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10c) LA MORTE DI ALFONS

Quando poi il tempo lo permise, Aldaberon e Neko lo aiutarono a spostarsi all'esterno, perché respirasse aria meno ammorbata. Ormai faceva fatica a muoversi. Le gambe non le muoveva quasi più e a ogni luna nuova pesava meno di quella precedente. I vestiti gli cadevano flosci dalle spalle e le braghe erano strette con legacci attorno alle anche scheletriche. Non desiderava più vivere, gli interessava solamente finire la sua incisione. Con il tempo buono si sparse anche per il villaggio la voce del suo lavoro e da tutte le case vennero a trovarlo. Volevano vedere la sua lastra e le figure che vi erano incise sopra.

Per ogni uomo o donna che veniva, c'era un dono che arrivava per la sua maestria.

Chi un pesce, chi un ortaggio o della cacciagione, tutti donavano qualcosa in cambio dell'opera che stava creando. Glielo lasciavano passando silenziosi davanti a quella meraviglia, senza che mai una volta lui li ringraziasse. Per lui non esistevano più, ormai. Era già in un altro mondo. Forse non ancora quello degli antenati, ma certamente non faceva più parte del loro, come tutto il villaggio non faceva più parte del suo. Era semplicemente altrove, assieme ai suoi ricordi che trasferiva sulla lastra un colpo dopo l'altro con una pazienza infinita.
Aldaberon non lo lasciò mai solo, restando seduto al suo fianco un giorno dopo l'altro in attesa di un suo cenno che non arrivava mai.
Lo accudì amorevolmente, non gli lasciò mancare nulla e la gente del villaggio lo vide. Senza che nessuno dicesse mai una parola, il ragazzo vide che tutti arrivavano speranzosi e si allontanavano con un sorriso sulle labbra, alcuni dei quali rivolti anche verso di lui.

Arrivò l'estate e Alfons stupì tutti. Al villaggio nessuno avrebbe creduto di vederlo in vita, eppure lui c'era ancora, concentrato a definire dei particolari sulla lastra che solamente nella sua mente erano mancanti, perché a tutti il suo lavoro pareva già perfetto. Erano mesi che ormai non parlava a nessuno, mangiava se ne aveva voglia e beveva quando se ne ricordava. Anche Aldaberon e Neko non insistevano più se non voleva cibo o acqua. Come tutti al villaggio si erano rassegnati ad attendere il giorno in cui le scarse forze l'avrebbero abbandonato definitivamente. Non era più questione del come, ma del quando.

Verso la fine dell'estate Alfons ritornò a lavorare sull'albero dello sfondo e all'interno della sua chioma; poco alla volta si delinearono occhi evanescenti, un naso, una bocca fini e delicati, un volto di donna dai lineamenti gentili, trasparenti come potevano esserlo le fronde di un albero agitato dal vento.

All'inizio Aldaberon non capì cosa volesse rappresentare Alfons, poi con una mazzata diretta alla bocca dello stomaco riconobbe quel volto: Lilith, Lilith della Foresta, sua madre. Anche dopo tutti quegli anni Alfons non l'aveva dimenticata e ne ricordava così bene i tratti da poterli incidere con tanta precisione da non potersi sbagliare nel vederla.

Mancavano pochi giorni all'inizio dell'autunno, le foglie già cadevano e le sere erano fredde, quando un mattino Aldaberon, al risveglio, trovò Alfons seduto a gambe incrociate accanto al focolare spento mentre fissava la lastra che stringeva tra le mani. Martelli e bulini erano accanto a lui, in terra, ma non li usava. Osservava e basta. Quando si accorse che il figlio si era svegliato, gli fece un cenno per avvicinarsi.

Con un filo di voce, gli disse: "Ora è finito. Ti piace?".

Non potendosi trattenere oltre, Aldaberon sentì scorrergli le lacrime sulle guance.

"Certo padre, è bellissimo. È la cosa più bella che abbia mai visto" gli rispose andandogli accanto.

Annuendo convinto Alfons continuò: "Anch'io... anch'io. Ora è tua. Quando partirai ricordati di lei, accanto al fuoco. Ti servirà per ritornare".

Quelle furono le ultime parole che Alfons pronunciò nella vita terrena. Subito dopo si afflosciò in avanti, attirato in basso dal peso della stessa lastra di rame che stringeva tra le mani. Appoggiò la testa al pavimento con un tonfo leggero e rimase immobile.

Quando il figlio lo prese per una spalla per tirarlo indietro, era morto.

Rapidamente la notizia si allargò a tutto il villaggio e nessuno mancò per rendere omaggio ad Alfons lo Scultore, come ormai tutti lo chiamavano.

