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10b) L'ALBERO

Passarono così due lune in cui l'autunno si trasformò in inverno e arrivarono le prime gelate, seguite dalla neve che quell'anno si preannunciava copiosa.

Per evitare di restare isolati nella Casa del Sanzara, Aldaberon convinse Neko a trasferirsi assieme a lui nella Casa delle Farfalle, attorno al focolare di Alfons. Forse a qualcuno avrebbe fatto storcere il naso sapere di dover passare molti lunghi mesi al chiuso con un Sanzara e i suoi spiriti, ma a lui non interessava proprio nulla. Che pensassero quello che volevano. La vita era la sua e la condizione di Sanzara gli concedeva di scegliere dove stare e lui aveva deciso. Non voleva più abbandonare Alfons e in fondo glielo doveva. Tra tutti quanti era stato lui a perdere di più. Prima la moglie, poi il figlio, infine la nuova compagna, il destino lo aveva maltrattato abbastanza.

Quando i componenti della Casa seppero della sua decisione, si comportarono da Vareghi: nessuno disse nulla, ma in poco tempo comparvero dappertutto amuleti contro la sfortuna.

Ce n'erano ovunque, in particolar modo attorno allo spazio che Alfons adoperava come abitazione. Appesi alle pareti, sparsi in terra, stesi come panni lungo corde tirate attraverso la casa stessa.

I due focolari vicini al loro si strinsero un poco per avere più spazio a dividerli ed essere meno a contatto con gli spiriti che Aldaberon portava con sé.

In fondo li capiva, ma che facessero pure tutti i gesti scaramantici che volevano, lui il padre non lo avrebbe più lasciato solo. Con ferma cortesia fece capire alle pie donne della casa che avrebbe pensato lui ad Alfons e non gli avrebbe fatto mancare nulla e loro accettarono. Era un suo diritto, nessuno poteva negarglielo. Neko era un suo ospite e poteva restare fino a che lui avesse voluto. Anche lui era un Varego, in fondo.

Alla maniera Varega, se qualcuno ebbe qualcosa in contrario rispetto alla sua decisione, nessuno lo disse apertamente. Preferirono ignorarli, vivendo ognuno nella propria intimità famigliare. Nella Casa si venne a creare un clima di fredda accettazione, in cui il desiderio di pace ebbe la meglio sulla paura. Da una parte c'erano gli altri e poi c'erano loro, insieme ma separati.

Finché poterono, alla mattina si trasferirono nel laboratorio di Alfons per permettergli di lavorare alla sua lastra. Aldaberon e Neko lo accompagnavano, restando con lui tutto il giorno, alimentando il fuoco nella forgia e parlando tra di loro, visto che il mutismo di Alfons divenne quasi totale. Alle volte faceva capire che sapeva della loro presenza, ma lo faceva a gesti e solo per poco tempo, prima di tornare nel suo distacco da tutto quello che lo circondava.

Aveva un unico desiderio: finire l'incisione sulla lastra. Ci lavorava dalla mattina alla sera, freneticamente, mangiando pochi bocconi appena sufficienti per avere l'energia per continuare. Tutto il mondo attorno a lui era escluso, se non nei rari momenti in cui lasciava tutto sul bancone così come si trovava e si dirigeva come un forsennato verso la Casa dei Nasoni. Allora Aldaberon e Neko non potevano fare altro che seguirlo per impedire che si facesse male sulla neve, vederlo andare a cercare il gruppo di bambini che spesso giocava nei pressi e fermarsi a guardarlo. Se non li trovava, tornava indietro contrariato e restava torvo tutto il giorno. Quando li trovava, invece, il fuoco che pareva bruciargli dentro si acquietava per un po'. Si sedeva e li fissava sereno, estasiandosi nelle loro urla e nei loro divertimenti. Quando ne aveva abbastanza, si alzava e ripartiva alla volta del suo laboratorio e ricominciava a definire questo o quel dettaglio dei volti.

Una notte prese a nevicare copiosamente e proseguì per giorni interi, bloccando tutti nelle case. Bufere di vento spazzarono il fiordo e il villaggio e uscire all'esterno diventò estremamente pericoloso.

Una mattina, preso da un'improvvisa frenesia, Alfons volle uscire ugualmente per andare al laboratorio. Quando Aldaberon e Neko se ne resero conto, accorsero giusto in tempo per impedirgli di fare quella pazzia. Nelle sue condizioni di salute sarebbe stato fatale, ma Alfons non desistette. Allora Aldaberon si offrì di andarci al suo posto:

"Vado io, padre" gli disse "Prendo la lastra e gli attrezzi e te li porto qui. D'accordo? Però promettimi di non muoverti fino al mio ritorno. Aspetta il mio ritorno, intesi?".

La proposta parve rasserenarlo, si tranquillizzò e tornò a sedersi al focolare. Nella lunga abitazione tutti avevano sentito le sue urla e si voltarono a guardarlo, ma la riservatezza Varega ebbe ancora la meglio. Solo alcuni bambini piccoli si incamminarono con il loro incedere goffo e andarono a sedersi accanto all'uomo affranto, accarezzandolo piano. Gli occhi attenti dei genitori seguivano i gesti ingenui dei bambini senza dire nulla, da distante. Li lasciavano fare. Sapevano che non avrebbe fatto loro del male. Lo sentivano. Quell'uomo non era cattivo, era soltanto pieno di dolore.

