6b) LA RADURA
Sentendo l'appello che Baliji rivolse prima ai due Vareghi e poi a Radice, anche Scorza, Gabriel, Balàn e Arturo si fecero avanti a loro volta.
"Siamo tutti con te, se ci vorrai, Leta" fece l'anziano suonatore di arpa.
Gli altri Tumbà, senza dire nulla, uno a uno, assentirono. Nonostante la paura che attanagliava il coraggio di tutti quanti, quegli uomini avrebbero corso qualunque pericolo assieme a lui.
Baliji li guardò riconoscente, quasi incredulo di tanta devozione, poi incrociò lo sguardo di Mirta.
Quegli occhi nascondevano una muta richiesta d'aiuto.
Anche se non diceva nulla, la Sednor era visibilmente preoccupata. Forse per lui, o per se stessa, di sicuro per il nascituro, e lui lo capì.
Se lo seguivano tutti andando incontro a una fine quasi certa, lei sarebbe rimasta sola con il padre. Era poco, troppo poco per garantirle una certa sicurezza.
La Grande Madre aveva detto bene, lei portava il futuro ed era a quello che si doveva pensare. Non poteva lasciarla così.
Almeno lei doveva avere una possibilità di scappare prima che fosse troppo tardi e se Neko aveva trovato il modo per costruire un ponte, assieme a lei ci voleva chi sapesse condurla fino alla caverna.
Inoltre la donna aveva bisogno di gente fidata, qualcuno che fosse disposto a tutto pur di proteggerla nella foresta. Partendo presto e camminando decisi avrebbero raggiunto i monti nel primo pomeriggio. Forse avrebbero potuto evitare la neve, se partivano subito.
"Vi ringrazio, amici miei. Tutti, indistintamente vi vorrei con me, eppure solo Gabriel verrà. Tu, Scorza, farai da guida a Mirta e la porterai fino a Neko sui Monti Anunna. Voi due invece, Balàn e Arturo, li proteggerete entrambi. Accettate?".
Sorpresi e dispiaciuti per non poter andare con Baliji, a malincuore i tre Tumbà accettarono.
Un cenno tra loro fu sufficiente per intendersi. Sarebbero rimasti.
Infine, poco prima di partire, Baliji e Mirta si salutarono brevemente; fu un saluto triste, che non aveva bisogno di parole per sapere che avrebbe potuto essere l'ultimo.
Eppure, benché il ragazzo fosse lacerato dall'idea di andarsene e lasciarla sola al villaggio, dopo un momento si staccò da lei.
Se fosse rimasto ancora pochi attimi stretto al suo seno, non avrebbe più avuto la forza di farlo.
Lei comprendendolo non si oppose, ma prima di lasciarlo andare gli porse un tascapane: dentro vi erano dell'acqua, un po' di cibo, il ramo di vischio e le quattro ampolle di linfa luminosa.
"A presto" gli disse, poi tornò vicino a suo padre, Ranuncolo "Partiremo anche noi appena pronti".
Baliji mise la sacca a tracolla sotto il mantello Tumbà, prese lo spadone e poi fece un cenno ai suoi amici. Uscirono in fretta senza dire altro.
Rapidamente scesero lungo l'albero e ad attenderli alla fine della spirale trovarono Faggiola assieme agli altri nove Tumbà degli equipaggi delle barche.
Fu sollevato nel vederli, li salutò e li guardò bene uno a uno, non erano feriti, anche se nei loro sguardi, al pari di tutti lesse preoccupazione e paura.
Fu soddisfatto delle loro condizioni: erano provati, come tutti nella notte avevano riposato poco, però sembravano in forze e in buona salute.
Erano tutti vestiti pesantemente e avevano con sé i coltelli Tumbà negli stivali. Ognuno di loro aveva una sacca con acqua e cibo, per cui sapevano di dover partire. Molto bene, tutto sarebbe stato più semplice, allora.
Guardandosi attorno Baliji non vide altre Yaonai, ma era certo che fossero nascoste nei dintorni assieme alle loro Schegge.
Si rivolse a Faggiola che sollevò fiera il mento.
