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13. Vipere e cinghiali

Michele si trattenne con noi fino a inizio ottobre, dopodiché dovette fare ritorno a Torino. La casa sembrava sempre un pochino più vuota quando se ne andava. Fino a Natale non ci saremmo rivisti.

Le giornate intanto cominciavano a cambiare ritmo, trascorrevano lente, si abbreviavano e si facevano fredde, pungenti. Parte della fauna andava in letargo, in attesa della primavera e i pascoli scendevano dagli alpeggi per rifugiarsi nella pianura. Persino l'aria tramutava, il profumo dei pini si faceva intenso e l'acre odore dei camini, sempre accesi, ci accompagnava. Questo periodo di quiete lo impiegavamo a essiccare e a fare scorta per l'inverno.

Il bosco era però ancora in grado di donarci un sacco di prelibatezze. Quando potevo, passavo gran parte del tempo a girovagarci per scovare quanti più funghi e castagne possibili, oppure per raccogliere bacche di ginepro e rosa canina che ci erano assai utili per pozioni e infusi.

Era un bel pomeriggio, avevo il cestino ricolmo, mi godevo la frescura, lo scricchiolio rilassante delle foglie secche sotto ai piedi e osservavo ammirata i colori dell'autunno. Fino a quando non sentii provenire in lontananza un fragoroso scalpiccio di cavalli, accompagnato dal latrare di una muta di cani; capii all'istante che si trattava di cacciatori. Decisi perciò di avviarmi verso il sentiero che mi avrebbe condotta al sicuro a casa.

Udii qualche sparo e mi sbrigai, non volevo rischiare di finire nel bel mezzo della battuta. I rumori però, invece di affievolirsi, mi davano quasi l'impressione di essere sempre più vicini. Continuai per il mio cammino, velocizzando il passo, ma il cestino era pesante e mi rallentava.

A un tratto spuntò da dietro un albero un cinghiale, era enorme e fuori di sé. Io mi trovavo proprio nella sua direzione. Il cuore iniziò a battermi frenetico, anche se tentai di mantenere la calma. Dovevo trovare una soluzione in fretta. Non avevo possibilità di cavarmela correndo, sarebbe stato troppo veloce per me e mi avrebbe caricata di certo.

Abbandonai il cesto e mi fiondai sul primo albero che mi pareva essere robusto e potesse reggere il mio peso senza troppi rischi. Si trattava di una quercia. Con il fiatone e la sensazione di avere l'animale ormai alle calcagna, spiccai un salto e afferrai con una mano il primo ramo a tiro e con l'altra mi tenni su, afferrandomi saldamente a una protuberanza. Per qualche terribile secondo non riuscii a trovare appoggio per i piedi, scalciai per aria e dovetti fare forza con le braccia per non cadere all'indietro proprio sulla bestia. Mi spezzai persino un'unghia di netto, poi, per fortuna, trovai un appiglio anche per loro.

Riuscii a inerpicarmi giusto in tempo per vedere l'animale scomparire nel folto del bosco. Non ebbi il coraggio di rimettere subito i piedi a terra, per paura dell'arrivo di un altro. Tentai di calmare il respiro. Portai il dito sanguinante in bocca e arrestai l'emorragia. Il gusto ferroso del sangue fluì in fondo alla gola.

Da lì a poco ne comparì un altro, anch'esso correva a rotta di collo, ma, a differenza dell'altro, aveva una muta di cani che gli sbavava alle calcagna. Io mi tenni stretta, salii ancora un po', di modo che riuscii ad appoggiare i piedi su un ramo e a tenermi più salda su un altro. Non avevo decisamente un abbigliamento adatto a un'arrampicata. Le scarpine scivolavano sulla corteccia umida, la lunga gonna scura si impigliava ai rami e i capelli sciolti mi ricadevano in avanti.

Maledii mentalmente i cacciatori che erano finiti sulla mia strada, che erano stati causa dello spavento e dell'imprevisto che mi era capitato.

Dopo poco comparvero gli uomini e, non appena si accorsero di me e delle mie condizioni, fecero decelerare i cavalli, una marea di «Ohi, ohi!» riempì l'aria, fino a quando uno dei cavalieri parlò. La sua voce mi riverberò fin nelle ossa.

«Perché rallentate? I cani ormai l'hanno quasi acciuffato!»

Una voce, rauca e forte, si levò sulle altre in risposta: «Signore, là!» mi indicò, «Arrampicata sull'albero, vi è una ragazza! Mi sembra la giovane Margherita! La nipote della Giovanna!»