Il rito funebre fu semplice e composto. La pira fu eretta in riva al mare e al calar del sole venne data alle fiamme.

Aldaberon, con Neko accanto, le guardò mentre avvolgevano il cadavere del padre e insieme a esso andare in cenere anche gli ultimi legami che aveva con la gente che lo circondava. Li sentì strapparsi uno a uno, a ogni ceppo di legno ardente che cadde in terra consumato dalle fiamme, perdendosi in mille scintille.

Tutti vennero a consolarlo, come la tradizione voleva. Uomini, donne e bambini, giovani e vecchi, lo salutarono, ma ben presto si rese conto che il suo tempo tra loro era finito. Era un addio, quello che gli portavano in saluto.

Più che un cordoglio, il loro era un commiato, dove gli addio, i torna presto, gli dei siano con te, soffocavano i pochi mi dispiace, era un brav'uomo.

Doveva andarsene e portare lontano con sé i suoi spiriti. Ormai era giunto il momento di ripagarli per quello che avevano fatto per lui.

Passarono anche Fredrik e Thorball, suoi Compagni di Disgelo,  gli promisero che avrebbero pregato per lui. La stretta che gli diedero fu lunga e sincera, come un tempo.

Passò anche Vandea, portando avanti a sé i suoi due primogeniti, Trhand e Tholle. Erano come due gocce d'acqua. Biondi, con gli occhi chiari come la carnagione. Salutarono con rispetto quell'uomo così alto che il loro padre aveva come Compagno di Disgelo e che tutti trattavano con timore.

 "È un uomo speciale, ricordatevelo" , gli aveva detto la madre poco prima, anche se a loro, ora che l'avevano davanti, a ben vedere, speciale non pareva proprio. Lo fissarono a lungo prima di correre via, poi, con una scrollata di spalle, corsero a cercare i loro compagni di giochi. Che ci pensasse la madre a queste cose.

Rimasti soli, per un attimo i due si guardarono imbarazzati. Erano sotto gli occhi di tutto il villaggio, altri dopo di lei attendevano, pazientemente osservavano, ascoltavano. Vandea forse  avrebbe voluto dirgli di più, invece, dopo un veloce tentennamento, gli disse solo poche parole di cordoglio e un commiato appena sussurrato. Fu un momento breve, intenso, che lasciò appena un poco di amaro in bocca. Un rapido abbraccio e niente più. Poi vennero altri, uno alla volta. Mentre la processione continuava, la sera scendeva illuminata dalle fiamme della pira che consumava Alfons.

Quando tutto fu finito, ritornò alla Casa delle Farfalle e appese la piastra di Alfons alla parete, proprio dietro a quello che fu il suo focolare e che ora spettava di diritto ad Aldaberon. Lui e Neko raccolsero le poche cose che potevano servirgli e andarono dall'anziano della casa, annunciandogli che l'indomani sarebbero partiti. Il vecchio diede a tutti e due la sua benedizione per il lungo viaggio che li aspettava e ringraziandoli per la protezione che portavano su quella casa. Poi li accomiatò. Non c'era altro da dire.

Andarono alla Casa del Sanzara dove passarono la notte. Ben prima dell'alba erano già in piedi a raccogliere le poche cose di loro proprietà.

Aldaberon prese i vestiti che indossava, il pastrano da viaggio, le armi di Alfons e il tascapane a tracolla con un po' di cibo dentro.

Neko i vestiti, il pastrano, il lungo bastone da viaggio che aveva al suo arrivo e lo zaino di cuoio con la sua preziosa sabbia dentro.

Quando uscirono si diressero subito verso la scogliera. Il villaggio dell'Arcobaleno era immerso nel silenzio, rotto solo dal sordo ringhiare di qualche cane svegliato dai loro passi. L'alba era vicina. Nessuno li avrebbe accompagnati. I saluti erano già stati fatti.

Salirono sulla scogliera deserta. Superarono i campi coltivati e Aldaberon si sorprese a non sentire nulla. Era vuoto. Non provava dolore nell'andarsene, anche se quello che l'aspettava gli metteva paura. Non si lasciava niente alle spalle. Il mondo in cui era cresciuto non esisteva più. Prima di abbandonare anche l'ultimo tratto di campo coltivato, si voltò indietro. Non si aspettava di vedere nessuno. Voleva soltanto guardare un'ultima volta il mare. Lo vide in lontananza, pareva immobile. Alzò una mano per salutarlo.

L'aria frizzante della mattina gli diede un brivido, si chiuse meglio il pastrano.

Quando si inoltrarono nella foresta respirò a fondo il buon profumo di foglie marcescenti che saliva dal suolo umido.

Forse era quello il suo posto, si disse.

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