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5d) LA FUNE


La fune strappata dalla furia del vento dalla mano di Noce Vellutata sfilò via veloce, si contorse come un serpente, si tese sulle acque del fiume sotto gli occhi increduli di tutti, quasi a volersi strappare.

Spinta dai vortici d'aria si curvò in alto come se i mulinelli della bufera volessero strapparla dal tronco dell'albero a cui era assicurata, ma alla fine il peso della ghianda ebbe il sopravvento, tornò in basso e dopo un miracoloso rimbalzo sulle rocce, atterrò tra le braccia di un incredulo Lepro.

Il giovane Tumbà, colto di sorpresa, per poco non se la lasciò scappare di mano.

Quando gli cadde addosso arretrò, chiuse gli occhi per lo spavento, gli ci vollero attimi preziosi per riprendersi dalla sorpresa, ma alla fine, resosi conto di quello che stava accadendo e della fortuna che aveva avuto, gesticolò nell'aria, annaspò furibondo fino a quando non sentì la corda stretta tra le dita e non la mollò più.

Poi la strinse, avvolgendola al polso. La strinse forte e venne sollevato dall'aria.

Venne sbattuto sulle rocce e contro una pianta, eppure non mollò mai la presa. Rischiò di venire trascinato oltre al baratro, rotolò, piantò i piedi e poco alla volta riuscì a spostarsi verso le Yaonai. Le undici figlie di Neko lo presero per i vestiti, una a una gli si buttarono sopra tenendolo saldo come un bambino e con i loro corpi non lo lasciarono più muovere da terra.

Il peso delle donne vinse la forza del vento e diede il tempo agli altri Tumbà di farsi avanti.

Per ogni corpo che gli si gettava addosso il povero Lepro gemeva respirando a fatica, eppure fu felice di passarla a chi l'avrebbe legata saldamente alla roccia.

Sporgeva fieramente in alto la mano che impugnava la corda oltre il mucchio di corpi e la lasciò andare soltanto quando fu sicuro che qualcuno l'avesse presa saldamente.

Ancora una volta fu Viggo a prendere il capo della corda e, con l'aiuto di tutti, la passò attorno alla seconda pietra, in alto fin dove potevano arrivare le braccia intirizzite dal freddo.

A fatica uomini e Yaonai tirarono insieme, la tesero fino a quando non girarono tre volte la fune attorno alla roccia e lo assicurarono con un nodo Tumbà.

Solo allora poterono credere al miracolo che avevano compiuto lavorando uniti: ora i fili tesi sul baratro erano due.

In alto e in basso, andando e tornando sul precipizio, lasciavano intuire il ponte che i Tumbà avrebbero costruito con esse, assicurandovi sopra assi e corde.

Le pietre a cui erano assicurate erano salde oltre a ogni più roseo auspicio e il pino, dall'altra parte del fiume, oscillava appena sotto la spinta del vento.

Appagati dalla loro impresa, i Tumbà indugiarono a lungo a guardarle, ma a farli ritornare alla realtà ci pensò Neko:

"Presto! Presto! Dobbiamo andare. Fate Presto!" li incitò il Varego, spingendoli indietro.

Dovevano muoversi, restare ancora sarebbe stato troppo pericoloso e dovevano incamminarsi alla svelta per raggiungere la grotta.

Non c'era tempo per compiacersi del lavoro svolto, bisognava andarsene in fretta, altrimenti avrebbero rischiato di rimanere bloccati sotto la tormenta in arrivo.

Per oggi avevano fatto abbastanza e potevano ritenersi soddisfatti.

Riavutosi, i Tumbà si rimisero subito all'opera, raccolsero e ammucchiarono con cura le corde rimaste sotto un costone sporgente e le coprirono con pesanti pietre perché non venissero portate via dal vento.

L'indomani ne avrebbero portato altre e avrebbero rinforzato il lavoro iniziato, ma ora era il momento di andare.

Neko prese per un braccio Pino Argentato e le indicò la strada da seguire.

Voleva che venisse con loro.

La Yaonai sembrò titubare, arretrò, guardò le figlie, i Tumbà, lo rimproverò con gli occhi, poi un violento fulmine piegò la sua ritrosia e accennò un impaurito ringraziamento.

Con un cenno della testa accettò la proposta del marito.

Lo avrebbero seguito, tutte quante.

Neko, che non chiedeva di meglio che andarsene, raggiante come un ragazzino, s'incamminò veloce.

Pino Argentato sapeva dove il marito voleva condurle, perché al loro arrivo, assieme alle figlie aveva avvistato i quattro Tumbà che smontavano la barca lungo il fiume e li avevano seguiti fino alla grotta.

