1. L'inizio della fine. (Parte prima)
Respirai e assaporai con calma e rilassatezza il dolce profumo che portava uno dei miei tipici pomeriggi di fine estate.
Adoravo trascorrere il tempo nel bosco dietro casa, godermi le ultime giornate soleggiate di agosto, il tepore dei raggi del sole che riuscivano a filtrare fra i rami dei pioppi e dei faggi. Ascoltare gli uccelli cantare, insieme all'insistente frinire dei grilli e il ronzare delle infaticabili api operaie.
Ero solita girovagare fra i sentieri che avevo imparato a memoria, proprio come stavo facendo in quel momento, ospite fissa della Natura, tanto che ormai la fauna non temeva più la mia presenza. Molto sovente infatti mi capitava di ammirare cerbiatti pascolare e cinghiali grufolare, senza che questi si scomponessero alla mia vista.
Le mie escursioni però non erano mai solo puro e semplice diletto, servivano anche per raccogliere e fare scorta di tutte quelle erbe che crescevano in una particolare stagione e che io e la nonna solevamo mettere a seccare per conservarle e utilizzarle al bisogno.
A un certo punto del cammino, mi fermai, perché notai, proprio dietro a un corniolo, un bel mazzo di bianca Achillea. Mi chinai e la raccolsi, strappandola con attenzione, per poi riporla nel mio cestino già straripante. Il profumo di tutte quelle piante e quei fiori riuniti era talmente forte da pizzicarmi le narici. Ogni volta non potevo fare a meno di stringerle, tentando di scacciare e reprimere la fastidiosa sensazione di uno starnuto in arrivo.
Nonna Giovanna sarebbe stata contenta del bottino accumulato. Ella era considerata una guaritrice nel piccolo villaggio alle porte di Torino, dove abitavamo. Di solito veniva interpellata dalle persone quando non si potevano permettere un medico vero e proprio o, all'occorrenza, quando quest'ultimo magari non riusciva a venirne a capo. I suoi servigi non erano sempre ben visti, qualcuno, di nascosto, la additava come "Masca", che, nel nostro dialetto, era solo un altro modo per dire "strega". Ovviamente, la nonna non si era mai curata di dare alcuna conferma o smentita alle dicerie, perché, come mi ripeteva sempre lei: "I malintenzionati volgeranno sempre l'interesse verso due donne sole, meno invece verso due streghe."
Io ero cresciuta insieme a lei e ne avevo seguito le orme. D'altronde, cos'altro avrei potuto fare? La mamma, Agnese, era morta dandomi alla luce. Nemmeno la nonna aveva potuto farci qualcosa e mio padre... be', lui era mancato qualche anno dopo, in seguito a una ferita riportata durante una rissa. Non si era nemmeno fatto controllare dalla suocera. Io non avevo mai avuto un gran rapporto con lui, perché, non appena Agnese era passata a miglior vita, la nonna non aveva esitato ad accogliermi. Non mi avrebbe mai lasciata nelle mani del genero che detestava e in cui non riponeva alcuna fiducia.
Nonostante tutto, a me la vita che era toccata in sorte piaceva. Adoravo cimentarmi nelle pozioni e negli infusi, avevo sempre percepito dentro di me una propensione verso le erbe e gli incantesimi curativi, grazie anche al mio sangue da fattucchiera. Esso saltava una generazione, la mamma non ne possedeva nemmeno una scintilla, al contrario, io ero riuscita a ereditarlo. Probabilmente, se mia madre l'avesse posseduto, il suo corpo sarebbe stato più forte e non sarebbe morta di parto.
Mi allenavo a usare i poteri benefici insieme alla nonna, ascoltando i suoi insegnamenti e imparando a gestirli senza però palesarli realmente. Una parolina magica pronunciata piano, nel momento giusto, congiunta all'uso di un decotto, poteva fare la differenza.
