·4·1· L'alleato
I miei piedi affondavano nella sabbia bagnata, le orme più lontane ormai cancellate dalle onde, quelle più vicine trasformate in piccole conche d'acqua salata.
Con una mano tenevo le scarpe dai talloni, lasciandole oscillare al mio fianco, l'altra era stretta intorno al braccio dell'elfo che mi accompagnava.
L'acqua era gelida sulla pelle e le caviglie mi si stavano irrigidendo, ma non mi lamentai e non ci fermammo.
I primi tempi avevo odiato l'idea di poter girare solo in compagnia di un arboreo, anche se era per la mia sicurezza, ma di un paio di mesi ormai il mio studente preferito era diventato anche mio amico e le mie passeggiate si erano fatte più lunghe e più frequenti.
Le spiagge erano la nostra meta preferita, sopratutto verso il tramonto, quando il cielo diventava arancione e la sabbia rosa.
L'odore dell'acqua salata era ancora sospeso nell'aria, ma il vento stava cambiando con l'incedere della sera portando con sé le fragranze della città.
«Una ragazza ci sta seguendo» mormorò l'elfo al mio fianco inclinando la testa nella mia direzione, i lunghi dreadlocks scuri che mi sfioravano la spalla. «Non guardare» aggiunse rapidamente.
Mi costrinsi a mantenere lo sguardo su di lui. «Credi che possa essere una mutaforma?»
Scosse la testa. «Ha un aspetto troppo particolare, un mutaforma cercherebbe di risultare anonimo.»
«Sei sicuro che ci stia seguendo?»
Continuò a guardare avanti mentre rispondeva. «Sta seduta da una parte e ci guarda, si sposta solo se ci allontaniamo troppo.»
Raggiungemmo un piccolo gruppo di scogli che emergevano dalla sabbia e ci voltammo. Mi guardai intorno il più vagamente possibile.
Sulla spiaggia c'erano poche persone – piccoli gruppi di amici, qualche coppia e un paio di persone solitarie. Individuai subito la ragazza in questione, nonostante non avessi avuto indicazioni.
Si trovava molto più un alto rispetto a noi, seduta a terra con i piedi affondati nella sabbia e le braccia puntellate dietro la schiena. Indossava un vestito troppo leggero e un cappellino di lana troppo pesante per il clima di marzo, ma l'abbigliamento non era la sua unica stranezza. Si era formata una specie di bolla vuota intorno a lei che i passanti sembravano aggirare inconsciamente e il vento scavalcare – la sua gonna riposava piatta e immobile sulle sue gambe mentre le ciocche sfuggite alla mia treccia si agitavano in tutte le direzioni. Le onde si allungavano particolarmente nella sua direzione, formando una punta che puntualmente si fermava pochi centimetri prima di toccarla.
Guardava noi, ma guardava anche tutti gli altri in realtà.
«L'avevo già notata nei giorni scorsi,» continuò l'elfo – i giorni precedenti ci eravamo aggirati per lidi diversi – «perché ha una faccia familiare.»
Da quella distanza io non riuscivo a distinguere i suoi tratti. «Pensi di conoscerla?»
«Impossibile. La creatura a cui mi riferisco non era umana.»
Clothilde, fu il mio primo pensiero, la mia unica ipotesi.
«Avviciniamoci» suggerii e l'elfo esitò solo un momento prima di annuire e cambiare leggermente percorso.
La sabbia asciutta formò un fitto strato dorato sui nostri piedi bagnati, uniformando il rosa della mia pelle al verde della sua.
La ragazza ci seguì con lo sguardo per tutto il tempo che impiegammo a raggiungerla, gli occhi fissi e la bocca serrata in una linea sottile. Per un momento giurai che stesse canticchiando. Poi tacque, e subito le onde smisero di protendersi verso di lei, il vento cominciò a gonfiarle il vestito e i passi del mio accompagnatore si fecero più decisi.
Da sotto il cappellino di lana non spuntavano ciocche di capelli.
«Clothilde» pronunciammo io e il mio accompagnatore nello stesso istante, sorprendendoci l'uno dell'altra.
«Lorelle» replicò lei senza scomporsi. «Tu» disse solo quando fu il momento di salutare l'elfo. «Hai un nome adesso?»
Lui scosse la testa con un certo orgoglio. Lei roteo gli occhi, poi si raddrizzò e piegò le gambe di lato. L'elfo ne seguì il movimento con evidente curiosità.
«Credevo di sbagliarmi» cominciò Clothilde. «Ma la terraferma è davvero troppo piccola.» Si alzò in piedi con molta più destrezza dell'ultima volta che l'avevo vista usare le gambe. «I miei due aguzzini insieme, chi mai l'avrebbe detto?»
«Ti ho salvato la vita» protestammo entrambi, e per la seconda volta ci scambiammo sguardi prima divertiti e poi stupiti.
«Avrete tante cose da raccontarvi» commentò lei osservando il nostro scambio di occhiate. Incrociò le braccia e si guardò intorno come se avesse voluto prendere e andarsene in modo teatrale ma non avesse saputo esattamente dove andare.
«Cosa ci fai qui?» chiese l'elfo per primo.
Io annuii. «Ti credevo in mare. Con il tuo nuovo branco.»
«Tutti morti» annunciò con artificiosa allegria.