L'avevano vista, valutata, osservata attentamente e sapevano che era lunga e stretta, dentro lo spazio sarebbe stato scarso per tutti quanti quei corpi e la vicinanza con i Tumbà sarebbe stata forzata.

Era inadatta per delle Yaonai che per la prima volta in vita loro si trovavano così strettamente a contatto con degli uomini.

Le sue figlie avrebbero mal sopportato una tale promiscuità; lei stessa avrebbe preferito ripararsi altrove, però avevano tardato troppo ad andarsene e non c'era tempo per trovare un altro riparo più idoneo per quella notte.

Inoltre, benché abituate al freddo intenso del Nord, le undici figlie di Pino Argentato e Neko erano intirizzite.

Presto avrebbe iniziato a nevicare e questa non sarebbe stata una tormenta come le altre, Karahì stava arrivando e farsi sorprendere all'aperto non sarebbe stato una buona idea.

Anche se nessuna di loro si era lasciata sfuggire un solo lamento, la madre le vedeva stringersi nei mantelli di lana e battere i piedi congelati nel vano tentativo di recuperare un minimo di calore.

Anche lei, nonostante fosse salda come una roccia, aveva freddo e voleva un riparo per la notte, perché l'inverno era feroce e sapeva ferire molto bene se gli si dava la possibilità di farlo.

Il gelo sarebbe stato intenso quella notte e se non avessero raggiunto un rifugio sicuro in breve tempo, esposte al vento gelido sarebbero congelate tutte quante prima del mattino.

Avrebbero passato la notte nella grotta tutti quanti, Yaonai e Tumbà insieme.

Lo spazio sarebbe stato poco, ma era sempre meglio che restare all'aperto.

Si sarebbero mosse per ultime, quindi attesero il loro turno rimanendo unite contro la parete del monte.

I Tumbà seguirono Neko che si mosse per primo, a fare strada a tutti quanti.

Quando i cinque mossero i primi passi e si avviarono verso la discesa, i primi fiocchi di neve portati dal vento, ferirono come lame affilate le loro guance.

Anche i cappucci sollevati sulle teste poterono ben poco a fermarli.

Con l'arco di Baliji a tracolla e il bastone da viaggio in mano, il Varego riprese il sentiero che avevano aperto al mattino, sperando di ricordarselo bene.

Pino Argentato attese che si allontanassero di qualche passo e poi mosse dietro agli uomini.

La bufera si fece rapidamente più violenta.

Sulla loro testa si scatenò il finimondo.

Si erano attardati troppo a scendere e ora passare sulle pietre scivolose di neve e ghiaccio sarebbe stato più pericoloso di quanto lo fu salirle, eppure non avevano altra alternativa.

Neko fece il possibile per ricordarsi i passaggi, ma anche solo ritrovare la via era difficile in quelle condizioni.

La neve, il ghiaccio, la polvere negli occhi, tutto contribuiva a rendere difficile camminare e penosa la discesa.

Tuttavia Neko non si perse d'animo e cercò i segni che aveva lasciato all'andata.

Il Varego trovò tra una pietra e l'altra la via del ritorno, guidò la sua gente tra massi e rocce e dopo pochi minuti in cui gli parve di essere perso nel nulla, percepì nell'aria odore di fumo portato dal vento.

Sperò con tutto il cuore che provenisse della caverna e proseguì spedito in quella direzione.

Il freddo già intenso, divenne pungente.

Il sole del mattino era un lontano ricordo e, benché non fosse ancora pomeriggio inoltrato, il giorno si era fatto scuro quasi fosse già calata la notte.

Non vedeva che a pochi passi di distanza e per arrivare alla caverna si affidò più all'istinto che ai sensi.

Dovevano ripararsi e prepararsi per il peggio, perché la notte sarebbe stata lunga anche con un tetto sulla testa e un fuoco acceso a scaldarli.

Dalle cime, eserciti di nuvole rabbiose rotolavano lungo i fianchi delle montagne scendendo verso valle, promettendo strazio e tormento per chi avessero trovato sulla loro strada.

Non si faceva illusioni.

Quella che stava per arrivare non era una tempesta come tante.

Quelle nubi non portavano solo pioggia e neve, ma morte e dolore.

Sapeva cosa erano e sapeva che sua moglie aveva ragione.

Karahì era già arrivata e non aveva perso tempo ad attaccare con tutta la violenza di cui disponeva, nel Mondo che riteneva più facilmente percorribile.