Abbracciando il tronco e tentando contemporaneamente di stringere la gonna, mi girai verso gli uomini sotto di me, che ormai mi fissavano, chi con sbigottimento visibile, chi divertito, chi preoccupato.

Riconobbi quello che aveva parlato, era Giuseppe. Si fece poi strada, verso la testa del gruppo, un cavaliere di mia fin troppa conoscenza.

Cavalcava uno stallone dal manto fulvo e lucido, aveva un ghigno divertito sul viso, che correva sino agli occhi azzurri, limpidi e sereni.

«Ma cosa abbiamo dunque qui? Non sapevo che le margherite crescessero così in alto!»

Indossava abiti più semplici del solito: un cappello scuro, pantaloni di cuoio, una camicia bianca, grezza, con soprabito marrone; ma rimaneva comunque sempre bello e nobile.

Strinsi gli occhi in due fessure e mi morsicai forte la lingua per non rispondergli male di fronte al suo seguito, «Signor Conte, se mi trovo qui è solo perché un gruppo di cacciatori ha pensato bene di aizzare i cinghiali qui attorno, ho trovato scampo dalla loro furia per un pelo.»

Il sorriso di Fabrizio si spense, «Mi dispiace se ti abbiamo fatto correre un pericolo.» Smise di osservarmi e rivolse lo sguardo a Giuseppe, «Porta avanti il gruppo, vedete se riuscite a riprendere le bestie, io mi fermo ad aiutare questa fanciulla in difficoltà» concluse, strizzandomi l'occhiolino.

Il tuttofare della Villa fece scorrere uno sguardo tra me e Fabrizio, bonario certo, ma troppo lungo e carico di sottintesi per i miei gusti, prima di riprendere la corsa con gli altri compagni.

«Sì, Signore.»

Il Conte annuì, «Una volta uccisa la preda, tornate pure tutti quanti alla Villa e procedete con la lavorazione della carne. Non mi aspettate.»

Gli uomini ripartirono al galoppo incitando i cavalli. Quando rimanemmo soli, Fabrizio smontò da Bucefalo, lo legò a un vicino albero e assicurò il fucile alla sella. Si tolse il capello e lo appoggiò.

Si appostò sotto la quercia, alzò le mani verso di me e sorrise furbo, «Forza, avanti, buttati che ti afferro.» Io lo guardai, scandalizzata dalla proposta, «Nemmeno per sogno, non ho bisogno del vostro aiuto, come sono salita riuscirò anche a scendere, ho solamente bisogno che vi voltiate.»

Il Conte portò le mani ai fianchi contrariato, «Come faccio ad aiutarti in caso di caduta se sono girato?»

Strinsi le mani attorno al tronco mentre arrossii violentemente, «Penserete mica che io possa scendere con la possibilità che voi mi vediate sotto alla gonna!»

Fabrizio rise di gusto, «È di questo che ti preoccupi, che io possa sbirciarti?»

Se fosse stato possibile, sarei andata ancora più a fuoco, mentre lui rideva, prendendomi in giro; mi sentivo sempre più ridicola, ogni secondo che passava. Rimpiansi persino il cinghiale, forse avrei avuto più possibilità di spuntarla con lui.

«Margherita, pensi veramente che con tutte le possibilità che ho, mi riduca a fare il guardone?»

Quel commento lo presi un po' troppo sul personale e non capii perché riuscì a ferirmi, avrei dovuto essere contenta del fatto che non fosse interessato a sbirciarmi sotto alla gonna e invece... Ero così contraddittoria!

«Bene!»

Persino lui intuì che c'era qualcosa che non andava, a causa di tutta l'enfasi che avevo riservato e immesso in quell'unica parola.

Senza altro indugio, mi voltai e cominciai a scendere irritata, rimuginando su quello che aveva detto, distraendomi troppo e facendo poca attenzione a dove stavo mettendo i piedi. Per quello commisi un errore.

Una scarpina scivolò e io non riuscii a trattenermi con le mani, in meno di un secondo percepii un'orribile sensazione di vuoto. Come se le viscere mi stessero risalendo in gola. Almeno fino a quando, invece di sbattere sul duro terreno, mi ritrovai avvolta tra due braccia morbide e possenti.

Il mio cuore batteva furioso, sembrava volesse uscire dalla gabbia toracica, un po' per il terribile spavento, un po' perché mi resi conto che stavo per l'ennesima volta nella sua stretta.