Non dovevamo però interferire con il destino, sovvertire la natura delle cose. Se il paziente era destinato alla morte e nessun nostro rimedio serviva, allora dovevamo lasciarlo andare. La Magia del Sangue, che avrebbe potuto qualcosa nei casi disperati, addirittura salvare un paziente da morte certa, era proibita, un veto assoluto imposto dalla nonna. Essa prevedeva l'utilizzo del nostro stesso sangue di streghe, congiunto agli incantesimi e alle pozioni. Era troppo potente e dagli effetti imprevedibili, era una magia poderosa da cui si potevano trarre benefici istantanei, ma da cui ci si doveva riguardare dalle conseguenze.
Comunque, in generale, non potevamo rischiare di farci scoprire, quindi non ricorrevamo quasi mai al nostro reale potere, più che altro davamo fondo alle nostre conoscenze erboristiche e la maggior parte delle volte bastava a curare e a tenere in vita i pazienti.
Nel frattempo l'aria attorno a me cominciava a farsi frizzante e il bosco a divenire più cupo, decisi quindi che era giunta l'ora di rientrare. Ripercorsi i miei passi sullo stretto sentiero di terra fino a giungere al torrente che scorreva proprio dietro casa nostra. Mi chinai e bevvi avidamente l'acqua fresca e dissetante. Proprio nel momento in cui mi alzai, mi accorsi che al di là del fiumiciattolo, subito dietro ad alcuni cespugli di crespino, ce n'era uno più piccolo, ricolmo di mirtilli grossi e succosi. Mi venne l'acquolina in bocca soltanto al vederli.
Attraversai il torrente, saltando cautamente da una pietra all'altra e raggiunsi il bottino. Non potei fare a meno di assaggiarne uno, il succo dolce mi invase la bocca facendomi emettere un mugolio di piacere. Era stata decisamente una giornata fortunata. Svaligiai completamente il cespuglio e riposi con gran cura i frutti accanto alle erbe nel cestino.
Arrivai sul retro della nostra piccola casupola in legno, dove dal camino proveniva un timido sbuffo di fumo. Aggirai la rete che contornava l'orto, passai dietro alla minuscola stalla e mi diressi verso l'entrata. Non volevo usare la porta di servizio e rischiare di spaventare la nonna, si arrabbiava molto quando lo facevo.
Non appena varcai l'uscio, la vidi. Era intenta a rimestare qualcosa in un pentolone sul fuoco. Curva, i capelli bianchi e folti raccolti da una crocchia, indossava un vecchio abito di cotone nero, con al di sopra un grembiule bianco, immacolato. Non riuscivo mai a spiegarmi come Diavolo facesse a lavorare senza sporcarsi, io non ne ero mai stata in grado, anzi, ero sempre stata piuttosto pasticciona.
«Margherita, cara, sei arrivata in tempo.»
«Perdonami, nonna, mi sono attardata un po' più del dovuto,» Poggiai il cesto sul tavolo, «ma guarda cos'ho trovato!»
Scostai il panno per farle dare un'occhiata e i suoi occhi si illuminarono.
«Oggi allora siamo fortunate, non solo in pentola sta finendo di bollire la zuppa di cavoli e lenticchie, ma avremo anche un dolce.» Mi sorrise dolcemente, «Li hai già assaggiati?»
«Nooo...»
«'Rita, non mi raccontare frottole!»
«E va bene, lo ammetto, ma solo uno.» Accompagnai l'ammissione di colpa alzando l'indice. La nonna scosse la testa divertita.
«Datti una sistemata che ora si cena.»
Annuii.
Per prima cosa liberai i miei boccoli, rossi-aranciati, dalle forcine che li tenevano imprigionati, massaggiandomi le tempie indolenzite. Mi diressi poi verso il piccolo tavolo in legno dove lavai le mani dentro a un catino, rovesciando dell'acqua dalla brocca vicino.
Preparammo tavola e ci servimmo affamate. Il mio stomaco brontolava. Ci godemmo il nostro povero pasto e, alla fine, divorammo avide tutti i mirtilli.