Questa non era una delle solite scaramucce a cui i Sanzara erano abituati da millenni, questa era un'invasione in grande stile, come non se ne vedevano dal tempo della Guerra dei Sei Regni e come probabilmente non se ne vedranno più di eguali nei secoli a venire.

Probabilmente, sapendo delle ingenti truppe che si stavano raccogliendo a Nord lungo le coste Vareghe, invece di attaccare in massa per via di terra, aveva tentato una sortita per la strada che considerava meno protetta e vi aveva portato il grosso delle proprie forze.

Aveva lanciato un assalto con il grosso delle sue truppe nel Mondo degli Antichi Padri, sperando di cogliere impreparati i Sanzara.

Era arrivata prima del previsto e il vantaggio della sorpresa era dalla sua parte.

Aveva senz'altro viaggiato senza sosta giorno e notte, per arrivare così presto.

Aveva dato fondo alla resistenza dei suoi Ka-Ranta senza nessuna pietà, pur di ottenere quel risultato inaspettato, ma d'altronde un gesto simile poteva avere una logica.

Era un azzardo, un gesto disperato, una scommessa che poteva avere successo, come poteva costarle cara se avesse perso la mano, perché spinta a correre a perdifiato per giorni interi, l'Orda che aveva condotto con sé presto avrebbe esaurito la forza di proseguire a combattere efficacemente.

Arrivando prima, aveva sorpreso tutti e aveva aggredito i Sanzara con la furia di una tempesta, con il chiaro intento di sfondare subito le loro difese.

Pareva quasi una missione suicida, pensò.

Era una mossa strana, addirittura sospetta, inadatta a una Signora potente come lei.

A Neko si accese la speranza: forse Karahì non era forte come credevano, forse era troppo disperata e stanca, per pensare di vincere senza l'inganno e la sorpresa.

Forse era meno temibile di quello che avevano congetturato fino ad allora, ma nemmeno con questa flebile speranza, il Varego volle essere ingenuo e farsi troppe illusioni.

Qualunque fossero le reali condizioni dell'armata di Karahì in quel momento, sarebbe comunque stata una lotta all'ultimo sangue, disperata e violenta da entrambe le parti.

Temeva per la sua gente, perché era certo che su al Nord, lungo le coste Vareghe che lo avevano visto nascere e crescere, i primi cadaveri già rotolassero nelle onde del mare.

Temeva per la famiglia di Thorball, rimasta sola nella foresta.

Temeva per il figlio di Mirta, adesso che l'ora dell'ira della Regina del Nord era giunta sulle loro esistenze.

La battaglia per la vita aveva avuto inizio e non si sarebbe più fermata fino alla distruzione completa di una delle due parti.

Karahì avrebbe fatto qualunque cosa per fermare il Padre di Tutti; avrebbe distrutto, congelato, ucciso senza pietà per nessuno, pur di averlo in pugno.

Sanzara, Schegge, Giganti, Yaonai, Vareghi, solo dal loro valore dipendevano i giorni che ancora restavano a Baliji per compiere il suo destino e se quel ragazzo fosse riuscito nel suo intento, per allora il ponte doveva essere pronto.

Se così fosse stato i sopravvissuti sarebbero fuggiti, si sarebbero sparsi nella foresta e forse si sarebbero salvati, altrimenti tutto sarebbe terminato sul ciglio di quel precipizio e la corsa per la salvezza sarebbe terminata nel Sardon.

I fuggitivi avrebbero trovato la strada sbarrata dal fiume in piena, si sarebbero schiacciati sull'orlo del burrone e avrebbero aspettato la fine sulla sua riva.

Non poteva permettere che succedesse una cosa simile.

Scacciò con forza le immagini di una tale disfatta e si concentrò nella discesa.

Pensò alla colonna di bambini del Semenzaio che si stava allontanando nella foresta; loro almeno ce l'avrebbero fatta e fino a quando anche uno solo di quei bambini fosse stato in vita, la speranza non aveva diritto di affievolirsi.

Dovevano lottare con tutte le forze di cui disponevano per quella speranza, fino alla fine e oltre ancora se necessario.

Non potevano permettersi null'altro che questo.

Esausto, fiacco dalla fatica e dai pensieri nefasti, quando superò un ultimo costone scivoloso di roccia, vide un debole chiarore spuntare dal fianco della montagna; la grotta, finalmente!

L'ingresso era stato chiuso con ciò che restava delle vele della barca, ma il vento sollevava il tessuto lasciando trasparire il chiarore che vi era all'interno.

Tirò un sospiro di sollievo.

Erano arrivati, aveva trovato in tempo la strada del ritorno e un fuoco li aspettava.

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