8e) LE SORELLE RITROVATE
L'incertezza e il dubbio rodevano l'anima di Baliji, tuttavia non sapeva trovare soluzione migliore che andare a ritroso come stavano facendo.
Dovevano restare uniti, perché da solo non ce l'avrebbe fatta a portare fuori dal vulcano Gioturna.
Lo sapeva chiaramente.
Per il momento lui era soltanto l'esca che serviva per attirarla, ma senza i suoi compagni a difenderlo dai suoi attacchi, Gioturna l'avrebbe già sopraffatto.
Al momento erano loro le pedine fondamentali di quel gioco mortale e solo dopo, alla fine di tutto e per un breve momento, il Padre di Tutti avrebbe dovuto combattere con lei, ma a quello ancora preferiva non pensare.
Non aveva assolutamente idea di come avrebbe potuto abbattere quell'essere immondo con le sue sole forze, tuttavia ora doveva pensare ad altro: ora doveva concentrarsi a portare in salvo tutti quanti i suoi compagni.
Continuarono arretrando costantemente, mantenendo ognuno la propria posizione. Gioturna rantolava e grugniva ogni volta che li vedeva ancora sfuggire, eppure non si fidava ad avvicinarsi troppo.
Si comportava come la fiera che temendo di essere ferita dalla preda, attendeva il momento adatto per colpire.
Di quando in quando la sua voce cavernosa raggiungeva il piccolo gruppo.
"Fermati, uomo, sei mio!" sussurrava indispettita "Dammi quello che è mio, non fuggire!", ma nulla di più di questo osava fare per timore di essere ferita.
Lui nemmeno l'ascoltava e in risposta faceva tintinnare l'anello sulla spada di Alfons.
Continuarono quel gioco per un tempo che parve infinito, poi finalmente giunsero alla stanza di Aldaberon e di Salice Splendente.
Erano a buon punto della risalita. Baliji benedì quella visione.
Erano tutti esausti, assetati e senza forze. Le gambe erano doloranti e i muscoli delle braccia rattrappiti.
Da un momento all'altro avrebbero potuto crollare in terra senza avere più la forza di rialzarsi.
Il caldo e la tensione li avevano spossati e non avrebbero resistito ancora a lungo se non fosse cambiato qualcosa.
Se non altro la temperatura dell'aria lentamente scendeva e permetteva di respirare meglio.
Nel vedere sulla sinistra la porta scura della stanza scavata nella roccia, Baliji sospirò di sollievo: mancava poco, finalmente erano quasi arrivati.
Eppure Gioturna, inaspettatamente esitò.
Parve tardare questa volta, restò indietro, lontana, oltre alla curva che la proteggeva dai loro colpi e non si affacciò.
Anche lei era affannata, stanca, rantolava di volta in volta sempre più profondamente.
Muoversi su quel tappeto di liane non doveva essere semplice, dopotutto.
Ormai nemmeno diceva più a Baliji di fermarsi, lo seguiva e basta, badando a non farsi vedere.
Sperando che non si fermasse proprio ora, il gruppo arretrò ancora.
Dopo non molto i sei giunsero nei pressi della stanza del Maestro del Sole e a Baliji vennero i brividi.
Quando alle sue spalle vide la curva, sospirò soddisfatto; ce l'avevano quasi fatta.
Poi però ci ripensò: c'era ancora una svolta, una soltanto e poi il rettilineo.
Nonostante il caldo, sudò freddo al pensiero del problema che prima gli era sfuggito.
Solo ora si era ricordato che dopo a quell'ultima svolta, la galleria correva diritta fino all'uscita.
Dopo aver svoltato, da lì in poi non avrebbero più avuto spesse pareti di roccia a salvarli dagli aculei di Gioturna.
Sarebbero stati completamente allo scoperto in balìa dei suoi attacchi.
Avrebbe dovuto inventarsi qualcosa e non aveva idea di cosa.
Toccava a lui pensarci e doveva fare in fretta, ora, subito, prima che fosse troppo tardi.
Avrebbero dovuto percorrere una cinquantina di passi in linea retta senza altra protezione che il loro coraggio e contro Gioturna questo era troppo poco.
Sarebbe stata una prova difficile per tutti, specialmente ora che erano spossati e non avevano più riserve a sostenerli per un così lungo tratto di corsa.