Terminata la cena, come capitava quasi in tutte le serate estive, uscimmo e ci sedemmo di fronte all'entrata di casa. Prendemmo posto sopra alla nostra panca in legno, posizionata al di sotto di una costruzione dello stesso materiale, coperta dalle spire di un enorme glicine rampicante. Sorseggiammo il nostro infuso di camomilla e chiacchierammo delle novità al villaggio.
A un tratto fummo interrotte dall'arrivo del nostro gatto, Macchia. Era completamente nero, tranne appunto per una piccola zona di un bianco candido proprio sotto all'occhio destro. Le iridi invece erano di un giallo brillante e la sua espressione trasmetteva un'intelligenza quasi umana. Volevo molto bene a quel felino. L'avevo trovato due anni prima, sperso e malandato nel bosco. Qualcuno l'aveva abbandonato e malmenato, probabilmente per via del suo colore, legato a sciocche superstizioni.
Io non avevo resistito, l'avevo portato a casa nonostante i rimproveri della nonna. Una volta rimesso in sesto non ci aveva più abbandonate, si occupava di cacciare i topolini e alla sera rientrava per godersi il calore di casa. Nonostante le prime rimostranze, la nonna Giovanna ci mise poco ad affezionarsi e, quasi ogni notte, il piccolo gattino soleva addormentarsi al fondo del suo letto.
Macchia, piccolo furbetto, si strusciò, ronfando, contro le mie gambe. Recepito il messaggio, rientrai e gli procurai qualcosa da mettere sotto ai denti. Prima di coricarmi, passai ancora dalla stalla dove diedi da mangiare anche a Berta, la nostra piccola capretta, poi recuperai con un secchio un po' di acqua dal torrente da conservare in casa.
Una volta terminati tutti i lavoretti, entrambe ci dirigemmo nella stanza che condividevamo, dove avevamo due letti imbottiti di paglia. Mi svestii, riponendo l'abito di cotone a mezze maniche verde, che di solito utilizzavo nel bosco, nell'armadio. Indossai una semplice tunica da notte bianca e mi infilai sotto alle lenzuola. Poco dopo anche la nonna si sistemò nel suo letto e con lei Macchia.
«Notte, cara.»
«Sogni d'oro, nonna.»
Siccome ci svegliavamo sempre alle prime luci dell'alba, non ci mettevamo mai molto a prendere sonno, la stanchezza era sempre tanta.
***
L'indomani ci levammo come sempre mattiniere e, mentre la nonna preparava qualcosa da mangiare, io cominciai la mia giornata andando a dare la biada a Berta e poi a mungerla. Il latte ottenuto lo misi a fermentare, ne avremmo fatto un buon formaggio da vendere o da barattare con qualcosa che ci mancava, come la farina bianca e quella per fare la polenta. Cibo che avrebbe accompagnato molto sovente le nostre dure giornate invernali.
In seguito rientrai e mi diedi una sciacquata nel catino, per levarmi di dosso l'odore di stalla. Adoravo quella capretta, ma odiavo il puzzo che mi lasciava addosso. Grazie a una nostra mistura di erbe e sapone, riuscivo a sopperire facilmente al problema.
Quando fui pronta, mi sedetti al tavolo con nonna a consumare la nostra frugale colazione, ma un insistente bussare alla porta ci interruppe.
Mi alzai e, prima di aprire, mi sincerai di chi fosse. Una voce rauca, maschile, rispose all'istante; si trattava di Giuseppe, il guardiano della famiglia più potente e importante del nostro paese, i Barberi.
«Giuseppe, dicci, cosa ti porta a bussare alla nostra porta?»
«Margherita, ti prego scusami, non avevo alcuna intenzione di disturbarvi, ma la mia Padrona richiede al più presto i servigi di tua nonna. Sua signoria, la Contessina Ada, la figlia minore, è molto ammalata.»
