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8) LA CASA NELLA NEVE

In effetti, così fu.

I due successivi anni scorsero veloci, tra lezioni di lingue, incontri fugaci tra Aldaberon e Vandea e rumorosi scontri con Fredrik e Thorball.

Il ragazzo sembrava aver trovato una sua dimensione e non faceva più caso ai gesti scaramantici che gli abitanti del villaggio gli riservavano quando lo vedevano passare. Pareva averli accettati, proprio come la sua condizione di Sanzara.

Della madre non ebbe mai notizia e mai ne chiese, anche se ogni tanto Neko lo sorprese mentre accarezzava l'anello che lei gli donò e che lui mai tolse.

In quei momenti Neko avrebbe voluto sapergli dire quanto capiva quello che provava. Che anche lui sapeva cosa significava tornare un giorno a casa  e non trovarvi più chi ti amò fino a quel momento. Non saperne più nulla, mai, come se fosse svanita dal tuo mondo. Eppure non trovò mai il coraggio per farlo, forse per timore di aprire vecchie ferite mai totalmente sanate.

Per quanto fosse vietato, con Alfons c'erano dei veloci incontri attraversando il villaggio, ma anche a questi pareva che ormai Aldaberon si fosse abituato. Quando capitavano si scambiavano un cenno fugace e poi si allontanavano ognuno per la propria strada, senza dare troppo nell'occhio.

All'inizio, dopo i primi incontri, il ragazzo rimase ombroso per tutta la giornata, poi, poco alla volta, parve abituarsi a quel distacco forzoso. Forse non lo accettò mai, però sapendo che un giorno sarebbe terminato, si fece forza per farseli bastare.

Neko ebbe sempre l'intelligenza di non fargli troppe domande quando lo scopriva silenzioso per ore, perché sapeva che prima o poi gli sarebbe passata.

Parlando con i suoi due amici, il ragazzo seppe che il padre si era ripreso abbastanza bene dal duro, primo inverno di separazione che avevano avuto e che stava lavorando in gran segreto a un regalo per lui. Nessuno sapeva di cosa si trattasse, però doveva essere qualcosa di particolare e complicato.

Lavorava da solo, quando gli altri artigiani avevano  spento i fuochi nelle loro botteghe. Non voleva nessuno ad aiutarlo, nemmeno i garzoni più fidati. Aspettava che anche l'ultimo di loro si fosse allontanato e poi iniziava a lavorare per sé, dopo aver duramente lavorato tutto il giorno per gli altri. Aldaberon ne fu lieto.

Il saperlo lo fece stare meglio.

L'animo umano trova mille modi differenti per consolarsi, modi strani e alle volte inconcepibili ai più, ma l'importante è che funzionino per chi li elegge come propri.

E per Aldaberon quella consolazione venne dall'udire alla sera il suono metallico del martello di Alfons.

La sua incudine risuonava lenta e meticolosa anche nel cuore della notte e più di una sera Aldaberon si addormentò al suo ritmo ipnotico. Quando la sentiva sapeva che il padre stava pensando a lui e questo lo confortava più di tante parole.

Con il tempo iniziarono anche le lezioni con le armi e Aldaberon scoprì che Neko, oltre a essere un Gopanda-Leta, era anche un valido guerriero.

Nonostante l'età avanzata era agile, perennemente vigile, sia con la spada lunga che con il pugnale. Arco e frecce non avevano segreti per lui e tutto quello che sapeva lo insegnava al suo allievo. Alternavano lezioni di alfabeto a quelle sulla tecnica di difesa con lo spadone; lezioni di lingue straniere a quelle di tiro con l'arco.

Sopratutto con esse Aldaberon trovò un nuovo modo di sfogare le sue frustrazioni segrete. Oltre che imparare a concentrarsi su un problema alla volta fino a che non l'avesse ultimato, apprese la calma della costanza.

Come gli aveva predetto Alfons, mai si allenò con i suoi amici o con altri guerrieri Vareghi. Le tecniche che Neko  insegnava  erano più adatte alla difesa che all' attacco. Miravano più a salvaguardare la vita che a distruggerla e questo mal si sarebbe conciliato con gli addestramenti violenti e feroci a cui erano sottoposti i suoi coetanei.

Come gli spiegava il suo maestro quando lo coglieva con lo sguardo fisso sugli altri ragazzi del villaggio che si allenavano a poca distanza da loro, lui era un Sanzara e come tale non doveva  portare la morte con sé, bensì vita e tolleranza.

Le armi che imparava a usare servivano per difendere questi valori che l'avrebbero accompagnato per tutta la vita.

"Non c'è onore nel dare la morte a qualcuno, così come non c'è dignità nel morire "  gli diceva.

All'inizio il ragazzo lo ascoltò incredulo, tanto le parole del Gangi differivano da quello che aveva visto e appreso negli anni dell'infanzia, poi però, man mano che apprendeva le tecniche che gli venivano insegnate, presero a piacergli, a farlo stare bene.

