersi che piangeva. Le spalle della Yaonai, leggermente curve, sussultavano ogni volta che cercava di trattenersi. Forse fu solo un caso, non avrebbe saputo dirlo con certezza, però gli parve di sentir fremere le foglie, quando una lacrima della donna cadde sul ramo.
Per quanto si sforzasse a restare impassibile, Wal rimase incredulo ad ascoltare le parole di Faggiola e la rabbia si impossessò nuovamente di lui. Ma questa volta verso Flot, il suo amico. Anche se gli aveva salvato la vita, le cose che continuava a sapere nei suoi confronti lo confondevano e lo deludevano sempre più.
Omicidio, violenza, ricatto, cosa altro ancora dovrà scoprire? Quante infamie ancora gli aveva nascosto?
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