Mi voltai quando sentii il rumore di una sedia scostata, poi diressi la mia attenzione nuovamente sull'uomo.
«Dacci solo qualche minuto, il tempo di prepararci e arriviamo.»
Giuseppe annuì e si sedette attendendoci sulla panca.
La nonna, come ogni donna sposata o vedova, indossò la sua cuffia, dove nascose i lunghi e bianchi capelli. Io intrecciai e raccolsi i miei. Ci cambiammo indossando ognuna il vestito più lussuoso che possedevamo. Si trattava poi solo di un altro semplice abito di cotone. Il mio era color crema, meno liso rispetto a quello verde e al di sopra ci legai un grembiule bianco, pulito.
Mi controllai allo specchio e mi sciacquai ancora una volta il viso con dell'acqua, gli occhi verdi erano luminosi e per fortuna avevano perso il residuo di sonno. Le lentiggini sulle mie gote risaltavano grazie all'abbronzatura estiva.
Prima di uscire preparammo i cesti con le erbe che ci sarebbero potute servire per decotti e infusi.
Una volta fuori, Giuseppe ci fece accomodare sul suo calesse e partimmo. Ci impiegammo circa una ventina di minuti ad arrivare.
La Villa dei Conti Barberi era immensa. Dovemmo per prima cosa attraversare un enorme giardino curato, con al centro un rotondo specchio d'acqua servito da una fontana, poi dovemmo seguire il sentiero di ghiaia. Piante in fiore e cespugli erano sistemati in maniera precisa, studiata per regalare a ogni possibile osservatore una meravigliosa visione d'insieme.
Superata l'area verde, ci ritrovammo davanti all'imponente tenuta. Due scalinate si congiungevano portando all'entrata principale, dove un'ampia facciata rosata era caratterizzata da due torri-padiglione svettanti. Era meravigliosa. Non avevo mai avuto prima un'occasione per ammirarla così bene e da vicino. Riusciva a trasmetterti un senso di ammirazione infinita, che andava poi a sedimentarsi dentro di te, lasciandoti un senso quasi di inadeguatezza rispetto a quella meraviglia architettonica.
Una volta giunte all'imponente portone, scendemmo dal calesse, Giuseppe lasciò il mezzo e il cavallo a un garzone e salimmo le scale. L'uomo bussò.
Ben presto sentimmo il rumore del catenaccio aprirsi e ci ritrovammo al cospetto di una cameriera e della stessa Madama Alisina Barberi.
La serva era una donna sulla quarantina, indossava una classica tenuta da lavoro, aveva occhi nocciola con un particolare taglio all'insù e un ciuffo di capelli liscio e corvino le sfuggiva dalla cuffia bianca.
Solo in seguito mi soffermai sulla padrona di casa. L'aspetto altero di quest'ultima riusciva a mettere in soggezione la maggior parte delle persone con cui aveva a che fare. Si presentò a noi in un abito di seta scura, semplice, ma con elaborati intrecci dorati sui bordi. I capelli castani, segnati ormai da delle ciocche grige, erano acconciati nella maniera tipica dei nobili. La Contessa osservò prima il suo dipendente e poi noi con sguardo tagliente e severo. Ci inchinammo a lei in segno di rispetto.
La nonna, che in vita sua ne aveva passate tante e che di sicuro non si faceva intimorire da una dama piena di sé, fu la prima a rompere il silenzio.
«Mia Signora, vi prego, confidiamo nella vostra gentilezza per sapere dove possiamo trovare la povera malata e per metterci subito al lavoro.»
La Madama annuì.
«Bene. Allora seguitemi.»
Giuseppe si congedò per poter tornare alle sue mansioni abituali, mentre noi ci avviammo dietro alla padrona di casa.
Ciao a tutt* !
Questo è stato un capitolo introduttivo, dal prossimo aspettatevi decisamente un pizzico di pepe in più. 😉
A presto 😘
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