Sebbene alla sera, quando si stendeva sul giaciglio fosse distrutto dalla fatica e avesse i muscoli doloranti come e forse di più dei suoi coetanei, si sentiva sereno e non provava il desiderio di  portare morte e distruzione. Per quanto come Varego li capisse, sentiva che la frattura che si era creata tra di loro nel primo, terribile inverno, si andava allargando via via sempre di più.

Solo con Fredrik e Thorball pareva andare tutto bene.

Con loro due e con Vandea,  suo primo pensiero del mattino e ultimo sospiro del giorno.

Per quanto riguardava lo studio, nell'estate successiva al secondo inverno, Neko pretese che imparasse di nuovo tutti gli alfabeti che aveva già appreso.

Quando glielo disse Aldaberon lo guardò allibito: come avrebbe potuto imparare dall'inizio cose che aveva appena terminato di apprendere?

Capì cosa intendeva il suo maestro quando questi gli bendò gli occhi e gli disse di riconoscere con il tatto le parole che scriveva sulla sabbia.

Quelli furono momenti difficili, di rabbia e sconforto. Passarono molti giorni prima che imparasse a essere tanto delicato da non distruggere le lettere incise sulla sabbia. Ma per quanto il primo passo fu difficile da superare, il riuscire a riconoscerle fu molto, molto più complicato. Il solo riconoscere le lettere che componevano l'alfabeto Varego gli richiese più di una luna. Imparare poi le dieci e più lingue che studiava contemporaneamente, gli richiese tutto l'autunno, l'inverno e la primavera dell'anno successivo.

Anche se all'inizio gli parve un tempo incredibilmente lungo, i due inverni passarono e ad ogni inverno seguiva la primavera, con il suo carico di speranza.

Specialmente la primavera che seguì il secondo inverno fu particolarmente la benvenuta, perché quella stagione  fu tremenda. Terribili bufere di neve si abbatterono sul villaggio dell'Arcobaleno e su tutta la costa Varega. Per tre lune consecutive il gelo serrò le case dei Vareghi senza mai lasciarle per un solo istante, e anche quando iniziò a mollare un poco la  presa, la neve continuò a cadere senza sosta, seppellendo case e persone.

Nevicò così tanto che per andare da una casa all'altra gli abitanti del villaggio dovettero scavare gallerie sotto la neve, mentre per permettere al fumo di uscire dai tetti, si arrampicarono dall'interno per far cadere la neve che ne ostruiva i fori. Fu solo grazie alla straordinaria solidità delle costruzioni e delle persone che le abitavano, se i tetti e i nervi non crollarono rovinosamente sui Vareghi. Quella non fu la prima volta che successe nella loro storia. All'interno delle case vi era tutto quello che poteva servire per sopravvivere mesi interi senza uscire all'esterno, ma anche così, il tributo che quell'inverno chiese ai più deboli, fu pesantissimo.

Non ci fu una sola casa che non avesse avuto un decesso. La più colpita di tutte fu proprio la casa del Mirto, dove nel breve arco di tempo di una luna, tre anziani e due neonati vennero richiamati nel ciclo della Vita.

Vandea, giovane e di sana costituzione, superò la stagione, ma come tutti ne uscì duramente ferita nel fisico e nell'anima.

Spinta dalla disperazione e dalla fame, si aggrappò a quello che aveva pur di sopravvivere: l'amore per Aldaberon.

La vita in lei pulsava feroce e il legame con Aldaberon le diede la forza di lottare.

I due giovani amanti non smisero mai di vedersi se non quando la neve divenne troppo alta da essere scavalcata e il freddo troppo intenso da essere sopportato.

La casa del Sanzara, discosta dalle altre, venne rifornita di tutto il necessario per la sopravvivenza per un lungo periodo, ma quando la neve bloccò tutto, nessuno scavò una galleria fino a laggiù. Neko e Aldaberon rimasero isolati da tutti. Per giorni e giorni non udirono altro che il soffiare rabbioso del vento e gli scricchiolii della capanna. Il vecchio parve non badare troppo alla cosa, ma dopo i primi giorni di isolamento totale al ragazzo crebbe la voglia di incontrare Vandea.

Sospese gli studi già resi difficili dal gran freddo e passò le sue giornate a scavare, senza sapere che anche lei, dall'altra parte, negli stessi giorni fece la medesima cosa.

Gli ci vollero giornate intere di lavoro per trovare la galleria  più vicina, poi tutto divenne più facile.

Passando da una galleria all'altra, scavandone alcuni tratti mancanti tra una e l'altra, Aldaberon e Vandea in due settimane riuscirono a incontrarsi a circa metà strada.

Scavarono ognuno all'insaputa dell'altro, ognuno andando a cercare il compagno per fuggire da qualcosa che temevano più del gelo. La solitudine.

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