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8. La vendemmia (Parte prima)

Il tragitto a cavallo fu breve, ma non me lo godetti. Mi sentivo tesa come una corda, le braccia del fratellastro del Conte avvolte alla mia vita mi mettevano in soggezione e l'idea di percorrere la strada, che attraversava il villaggio, in quelle condizioni, non mi tranquillizzava per niente.

Avevo paura di tutte le dicerie che avrebbero preso forma attorno a quel singolare episodio. Le comari ci avrebbero ricamato sopra nonostante le spiegazioni che avrei potuto fornire.

Cercai di non fare caso alle teste che si voltavano nella nostra direzione.

Una volta giunti a destinazione, lui smontò per primo, per poi aiutarmi a fare altrettanto. Quando avvolse le mani attorno alla mia vita, alzandomi con estrema facilità, quasi non pesassi niente, non cessò un istante di tenere le iridi nocciola fisse nelle mie, tanto da farmi sentire in imbarazzo e ad arrivare a pensare di essere sporca da qualche parte. Sentii il sangue affluire sulle gote e strinsi i denti.

Nel momento in cui mi fece toccare terra, non smise di trattenermi a lui, presi così coraggio e mi sforzai di parlare.
«Signor Conte, ho per caso qualcosa sul viso?»

Si riscosse e mi lasciò andare, mi sentii finalmente più a mio agio nel riuscire a rimettere una certa distanza. Lui mi osservò ancora per qualche secondo, mordicchiandosi il labbro, poi sorrise, colse una margherita che cresceva a lato strada e con un movimento lento me la infilò in mezzo a una ciocca ribelle, liberatasi dall'acconciatura, e me la sistemò dietro all'orecchio.
«No, Margherita, sono solo rimasto incantato dai tuoi verdi occhi. Sono meravigliosi.»

Tastai il fiore di cui portavo il nome e abbassai il capo, sorpresa da quel gesto, tentando di nascondere l'imbarazzo.
«Voi siete troppo gentile. Vi posso offrire qualcosa o sdebitarmi in qualche maniera per la vostra premura nell'avermi soccorsa per strada?»

Scosse la testa, «No, grazie, non ho fatto niente e poi ti avevo promesso che non appena saremmo arrivati, ti avrei lasciata tranquilla. Spero di rivederti presto, Margherita.» Mi sorrise, «Ah, prima che mi dimentichi, per il sidro.» Mi porse un sacchetto che tintinnò tra le mie mani.

Lo aprii, era pieno di monete e, a occhio e croce, c'era più del prezzo pattuito!

Sgranai gli occhi e feci per restituirglielo, «Non posso accettarli, sono troppi!».
Lui mi bloccò le mani a mezz'aria e me le strinse con il sacchetto in mezzo. Me le accarezzò piano, prima di lasciarle andare, per un momento che sembrò quasi eterno. Il cuore intanto iniziò a battere frenetico e agitato a causa di quel gesto inaspettato, forse, di nuovo, arrossii.

Presi un respiro e tentai di mettere ordine fra i pensieri, per provare a tirare fuori qualche parola sensata.
«Ma il Conte Fabrizio è a conoscenza dei soldi che mi state dando? Io non vorrei incorrere nella sua furia o farvi litigare.»

Lui mi lasciò un tenero buffetto sulla guancia, «Non ti devi preoccupare di mio fratello, ci penso io.»

Rimasi senza parole, dopotutto i soldi ci servivano e mi avrebbero anche evitato di dare spiegazioni alla nonna su quello che poteva essere il loro mancato incasso.

Alberto mi sorrise ancora una volta prima di voltarsi e salire in groppa al suo destriero bianco. Aveva il portamento raffinato di un principe.

Alla fine mi ripresi abbastanza da trovare la forza di ringraziarlo e salutarlo, inchinandomi.
«Vi sono riconoscente, Signor Conte.»
«Non vedo l'ora di rincontrarti, Margherita.»

Con un lieve colpo alla groppa del cavallo, ripartì al trotto. Io lo osservai allontanarsi, i lunghi capelli biondi, raccolti, che sobbalzavano sulla schiena, fino a che non lo vidi sparire dopo la curva.

Non mi aspettavo che potesse essere un uomo talmente delicato e gentile; possibile che due fratelli fossero dotati di caratteri totalmente opposti? Fabrizio era stato così impetuoso, passionale e arrogante, tanto quanto Alberto era stato premuroso e dolce. Mi aveva lasciata mezza inebetita davanti all'uscio di casa, dove mi ripresi soltanto nel momento in cui percepii qualcosa strusciarmi sulle gambe accompagnato da un miagolio lamentoso.