Tutti sapevano che quello sarebbe stato l'ultimo inverno per Alfons delle Farfalle, il fabbro, il guerriero, l'uomo sconfitto da un peso troppo grande da portare per una persona sola. E ne provavano pietà, anche se non glielo avrebbero detto con le parole.

Rassicurato da Neko che avrebbe badato lui al padre in sua assenza, Aldaberon uscì, arrampicandosi sui cumuli di neve davanti alla porta della casa. Restò fuori a lungo. Ne ritornò salvo solo quando tutti iniziarono a disperare di vederlo ancora in vita. Mezzo assiderato e con ghiaccioli rappresi ovunque, posò davanti al padre una sacca con dentro quello che desiderava. Nemmeno lo ringraziò, per aver rischiato la vita per lui.

Raggomitolandosi accanto al fuoco per trovare un po' di calore e tremando come una foglia, Aldaberon lo vide tirare fuori gli arnesi e iniziare a lavorare alla luce tremula del fuoco. I bambini restarono seduti accanto a lui guardandolo fare, silenziosi e attenti. Quando videro la lastra di rame su cui lavorava rimasero a bocca aperta dalla meraviglia e ad Alfons non parve dare fastidio la loro presenza.

Passarono i giorni e le settimane, i mesi invernali infuriarono all'esterno e due anziani della casa non resistettero al loro rigore, ma Alfons restò attaccato alla vita e al lavoro della lastra. Poco alla volta, attirati dalla curiosità dei bambini che andavano tutti i giorni a vederlo lavorare, i componenti della Famiglia vennero a vedere quello che stava preparando e si complimentarono con lui. All'inizio si avvicinarono timidi, senza mai superare la barriera di amuleti che gli era stata stesa attorno, poi si fecero più arditi. Vennero appositamente, come se quella lastra fosse più forte della paura stessa. La forza espressiva di quelle figure li affascinava, come se la perfezione di quei volti potesse riportarli a un'epoca ormai passata e li rasserenasse. Sia uomini che donne, quando si allontanavano per fare ritorno ai loro focolari, erano felici e sorridenti.

Nonostante la gravità dell'inverno e le lunghe giornate noiose, la pace regnava nella Casa delle Farfalle. Non vi furono liti per gli spazi angusti o questioni per la divisione del cibo. Tutto scorreva liscio e sereno, ritmato dal costante martellio di Alfons che non smetteva mai di lavorare.

Il suo lavoro frenetico diventò, con il passare del tempo, motivo di orgoglio per tutti quanti, nella Casa delle Farfalle. Anche il Capo Famiglia, un lontano cugino di Alfons, incapace ormai di muoversi con le sue gambe, un giorno si fece trasportare a braccia al suo focolare per vederlo. Un grande onore per chiunque. Quando lo vide arrivare Aldaberon si scostò di lato per lasciar passare lui e gli uomini che lo portavano senza fatica. Quando lo vide fissare la lastra posata in terra e rimanerne colpito, si sentì fiero del padre.

"Ogni Casa sarebbe onorata di avere un artista come te" gli disse.

Il Capo Famiglia nemmeno si offese quando Alfons, talmente perso nel suo lavoro, non gli rivolse neppure un cenno di saluto. Fece solo un gesto ai suoi accompagnatori di riportarlo al suo posto.

Semplicemente se ne andò come tutti, con un sorriso sulle labbra.

Aldaberon e Neko non vennero più visti come intrusi, ma come ospiti graditi e la tensione tra il loro focolare e gli altri diminuì, anche se gli amuleti rimasero al loro posto. Almeno dentro a una sola Casa, quella lastra aveva compiuto un piccolo miracolo.

Arrivò il disgelo e con esso tre donne partorirono due femmine e un maschietto.

Alfons pareva un vecchio curvo, appassito di forze e sostanza, eppure lavorava ancora. Le due farfalle erano terminate e lo sfondo prendeva corpo delineandosi in un albero meraviglioso con le fronde che parevano muoversi al soffio di un vento leggero, con rami sottili che si stendevano fino a quasi toccare il suolo. Man mano che si delineava, Aldaberon venne attratto sempre di più dalla forma che sorgeva dalla sapiente opera del padre, perché sapeva di averla già vista prima di allora, anche se non si ricordava dove.

Fu solo per caso che capì, un giorno che lucidava la sua spada seduto accanto al padre, che l'albero che Alfons stava incidendo era il medesimo del punzone con il quale segnava i suoi lavori da fabbro. Anche se rozzo e stilizzato, l'albero impresso sul pomolo delle sue armi era lo stesso che vedeva ora nascere, stupendo e vivo, sulla lastra di rame.

Come per gli altri soggetti Alfons ci mise una cura particolare, arrivando a definire ogni singola fogliolina e ogni ramoscello agitato dal vento, con una chioma ampia e arrotondata da farla sembrare una cascata di capelli finissimi. Ogni tanto pareva che gli occhi gli si inumidissero quando lo ritoccava, ancora e ancora, mai contento del risultato.




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