Fabrizio sogghignò e mi avvicinò ulteriormente al suo volto. La solita colonia mi circondò, inebriandomi, e il calore delle sue braccia mi avvolse come una carezza.
«Hai visto che ho fatto bene a rimanere?»

Mi avvicinò ancora di più alle sue labbra, non smetteva di fissarmi negli occhi con quello sguardo malizioso e io non riuscivo nemmeno a rispondergli, ero completamente soggiogata da lui. Si accostò sempre di più, fino ad arrivare al lobo del mio orecchio, e lì vi sussurrò, scatenando una serie di brividi caldi che corsero lungo tutta la mia schiena, «Però, avevi ragione, Rosaspina, non ho saputo resistere, devo proprio ringraziarti per il magnifico spettacolo che mi hai riservato».

Quando realizzai ciò che disse, mi riscossi, lo spintonai e mi divincolai, fino a costringerlo a lasciarmi, «Voi! Maleducato! Degenerato!»

Lo schiaffeggiai sul petto, risentita e umiliata. Lui mi bloccò i polsi, mi trascinò di nuovo vicino al suo volto «È così che si ringrazia il proprio salvatore?»

Indignata strattonai, «Lasciatemi!»
Lui mollò la presa, io, impettita, allisciai le pieghe della mia gonna, gli diedi le spalle e mi misi a cercare il cestino, sempre continuando a ignorarlo. Con lui era sempre così, un vortice di emozioni esplosive e contraddittorie.

Quando lo individuai, rovesciato su un lato, mi chinai e cominciai a raccogliere e a risistemare il contenuto. Dopo poco sentii che il Conte si stava avvicinando, lo riuscivo ad avvertire ancora prima che mi fosse vicino dal profumo che emanava. Si accovacciò e mi aiutò a risistemare il mio bottino. La rabbia scemò, sostituita dalla sorpresa e dall'imbarazzo. Un Conte che si chinava per aiutare una popolana?

Nel frattempo che ripescavamo le bacche, sparse ovunque, sfiorò una delle mie mani e si accorse della ferita «Ti sei fatta male, hai qualcosa con cui io possa fasciarti?»

Gli sorrisi, «Sì, ma prima tanto dovrei togliere la scheggia, mi farò guardare da mia nonna una volta a casa.» Lui annuì, poi fece per immergere la mano in un gruppo di foglie cadute, per controllare se al di sotto ci fosse qualcosa di mio.

«Fermo, voi dovete restare immobile!» lo avvertii.

Piano piano feci il giro, accostandomi a lui, sistemandomi più vicina al gruppo di foglie, ma facendo attenzione a non muovermi bruscamente.

Fabrizio si voltò, riservandomi uno sguardo interrogativo, non avanzò con la mano ma la ritrasse troppo veloce, quel movimento bastò a istigare l'animale.

Per fortuna io me n'ero accorta e sapevo come muovermi.

Prima che la vipera potesse morsicarlo, la agguantai per la coda. Tentò di attaccare anche me, ma la posizione in cui la mantenevo non glielo consentiva. Era un bell'esemplare, la pelle era scura e rossiccia, si mimetizzava perfettamente con il fogliame. Dovevano essere quelli i suoi ultimi giorni di veglia prima del letargo.

Fabrizio scivolò per lo spavento, cascando sul suo didietro. Era rimasto a bocca aperta, bianco come un cencio, mezzo scioccato. Il serpente intanto continuava a provare ad arricciarsi su se stesso per raggiungere la mia mano, lo ridestai: «Signor Conte, potete per favore passarmi un ramo abbastanza lungo e resistente?»

Quando si fu ripreso abbastanza, si alzò ed eseguì il mio ordine. Con il bastone, unendo velocità e precisione, le bloccai la testa sul terreno, lasciai andare la coda, mi allontanai e poi la liberai. Lei si infilò rapida in mezzo alla vegetazione e scomparve.

Il Conte mi guardava mezzo stordito, il suo colorito che non accennava a riprendersi «Perché non l'hai uccisa?»

Scossi la testa contrariata, «Questa è la sua casa, siamo stati noi a invaderla, si è spaventata e ha fatto quello che il suo istinto le suggeriva di fare.»

Questa volta fu il mio turno di prenderlo in giro, «Signor Conte, non mi dite che avete paura di un serpente?»
Lui strinse gli occhi, altero «Certo che no.»
Mi misi una mano sulla bocca per cercare di contenere la mia risata, ma risultò essere quasi impossibile.
«No, no, vi siete seduto per terra perché eravate troppo stanco magari?»
Ripresi a sghignazzare.