«Hai ragione, Macchia, stamattina non ti ho dato niente da mangiare, ma non è colpa mia, sei tu che te ne sei andato via presto.»
Lo accarezzai e rientrai rimuginando.

Non appena varcai la soglia mi soffermai a controllarmi allo specchio. Il lungo tragitto e il Sole preso mi avevano colorato le guance che si erano fatte belle rosee, le efelidi risaltavano. Le iridi verdi luccicavano, vivide e sognanti. I capelli, rossi e intrecciati, avevano perso un po' di compostezza, qualche ciuffo era scivolato via dalle forcine, ma il mio sguardo si posò sulla margherita che portavo ancora dietro l'orecchio e che mi fece nascere un sorriso spontaneo sulle labbra. La sfilai e la portai al naso, la odorai chiudendo gli occhi, poi decisi di riporla con attenzione in mezzo a uno dei nostri tomi, per esiccarla e conservarla, come un ricordo prezioso.

***

Agosto giunse presto al termine e con esso quasi tutto settembre. Non avevo più visto nessuno dei due Conti, la mia vita insieme alla nonna era trascorsa nella calma e nel lavoro. Un'unica volta mi era capitato di recarmi in Villa con Giovanna, ma soltanto per prestare soccorso al buon Giuseppe, che si era ferito durante un lavoro.

Anche se mi rifiutavo di ammetterlo, avevo trascorso gran parte del tempo sul chi va là, attendendo agitata il possibile arrivo di uno o dell'altro. Nessuno si era fatto vivo. Questo mi aveva fatto capire di essere stata una sciocca presuntuosa a pensare di aver, in qualche modo, suscitato interesse in loro, tanto da farli abbassare a venirmi a salutare. Mi misi il cuore in pace. Ada invece, di nascosto dalla madre, era sgattaiolata via dalle sue ore di studio per venire da noi a chiacchierare e a osservarci curare la ferita dell'uomo. Era proprio una ragazza speciale e una nobile fuori dall'ordinario.

Quando giunse l'Equinozio d'autunno, con esso arrivò la festa della Vendemmia, che nel nostro villaggio era attesa come un grande evento. Per noi tutti era infatti un'ottima occasione per unire il lavoro al divertimento.

Venivano portati e sistemati in piazza grossi tini in cui si riversavano le ceste ricolme di acini d'uva. Noi ragazzi poi ci dividevamo in squadre da tre e da lì facevamo partire la gara della spremitura.

Per l'occasione noi donne indossavamo un abito leggero e lo arricciavamo al ginocchio, gli uomini invece portavano dei pantaloni che terminavano alti sul polpaccio.

Eravamo tutti pronti, io ero in una squadra composta da una ragazza di quindici anni, dai lunghi capelli castani, di nome Caterina e da Michele. Lui era mio cugino, di tre anni più grande rispetto a me e viveva a Torino, dove lavorava nella bottega dei suoi genitori. Era una tradizione per noi che venisse a trovarci in quel periodo. Ci volevamo veramente bene. Non ci somigliavamo affatto, lui era alto, massiccio e aveva i capelli color della cenere. Gli occhi erano piccoli, dall'espressione intelligente e dalle iridi marroni, ma che se le si osservava sotto a un raggio di sole si potevano notare le screziature verdi.

Attorno a noi erano state allestite varie bancarelle dove la gente vendeva i propri prodotti, chi tentava di fare affari con i dolci, chi somministrando birra e sidro, chi collane e braccialetti. La nonna ne teneva una con i nostri preparati. C'erano poi i suonatori, che si cimentavano con tamburi o con zufoli e che caricavano l'aria di energia e aspettativa.

L'allegria e la leggerezza, in quei momenti, permeavano l'aria e quasi le si potevano respirare.

Ero pronta, mano nella mano con i miei compagni. Partimmo, ridendo, non appena suonò la campana di un pastore intento a darci il via. La gente attorno a noi si radunò a incitarci, alzando grida concitate. Il mosto, il profumo dell'uva schiacciata, mi riempì in poco tempo le narici, era così forte che aveva quasi il potere di farmi ubriacare. Sentivo i piedi zuppi, freddi e scivolosi, ma erano anche instancabili. Se fossimo riusciti a portare a termine la spremitura prima degli altri, avremmo guadagnato dai proprietari dell'uva, oltre al soldo a testa promesso a ogni partecipante, anche un bicchiere di vino dell'annata precedente.

Avevo il fiatone, dalla foga e dalle risate. A un certo punto rischiai perfino di scivolare, ma la presa forte di mio cugino mi mantenne eretta.
«Dai, 'Rita, non mollare, ci siamo quasi! Quest'anno voglio berla io la barbera!»
Iniziai a pestare con ancora più energia, anche io dopotutto volevo assaggiarla.