Una leggera armatura in metallo le proteggeva il petto, i lunghi capelli erano intrecciati e arrotolati attorno alla vita; al fianco, da sotto il mantello Tumbà, spuntava la pesante sacca con le ghiande.
"Benvenuto, mio signore" gli disse la Yaonai andandogli incontro " Mi auguro che tu possa aver riposato bene".
"Reverenda Madre" le rispose con un leggero inchino " Visto le condizioni, non avrei potuto desiderare di meglio, grazie", poi senza giri di parole le domandò:
"Tu sai cosa succederà oggi?".
La Yaonai si guardò attorno. Osservò i Tumbà, incurante se la ascoltassero o meno.
Una risposta schietta non si fece attendere:
"No, mio signore. So soltanto che prima di sera molti non vedranno il tramonto". Mentre lo diceva era seria, molto seria e la sua schiettezza fece venire i brividi a molti.
Baliji, nonostante il momento poco indicato, trovò la forza di sorridere.
Come era cambiata la fragile, timida ed evanescente Faggiola.
A vederla ora si faceva fatica a immaginare come fosse silenziosa e riservata in un tempo nemmeno troppo lontano. Sembrava un'altra persona.
Tra tutti coloro che vissero il disastro dell'incendio, lei era quella che seppe stupirlo maggiormente per il cambiamento avuto dopo quella tragedia.
"Sai dove andiamo?" le domandò ancora, lei annuì e lui pose alla donna ancora una domanda, quella che temeva più di tutte.
Lo fece a voce alta, in modo che tutti potessero sentire.
Non sapeva se avrebbe avuto la forza di dirlo una seconda volta senza tradire la tensione che provava.
"Faggiola, mi faresti l'onore di condurre me e i miei uomini fino al Centro del Mondo e di combattere al nostro fianco?".
Ancora una volta, lei annuì.
Poi Baliji si rivolse ai nove Tumbà.
"Uomini, vi chiedo l'impossibile. Per la salvezza vostra e del vostro popolo, desidero che cinque di voi vengano con noi e gli altri restino qua, come scorta a Mirta. Per coloro che rimarranno al villaggio, Scorza li condurrà oggi stesso verso i Monti Anunna e prima di sera incontreranno il Grande Vecchio. Per gli altri, verranno con me e al massimo tra un paio di giorni, i più fortunati tra essi li seguiranno andando verso le montagne. Decidete voi chi verrà con me e chi andrà con Scorza, ma sappiate che molti di noi non torneranno indietro. Io non posso decidere per voi e se nessuno vorrà venire, capirò. Ma fatelo ora, perché entro breve noi partiremo".
Non fu necessario attendere a lungo.
Come Baliji ben sapeva, tra i Tumbà vi erano delle regole ferree, che si imparavano fin da piccoli e si rispettavano per la sicurezza di tutto il gruppo.
Una di queste era che tra un uomo sposato e un celibe, se c'era da rischiare, il celibe era sacrificabile.
Tra loro solamente tre erano sposati e avevano famiglia, gli altri erano tutti giovani scapoli.
I nove Tumbà si guardarono, poi uno a uno gli scapoli si fecero avanti e si misero dietro al Varego. Alla fine furono in sei a venire avanti e al sesto di loro Baliji disse di restare.
Scuotendo la testa e mettendogli una mano sulla spalla, gli disse:
"No, tu non verrai con noi. Andrai con Scorza".
Lo conosceva, si chiamava Silvano. Aveva la gamba destra storta, la gobba e trottava tutto il giorno nella foresta senza mai fermarsi, ma sui monti le cose potevano essere diverse.
Poteva essere più lento degli altri ad arrampicarsi sulle rocce e avere bisogno di più tempo per salire.
Lo vide tornare indietro, raggiungere mesto il gruppo di chi sarebbe rimasto e si chiese se, a farlo restare, a quel Tumbà il Fato avesse fatto un favore oppure gli avesse teso una trappola.
Incapace di rispondersi, disse ai quattro rimasti di raggiungere la stanza della Grande Madre e agli altri di seguirlo. Il piccolo gruppo si mise in marcia.
In tutto erano undici, compreso lui e Faggiola.