«Ah, é così che sbeffeggi il tuo salvatore?»
Si avvicinò, abbassandosi alla mia altezza, sorridendo a sua volta, l'incarnato di nuovo roseo. Mi vennero persino le lacrime agli occhi per le risa.
«A onor del vero direi che ormai siamo pari, voi mi avrete anche presa al volo, ma io vi ho salvato da un brutto mostro!»

Alzò gli occhi al cielo, sbuffando, per poi tornare a fissarmi intensamente, «Mi sembra giusto.» Con una mano mi tolse un rametto fra i capelli, lo fece in maniera lenta, poi passò a levare una piccola fogliolina. Io non mi scostai, rimasi immobile, senza fiato. Portò ancora una volta in alto la mano, posandola sulla mia guancia, «Mi piacciono le tue lentiggini.» Lasciò scendere il pollice fino all'arcata superiore delle labbra, causando probabilmente la fuoriuscita del mio cuore dalla sua sede naturale.

In quel momento desiderai così ardentemente che mi baciasse, che quasi rischiai la pazzia. Bramavo quella bocca, quasi sempre arcuata in un ghigno sfrontato, e ne avevo al contempo paura. Se mi fossi lasciata andare, sarebbe stata la mia rovina. Sapevo che cosa lui voleva da me, ma io non potevo darglielo, io volevo qualcosa di più, quel "di più" che lui avrebbe potuto concedere solamente a qualcuna di pari rango a lui.

Sospirai, le risa erano scemate.

Con l'altra mano mi afferrò in vita e mi avvicinò ancora, alzandomi il mento, mi osservava serio, «Non ti nascondo che in questo momento avrei una gran voglia di baciarti, ma temo una tua reazione, l'ultima volta che ho tentato non mi è andata troppo bene.» Incurvò le labbra all'insù.

Non potei fare a meno di ricambiare timidamente un sorriso. Non riuscii a trovare la forza di respingerlo a voce, scossi solo la testa e mi morsicai forte la bocca per costringermi a non cedergli.

«Va bene,» si arrese, «certo che però se fai così non mi aiuti, lascialo andare o ti farai sanguinare.» Con il pollice districò il labbro inferiore dai miei denti e io glielo lasciai fare.

«Posso almeno accompagnarti a casa?»

Avrei potuto dirgli di no, avrei dovuto dirgli di no.

«Io non vorrei disturbare oltre il Signor Conte, i suoi uomini lo staranno aspettando.»
Mi afferrò una mano, «Sciocchezze.»

Ci avvicinammo a Bucefalo, Fabrizio gli diede una pacca sul possente collo mentre rimetteva il cappello in feltro nero in testa, «Questa fanciulla la conosci già, non è vero, bello?»

Si girò verso di me, mi afferrò in vita e mi fece sedere davanti. Mi sporse il cesto, che trattenni con le braccia e poi fu il suo turno di salire dopo aver sganciato le redini.

Quando mi avvolse le braccia attorno, in modo da poter comandare il cavallo, lo lasciai fare. A differenza dell'ultima volta che ci eravamo trovati in una situazione simile, la sua stretta mi era ormai familiare e il suo profumo si stava trasformando nella peggiore delle dipendenze.

Feci per indicargli il sentiero da imboccare, ma lui mi fermò, «Me la ricordo la strada fino a casa tua.» Non potei fare a meno di sorridere.

Passò del tempo prima che si schiarisse la voce, «Uno di questi giorni potresti passare dalla Villa? Mia sorella ha problemi a prendere sonno, magari hai qualcosa che potrebbe aiutarla?»

Dentro di me ci fu un'esplosione di silenziosa gioia, mi spiaceva per Ada, ma era un'altra occasione per rivederlo.
«Certo, molto volentieri, Signore.»
Gli sfiorai una delle mani che tratteneva le redini, fu un gesto molto avventato da parte mia, poi ripresi a parlare: «In effetti, con questo passaggio, immagino di essere di nuovo io quella in debito con voi.»

Mi pentii subito della mia audacia, non appena sentii nascere dentro di lui una tenera risata, una del genere capace di farti innamorare. Mi stavo praticamente tirando una zappa sui piedi da sola, come se non fosse già arduo di per sé resistergli.