Dovevano provare a mettere una distanza maggiore tra loro e lei e, al momento giusto, fuggire veloci.
Avvisò gli altri, con pochi segni li convinse a seguirlo il più lestamente possibile prima che Gioturna si accorgesse del cambiamento di strategia e anche lei svoltasse l'ultima curva prima del rettilineo.
Appena oltre la sporgenza rocciosa si voltò e guidò la fuga che ben presto si trasformò in una precipitosa rotta.
Nessuno badò più a nessuno, ognuno pensò per sé.
Finalmente videro la fine della galleria: all'esterno era ancora buio, anche se già si intravedevano le penombre che anticipavano l'alba.
Erano arrivati in tempo, forse mancavano non più di quindici, venti minuti al sorgere del sole. Ce l'avevano quasi fatta.
Giunti a metà del rettilineo udirono un urlo bestiale alle loro spalle.
Gioturna li aveva visti e si era accorta della fuga.
Comprendendo l'inganno, ritrovò improvvisamente le forze.
"Fermati, maledetto!" gli urlò dietro, tanto forte da far vibrare la roccia.
Era stata ingannata da quegli stupidi uomini e la sua reazione fu immediata e tremenda.
Colta da una rabbia improvvisa, fece schioccare in aria la liana e la scagliò verso i fuggitivi. Un pungiglione volò veloce dietro di loro.
Tutto successe in un attimo, nessuno avrebbe potuto fermare un colpo così violento. Se Faggiola e Radice non vennero colpiti dall'aculeo, furono solo fortunati.
Nella foga della corsa si scansarono appena in tempo per vederselo passare accanto, ma altrettanto fortunate non furono le Yaonai che li precedevano.
Quella che portava la bottiglietta venne colpita in pieno.
Lanciato con furia inaudita l'aculeo le sfondò lo scudo sulla schiena e si piantò in profondità nelle carni passandola da parte a parte. La donna della foresta urlò di dolore e di terrore mentre il mostruoso arto le si arrotolava attorno al petto per non lasciarla fuggire.
Una larga chiazza di linfa verdastra imbrattò il vestito della Yaonai che cadde in ginocchio, cercando con lo sguardo l'aiuto delle sorelle, ma queste, impietrite dal terrore contro la roccia, non poterono che assistere impotenti alla sua fine.
Eppure la malcapitata Yaonai seppe stupire tutti.
Il suo ultimo pensiero andò alla bottiglietta che teneva in mano, fece per passarla a una compagna, tuttavia nessuna ebbe il tempo di fare nulla.
Strattonata con forza disumana la sventurata si ritrovò a rotolare lungo il pavimento, incapace di fermarsi o difendersi.
Gioturna la tirò a sé sibilando di piacere.
La Yaonai urlò di dolore e di paura e gli altri non poterono fare altro che osservare la sua fine.
Nonostante quella creatura indifesa fosse terrorizzata dal dolore e dalla paura, non mollò la presa dalla bottiglia, la protesse, la strinse forte e fissò la sua carnefice diritta nell'unico occhio sano.
Sembrava che tutto fosse già finito, stabilito e certo, invece un attimo prima di essere assalita dalle liane pronte ad arpionarla e ucciderla, la Yaonai ebbe la forza di lanciare l'ampolla in faccia a Gioturna.
Urtando violentemente contro bozzi e spine, il delicato vetro si frantumò.
Mentre la sventurata donna veniva zittita da decine di spine e trascinata di scatto dentro al corpo dell'Immonda, il liquido luminoso della bottiglia colò sul volto, attorno e dentro all'unico occhio sano di Gioturna.
L'Immonda tentò di fermarlo, con la mano si protesse l'occhio e cercò di togliersi quel liquido denso e viscoso da dosso, ma era tardi, il contatto del liquido con la cornea avvenne in un urlo di fumi sfrigolanti.
Inorriditi e impotenti i cinque videro il supremo sacrificio di una loro compagna andare a segno, dandogli il tempo di cui avevano bisogno per salvarsi.
Vennero tutti presi dal panico.
Corsero come disperati verso l'uscita, pensando solo a sopravvivere.
Ormai non c'era più amicizia, onore o fede a trattenerli. Nulla esisteva all'infuori della folle paura della morte.