La più esperta Yaonai fece strada, lui la seguì e dietro seguivano Fredrik, Thorball e Radice. Si mossero veloci, in fila indiana come usavano fare i Tumbà.
Passato l'undicesimo, alla fine della colonna vi erano soltanto un paio di impronte impresse nel sottosuolo morbido della foresta.
Non faceva molto freddo, però nessuno di loro si faceva illusioni: prima di sera il tempo sarebbe cambiato ancora.
Avrebbe piovuto, forse nevicato, di sicuro le temperature sarebbero scese di molto. Ma con l'andatura che si erano imposti, sarebbero arrivati nei pressi del vulcano molto prima del tramonto.
In effetti non ci misero molto ad allontanarsi dal villaggio e quasi subito Baliji si rese conto che a destra e a sinistra del loro passaggio, altre Yaonai li fiancheggiavano. Raramente si facevano vedere, si tenevano distanti, nascoste, però non perdevano di vista la colonna condotta da Faggiola un solo momento.
Erano ombre fugaci che si spostavano rapide da un punto all'altro.
Di tanto in tanto, più lontano nella foresta, nel folto, oltre la visuale degli uomini, i ragazzi udirono dei tonfi pesanti camminare proseguire paralleli a loro e si preoccuparono.
Baliji stesso per un momento temette che la colonna fosse in pericolo, ma Faggiola tranquillizzò tutti.
"Non temete, sono le Schegge. Se ci saranno pericoli, loro saranno le prime ad avvisarci".
Tranquillizzatosi, lui annuì.
Si fidava di Faggiola e se la donna diceva che non c'era da temere le credeva, ma per i Tumbà fu differente.
Ogni cosa era nuova per loro e non cessarono di guardarsi attorno preoccupati.
Non conoscevano la foresta come le Yaonai e in quei luoghi tutto era profondamente cambiato. Ogni punto di riferimento conosciuto era svanito.
Proseguendo a camminare passarono per zone che Baliji vagamente ricordava, però, anche se l'incendio non l'aveva devastata come a Sud, nella foresta i terremoti avevano lasciato dei profondi segni che difficilmente sarebbero stati cancellati.
In alcuni punti la terra si era spaccata, in altri si era sollevata di parecchi metri e grandi alberi erano crollati in terra. Nemmeno qui, qualcosa era rimasto come prima.
Dopo non molto raggiunsero la grande radura della Festa di Primavera.
Oltre a essa, immane e minacciosa, si stagliava nel cielo la gigantesca fumarola che usciva dal vulcano che dovevano raggiungere perché il Fato si compisse.
Benché il sole non fosse già più nitido come all'alba, non era ancora troppo alto e i suoi raggi non la illuminavano tutta, eppure per una Yaonai procedere oltre con tutta quella luce era difficile.
Faggiola fece un gesto e arrestò la colonna su limitare della foresta. Arrivare allo scoperto la turbava. La presenza di Gioturna era stata forte in quel luogo e poteva essere pericoloso attraversarlo. Scrutò in alto, indecisa su cosa fare. Nessuno fiatò.
Attesero tutti in silenzio, sapendo che la decisione doveva essere sua.
La Reverenda Madre sospirò a fondo, ebbe un momento di incertezza e si guardò attorno preoccupata.
Non le piaceva avere il cielo sulla testa, ma quella era la strada più breve da percorrere per arrivare al vulcano e alla fine, per quanto la cosa la turbasse, decise che l'avrebbero percorsa ugualmente. Fece dei cenni verso la foresta e la sue Yaonai scomparvero in fretta.
Faggiola dava ordini con sicurezza via via crescente e Baliji la lasciò fare, felice di non dover badare a quelle cose.
Anche a lui non piaceva l'idea di camminare allo scoperto, inoltre quel posto lo inquietava per quello che rappresentava per lui.
La Yaonai si coprì la testa con il cappuccio e si incamminò veloce.
Seguendola da presso, Baliji si guardò attorno.
Al centro della radura, quasi abbattuto dai terremoti, storto e malinconico, vi era il palo del sacrificio.