Si avvicinò al mio viso, sfiorò con la punta del naso la guancia, facendomi ricoprire la schiena di brividi.
«Mmm, se ogni volta che ti accompagno a casa ti senti in debito verso di me, forse dovrei farlo più spesso.» Io ridacchiai agitata, «Magari gradite di nuovo un po' di sidro.» Con il naso continuò a toccarmi appena, fino ad arrivare dietro al mio orecchio, dove respirò più profondamente prima di continuare a parlare, «Ho in mente qualcos'altro, più dolce persino del tuo sidro di mele.» Come una sciocca gli chiesi: «Che cosa, Signore?» Di nuovo sogghignò, «Le tue labbra.»

Mi irrigidii, «Mio Dio! Signor Conte! La vostra sfacciataggine non ha limiti!» lo rimproverai, scandalizzata, con l'unico risultato di farlo divertire ancora di più.

Gli nascosi il volto, arrossito, voltandolo completamente verso la strada. Trascorremmo il resto del viaggio in silenzio, gli unici rumori attorno a noi erano lo scalpiccio degli zoccoli sul terreno e gli sbuffi di Bucefalo.

Quando giungemmo nei pressi del retro della mia abitazione, proprio vicino al salice piangente, lo feci arrestare, poiché non volevo rischiare che la nonna mi vedesse di nuovo in sua compagnia.

Lui fermò il cavallo, scese per primo, gli passai il cestino, che appoggiò a terra. Poi venne il mio turno, come al solito mi afferrò per la vita. Mi trattenne un attimo soltanto, prima di lasciarmi andare, ma quella volta lo fece senza alcuna malizia, «Rosaspina, fai attenzione in questi giorni nel bosco, è tempo di caccia e mio padre ha concesso a qualcuno il permesso di procurarsi della selvaggina. Non vorrei che tu facessi altri brutti incontri.»

Annuii, perdendomi in quegli occhi azzurri, preoccupati, che, notai, formavano una piccola ruga a lato, mentre erano fissi in quell'espressione. Mi venne la tentazione di portare la mano su quella piccola imperfezione della sua pelle e appiattirgliela, per vederlo di nuovo ridere, in quella sua maniera maliziosa e divertente.

Si schiarì la voce e mi lasciò andare, «Se vuoi passare dalla Villa in questa settimana, sarò presente anche io.» Di nuovo, annuii, mentre mi chinavo in una semi riverenza, «Arrivederci, Signor Conte.»
«Rosaspina.»

Afferrai il cesto e iniziai ad allontanarmi. Mi sembrò di vederlo un poco triste e deluso.  Sentivo i suoi occhi perforarmi la schiena. Non accennava a muoversi per risalire in groppa e andarsene.

Mossi ancora qualche passo, finché il mio cuore iniziò a battere feroce per la battaglia interna che stava combattendo. Vi era in atto un duello all'ultimo sangue fra paura ed emozione, brama e vergogna.

Mollai il cestino che cadde con un tonfo, attutito però dall'erba alta.

Inspirai e buttai fuori l'aria che si era fatta gelida.

Presi coraggio.

Mi voltai.

Gli corsi incontro, veloce come se avessi le ali ai piedi.

Lui, sbigottito, mi osservò riavvicinarmi.

Con le mani gli afferrai il viso e lo portai vicino al mio. Percepii la ruvidezza della guancia, dove vi era una leggera ricrescita della barba e il suo fiato caldo sulla mia pelle.

Fabrizio sembrava incapace di muoversi. Smise persino di respirare.

Non mi potevo più tirare indietro, il desiderio aveva preso il sopravvento.

Posai le mie labbra sulle sue. Fui delicata. Appena un tocco leggero, fugace. Talmente rapido da sembrare un sogno, talmente veloce da non sembrare reale.

Lo lasciai così, a sfiorarsi la bocca incredulo, perso.

Un uomo di trent'anni, che si era fatto sorprendere da una fanciulla, da una ragazzetta, da una *tota qualunque.

Mi girai, recuperai il cesto e corsi verso casa senza più voltarmi. Il cuore batteva impazzito, ero senza fiato, ma ebbra di emozioni.

Avevo appena compiuto la più grande pazzia di sempre, avrei dovuto sentirmi in colpa, ma non ci riuscivo.

Era stata allo stesso tempo la cosa più sbagliata e più giusta della mia vita e, per la prima volta, mi ero sentita viva.

*tota è un appellativo piemontese che si usa per una ragazza giovane in probabile età da marito.

Buongiorno a tutt*, questo è stato un capitolo decisamente più lungo del solito, più di tremila e duecento parole, ma mi dispiaceva dividerlo. Spero che lo abbiate gradito lo stesso.

A presto 😘

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