A spingerli avanti c'era una tremenda fame d'aria che li portava verso una salvezza che vedevano appena fuori al portale.
Nelle orecchie le urla della compagna li tormentava: implorava, supplicava, la vedevano ancora scomparire assorbita dentro il groviglio di liane e dardi, senza che potessero fare nulla per impedirlo.
Repulsione e orrore per la loro viltà li fecero correre più forte, eppure la vergogna fu nulla se paragonata al terrore di subire la medesima sorte della Yaonai arpionata da Gioturna..
Per alcuni istanti niente esistette oltre a questo, soltanto la voglia di salvarsi e vivere ancora.
Man mano che si avvicinarono all'esterno videro il cielo farsi più chiaro e l'aria diventare più fresca.
Poi improvvisamente furono fuori, nel freddo e nella polvere fradicia.
La pioggia aveva smesso di cadere. Nel grigiore di un mondo condannato, si ritrovarono nel fango fino ai polpacci.
Avevano i brividi, erano sfiniti, però il sacrificio della povera Yaonai li aveva salvati. Erano vivi, respiravano a pieni polmoni quell'aria pesante e sporca incapaci di pensare ad altro se non di respirare. Si allontanarono ancora, barcollando spossati.
Inciamparono, caddero a terra, fecero fatica a rimettersi in piedi.
Si ritrovarono sudici dalla testa ai piedi, con il fango che colava da ogni parte.
Si appoggiarono alle mani, alle armi, scivolarono miseramente.
Poi, ritrovando nuovamente uno scampolo di umanità, si aiutarono l'un l'altro, ma cadendo nel fango le bottigliette si insudiciarono a loro volta e a malapena se ne intravide ancora il chiarore.
Si ritrovarono immersi nel buio che precedeva l'alba.
Già un alone di luce si sollevava lento oltre la foresta.
Si voltarono a guardare speranzosi: ce l'avevano fatta, erano salvi. Poi un verso sordo e rauco li riportò alla realtà.
Lentamente si voltarono: Gioturna li aveva raggiunti.
Dall'antro scuro del vulcano sbucò la figura dell'Immonda.
Erano vicini, non più di dieci passi li separavano da lei.
Nonostante il fango e l'aria ammorbata dai gas dell'eruzione, ne avvertirono la puzza. L'illusione di essere in salvo era durata poco.
Si videro ancora perduti, quando appena oltre la soglia della galleria l'Immonda si fermò, proprio sotto la scritta di Walpurgis.
Tastando la fanghiglia viscida che le sbarrava la strada, le liane guizzarono innervosite da una parte all'altra in cerca di un passaggio libero che non trovarono. Non sapendo cosa fosse quella materia fredda e molle, Gioturna temette una trappola o un inganno. Ne ebbe paura.
L'aver perso l'immortalità, il fortuito colpo alla mano di Faggiola e la bottiglia di liquido della Yaonai, l'avevano resa pavida e timorosa.
Il volto e le spalle le fumavano di liquido luminoso e denso.
La preziosa linfa della Grande Madre ancora le bruciava la spessa pelle corrodendola poco alla volta.
Tuttavia l'essersi saziata di carne e di linfa le aveva fatto ritrovare un vigore che aveva dimenticato.
Erano giorni che non si cibava e iniziava a sentirsi debole, ma quella giovane Yaonai fu provvidenziale a ridarle le forze.
Stava eretta, urlando lo chiamò forte: "Umano, dove sei, fatti vedere, ridammelo, è mio!" .
Lo intimorì facendo schioccare la liana in ogni dove, ma al momento furono solo minacce vuote. Avanzò piano, non sapendo dove andare se non contro alla fanghiglia che non si fidava a calpestare.
Disperati uomini e Yaonai si guardarono attorno in cerca di una via di fuga, ma dopo poco capirono di trovarsi in trappola.
Erano sull'unico spiazzo pianeggiante della zona, oltre a quello erano tutte rocce e anfratti nascosti, troppo insidiosi per pensare di attraversarli in fretta.
Fuggire ancora non avrebbe avuto senso. Rassegnati abbassarono le teste.
Infine li aveva raggiunti. Era esausti, spossati oltre l' umanamente accettabile e le gambe faticavano a sorreggerli.