Le fascine di frasche secche già portate per il rogo, lo sostenevano ritto come potevano. Anche da lontano lo riconobbe e provò un brivido al pensiero di dovervi essere legato e arso vivo.
Man mano che avanzarono nella piana il Padre di Tutti venne anche colto dai ricordi del giorno del suo matrimonio e dalla malinconia.
Nonostante tutto, quel giorno che ora sembrava lontanissimo nel tempo, gli aveva dato serenità.
Dove ora vedeva focolari spenti e divelti, c'erano fuochi e cibo.
Dove vi erano stati canti, balli, gente felice, ora era tutto silenzioso e devastato. Infine Mirta, che conobbe proprio in quel giorno.
Sembrava essere trascorsa un'eternità da allora, invece erano passati solo pochi mesi. Come erano cambiate le cose per lui, per i Ratnor, per tutti.
Un silenzio lugubre gravava sulla radura e gli fece sentire ancora di più la mancanza della sua donna.
Di quando in quando un colpo di vento portava fino a loro un lieve tintinnare metallico. I Tumbà divennero inquieti, mormorarono tra loro domandandosi cosa fosse, ma lui che sapeva da dove proveniva quel suono, tacque.
A rintoccare era la campanella che si trovava in cima al palo del Sacrificio.
Sarebbe stato difficile spiegare a quei ragazzi che suonava per lui e non aveva voglia di parlarne.
Man mano che si avvicinarono al centro della radura, dalla piccola colonna udirono il rintocco divenire più limpido.
Lieve e triste, pareva volerli salutare.
Poi arrivarono dove si svolse il matrimonio con la Grande Madre e Baliji vide che era deserto.
La siepe di Gioturna era scomparsa. Non vi era più traccia del palco, delle lunghe tavolate e della recinzione centrale.
Le lunghe liane intrecciate erano sparite. Non vi era più nulla, come se non fosse mai esistito niente oltre alla prateria.
Se non fosse stato per il palo colorato, storto, pendente oltre al limite con la campanella che batteva ancora al vento, non avrebbe nemmeno riconosciuto il posto dove avrebbe dovuto consumarsi il suo sacrificio.
Nella sua testa udì i lamenti di tutti coloro che lo precedettero su quelle fiamme. Quel posto era impregnato come una spugna di gemiti, trasudava del tormento di anime e del dolore di corpi straziati inutilmente.
Poi pensò che quello sarebbe stato il luogo del suo supplizio e ringraziò gli Dei dei Sei Elementi per avergli risparmiato almeno quella prova.
Si voltò con disgusto dalla vista del palo.
Non sopportava più di vederlo: quel luogo carico di terrore meritava di scomparire e nessuno ne avrebbe saputo più nulla.
Quasi che il Fato l'avesse udito, la terra tremò ancora.
Ci fu una scossa, lieve in confronto a quelle della notte. Passò in fretta, eppure fu sufficiente a scostare di poco le fascine poste in basso alla pira e a smuoverle dal basso.
Il palo sobbalzò, si inclinò lento e alla fine, scricchiolando cadde.
Fu con enorme sollievo che Baliji lo vide crollare del tutto.
Rimbalzando in terra il pesante palo spaccò la campanella che suonò per l'ultima volta. Anche quell'ultimo segno del potere di Flot di Yasoda e dei suoi Ratnor crollò miseramente sotto i colpi del destino. Poi tutto fu silenzio.
Quando vi passarono accanto la colonna sfilò veloce, degnando appena di uno sguardo il fallimento definitivo dei Perfetti.
In primavera la foresta si sarebbe fatta avanti e in breve si sarebbe nuovamente impossessata di quel posto.
Se la natura avesse avuto il tempo di agire, in poche stagioni avrebbe fatto scomparire del tutto quei trecento anni di follia sotto un strato di erba e cespugli.
Ma poi ci fu un altro sussulto, la colonna di cenere del vulcano ebbe un sbuffo di fiamme e un tremore nella terra ricordò a Baliji che di tempo non ce n'era più molto. Quel tratto di foresta, tutta quella zona, era condannata.
Nessuno avrebbe saputo dire con certezza quanto tempo rimaneva, eppure sentiva che tutto sarebbe finito in fretta.
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