A metà del nostro traguardo, improvvisamente intorno a noi si fece un silenzio di tomba, tanto che noi ragazzi, immersi fino alle caviglie nel mosto viola, ci fermammo per capire cosa stesse succedendo. Mio cugino mi indicò con un gesto del capo il motivo di tutto quello scalpore.

Erano giunti in mezzo alla piazza i giovani eredi di Casa Barberi, tra cui spiccava una gioiosa Ada, dei genitori invece non vi era alcuna traccia.

Rimasi senza fiato, fino a dieci anni prima era un'abitudine per i Barberi presentarsi alle festività, fino a quando però iniziarono a presenziare saltuariamente, arrivando infine a non prendervi più parte. Era un evento senza eguali quella comparsa e nessuno di noi era preparato a ciò. Tutti ci riprendemmo abbastanza per inchinarci.

Fabrizio e Alberto indossavano entrambi delle casacche raffinate, uno in blu, l'altro in verde, con dei panciotti abbinati dello stesso colore. Una camicia bianca al di sotto e dei pantaloni che scomparivano dentro degli alti stivali marroni. La Contessina portava invece un abito che risaltava la sua piccola figura, era color panna e portava ricamate al di sopra foglie e rami in colori autunnali, la perfetta incarnazione dell'Equinozio. Si riparava dalla frescura grazie a una mantellina appoggiata sulle spalle, coordinata al resto dell'abito. Era bellissima.

Fabrizio fu il primo a parlare: «Non era nostra intenzione interrompere la festa, anzi, vogliamo prenderne parte proprio come si soleva fare una volta.» Qualcuno si riscosse, poi fu seguito da altri, e, in men che non si dica, vennero poste le tre migliori sedie che riuscirono a trovare proprio di fronte ai nostri tinozzi.

I nobili presero posto, Fabrizio in mezzo, Alberto alla sua destra e Ada alla sinistra e venne loro offerto da bere.

Io ero in procinto di sciogliermi, era da tanto che non li vedevo e mi ero dimenticata dell'effetto che erano in grado di esercitare.

Fabrizio puntò le iridi azzurre proprio su di me, un leggero ghigno si impossessò delle sue labbra, altrimenti dure e austere. Mi osservò da cima a fondo, soffermandosi sulle gambe, lasciate scoperte per via della competizione. Mi sembrò quasi che la pelle dovesse andarmi a fuoco a causa del suo sguardo. Non percepivo più nient'altro che non fossero i suoi occhi e, quando si mossero nel percorso inverso e tornarono a fissarsi nei miei, le sue iridi si accesero di un brillio oscuro, quasi febbrile, tanto da farmi rabbrividire e palpitare il cuore all'impazzata.

Mio cugino, quasi stesse percependo la mia agitazione, mi strinse la mano, come per confortarmi e io mi aggrappai a lui di rimando. Mi aveva fatta tornare in me.

Mi resi conto di avere la gola secca. Feci un respiro profondo, per cacciare il nervosismo, e, proprio in quel momento, mi accorsi di un altro paio di occhi, questa volta nocciola, che mi osservavano circospetti e interessati. Alberto distese la bocca in un sorriso, che credetti fosse rivolto solo a me; mi torturai le labbra, di nuovo agitata. Entrambi poi, quasi all'unisono, diressero uno sguardo cupo sulla mia mano intrecciata a quella di Michele.

Dovevo calmarmi...

Ci pensò Ada a distrarmi, iniziò ad agitare frenetica le mani, che tenevano ferme un ventaglio, per catturare la mia attenzione.
«Margherita! Margherita! Forza! Faccio il tifo per te!», rise gioiosa. Non potei fare a meno di sorriderle, abbassare il capo e salutarla timidamente. Non mi sfuggì lo sguardo di rimprovero che le rivolsero i due fratelli e nemmeno la sua espressione incurante, accompagnata dalle spalle che si alzavano in un gesto sprezzante, infischiandosi apertamente dei loro muti rimproveri.

«Che la festa riprenda!» ordinò Fabrizio, i musicisti tornarono a suonare e tutti gli altri ripartirono con i bagordi, molto più rilassati dalla voglia del Conte di assistere e partecipare alla gioia generale. Io cercai di tornare a concentrarmi sulla gara, Michele mi aiutò a rilassarmi con qualche battuta appena sussurrata e, al suono della campana, riuscii a ricominciare a pestare e a ridere di nuovo con fervore. Mi ostinai invece a ignorare, per quanto possibile, la loro forte presenza, sorridendo a ogni incitazione di Ada.

Eccomi finalmente con un nuovo capitolo... allora... allora, ditemi: "È tempo di dare il via alle fazioni? Chi è teamFabrizio e chi teamAlberto? Avete già delle preferenze?"

A presto 😘

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