Quell'ultima, disperata corsa per arrivare all'aperto, li aveva svuotati di ogni forza. Con tutto il fango che li circondava, pensare di mettersi a correre su di un terreno accidentato e insidioso come quello sarebbe stato impossibile.
Se non fosse successo qualcosa entro breve, sarebbero stati perduti e tutto sarebbe stato inutile.
Attesero in silenzio pronti a vendere a caro prezzo la pelle, eppure, pur avendoli davanti a sé inermi e indifesi, Gioturna si guardò attorno incerta.
Fissava in alto, come cercasse qualcosa.
Dal limitare degli alberi, proprio alle spalle dei fuggitivi, un alone chiaro si sollevò rapido: l'alba era vicina.
Entro pochi minuti il sole sarebbe apparso. Dovevano resistere ancora un altro po'. Baliji, Radice, Faggiola e le Yaonai alzarono in silenzio le armi pronti a difendersi.
Da un momento all'altro si aspettavano un colpo che li avrebbe devastati tutti, tuttavia questo non venne.
Invece di colpirli, il lungo braccio uncinato vagò avanti e indietro, quasi volesse tastare i dintorni.
Era strano, troppo strano quel comportamento, poi Baliji guardò meglio il volto dell'Immonda e comprese.
L'unico occhio di cui disponeva era ustionato e opaco: non vedeva! Non li vedeva!
Il fango, l'oscurità della foresta alle spalle, il sole in fronte a Gioturna, quello li aveva salvati fino a ora!
Erano sudici di fango come ogni cosa attorno a loro e se rimanevano in silenzio non li poteva identificare.
A gesti ordinò a Radice e a Faggiola di lanciare contro alla creatura le bottigliette piene di liquido corrosivo che restavano.
Con cautela i due si alzarono e lanciarono. Quando le ampolle colpirono il corpo deforme e si spezzarono, il liquido luminoso le colò lungo la spalla corrodendola piano.
L'Immondo arto uncinato sfrigolò sciogliendosi poco alla volta.
Dal legno e dalle foglie si sollevò un fumo denso e puzzolente, lei, rendendosi conto dell'accaduto, urlò dalla disperazione e dallo spavento.
Tentò di toglierselo di dosso con la mano, si scosse, fece per avanzare, ma si trovò bloccata dal fango.
Forse incapace di reagire per la prima volta dopo un' Era intera, Gioturna ebbe paura.
Chiamò forte il nome della sorella, Karahì!.
Ne invocò l'aiuto.
Il suo urlo disperato e bestiale si perse nel silenzio e dopo poco ebbe risposta.
Dalla foresta si udì arrivare fin allo spiazzo fangoso un lungo e sommesso belato.
Era lugubre come l'ululato di un lupo affamato.
Uomini e Yaonai si guardarono sgomenti.
Karahì era giunta e portava con sé il suo esercito di mostri.
Erano in trappola, non avevano più scampo. Si strinsero per darsi coraggio. Non trovando la forza di dire una sola parola, tacquero.
Baliji non volle ancora arrendersi.
Sentendo una rabbia impotente montargli dentro volle provare il tutto per tutto. Non poteva accettare di essere giunto fino a lì senza nemmeno provare a uccidere quell'essere Immondo.
Lo doveva a tutti, a suo nonno, a se stesso, a Mirta, alle Yaonai.
Non poteva aver fatto tutta quella strada per niente.
Strinse forte la spada di Alfons, si fece largo tra i compagni e avanzò a fatica nel fango.
Gioturna, incoraggiata dalla risposta della sorella, fece un baccano infernale, seguitò a chiamarla ancora, vinta dalla paura.
Implorava di venirle in soccorso e non poté udire il rumore dei passi dell'uomo.
Il Varego si tenne basso, percorse quasi la metà della distanza che li separava illudendosi di potercela fare, quando un colpo tirato a caso dalla liana lo raggiunse al capo. Crollò nel fango, portandosi le mani alla testa.
Radice fece per portargli soccorso, ma Faggiola lo fermò.
Alle loro spalle, gli fece cenno di guardarsi indietro. Indicò il limitare della foresta: tra gli alberi erano comparsi i mostri di Karahì e in mezzo a loro, c'era lei, la Cerva Bianca dal Nero collare di Ghiaccio!
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