«Come?» esclamai. Non riuscivo ad immaginare qualcosa di così potente da sconfiggere un intero branco di mutaforma.
«Mutaforma» fu la risposta, e un brivido mi percorse la schiena. «Seguivano la tua rotta. Quando sono arrivati li abbiamo attaccati per primi.»
Io non avevo bisogno che aggiungesse altro, ma l'elfo aggrottò le sopracciglia.
«I miei marchi» spiegai. «Erano pensati per uccidere quelli che contattavano e aiutavano i mutaforma.»
«Ma li stavano attaccando, non aiutando!» protestò lui.
«Oh quelli che attaccavano li hanno uccisi alla vecchia maniera» intervenne Clothilde. «Gli altri li hanno catturati e a quel punto i marchi li hanno bruciati.»
Invece di un brivido, questa volta sentii una stretta al petto. Il solo pensiero della morte orrenda che era toccata a quelle sirene solo per aver ereditato i miei marchi dalle loro prede mi faceva rivoltare lo stomaco. Certo loro avrebbero ucciso me se avessero potuto e certo non erano creature per cui si poteva davvero provare pena, ma aver imposto loro una simile tortura sembrava una violazione nei confronti della natura stessa. Quasi come abbattere foreste secolari o gettare petrolio in mare.
Aprii la bocca ma non ne uscì nulla. Cosa mai avrei potuto dire? Che mi dispiaceva? Clothilde non sembrava particolarmente dispiaciuta e le mie scuse non avevano valore per lei.
«Come sei arrivata qui?» chiese l'elfo.
«Sono stata in molti posti in questi sei mesi. Le voci che una marchiatrice si trova ad Arles sotto la protezione degli arborei si sono diffuse in fretta.»
Realizzai molte cose tutte insieme. La prima, forse stupidamente, era che si trattava della conversazione più lunga che avessi mai intrattenuto con Clothilde. La seconda che lei aveva scelto di venirmi a cercare. L'orgoglio della sua specie non le avrebbe mai permesso di ammetterlo, ma doveva essersi sentita tremendamente sola.
Le sirene vivevano in branco. Quando i mutaforma avevano sterminato i suoi nuovi compagni, l'unico senso di appartenenza a cui aveva potuto aggrapparsi era il legame che aveva con me.
La persona che aveva danneggiato il suo corpo, l'erede dell'uomo che l'aveva strappata dal suo habitat naturale. Eppure i miei marchi avevano un'influenza tale da riportarla da me.
Per la prima volta mi sentii davvero responsabile di un mio marchiato. Non perché avrebbe potuto tradirmi se non l'avessi tenuto d'occhio, non perché potevo costringerlo a proteggermi. E nemmeno perché mi sentivo in colpa per avergli fatto un torto.
Avevo fatto più che alterare la sua natura e più che salvarle la vita. L'avevo cambiata, rimodellata a mio volere. Era una mia creazione, un'opera d'arte vivente che non potevo davvero reclamare come mia ma su cui avevo messo la firma.
«A che numero sei arrivata?»
L'elfo accanto a me si irrigidì. Parte della protezione che gli arborei mi avevano offerto era dovuta al fatto che avessi rivelato la mia nuova natura, ma non era un'informazione di dominio pubblico.
Lo tranquillizzai con uno sguardo, poi abbassai gli occhi sul mio polso. Caliane, la mia fedele compagna degli ultimi mesi, era avvolta intorno al mio marchio, quieta e tiepida.
«4» risposi.
Lei sorrise – non fui certa se perché contenta che mi rimanessero ancora abbastanza vite, o compiaciuta con chiunque avesse preso la terza in sua assenza.
L'elfo rivolse lo sguardo al sole ormai quasi completamente sotto l'orizzonte. «Dobbiamo rientrare.»
«Dove ti hanno messa, in orto botanico?»
Un altro arboreo si sarebbe offeso. Il mio accompagnatore rise. «Molto meglio! In un cimitero.»
«Necropoli» mi affrettai a precisare. «Per ora mi hanno concesso un alloggio sotto gli Alyscamps.» Vivere sottoterra con il popolo arboreo era stata per me una gradita novità e un confortante ritorno al passato allo stesso tempo.
«Così se muori non devono neanche sforzarsi di seppellirti?»
«Non sarei sorpreso se lo avessero pensato» ammise candidamente l'elfo.
Un'occhiata ad entrambi mi trattenne dal protestare.
Per un momento rimanemmo tutti e tre in silenzio. Cercai le parole giuste per invitare Clothilde a venire con me senza farla sembrare un'offerta di aiuto. Prima che mi venisse in mente qualcosa, però, stavamo già risalendo la spiaggia verso la strada.
«Gli umani non notano che hai la pelle verde?» chiese Clothilde squadrando l'elfo da capo a piedi.
«Solo se mi guardano direttamente in faccia.» E forse neanche in quel caso considerando che la chioma di dreadlocks teneva il suo viso quasi completamente nell'ombra. «Ma ti sorprenderebbe sapere a quante poche cose fanno caso le persone.» Accennò con il capo ai piedi nudi di Clothilde, ma lei non si scompose neanche per un momento.
«Con il casco poi nessuno potrebbe sospettare niente» aggiunsi io.
Avevamo raggiunto il punto in cui aveva lasciato la moto. Clothilde studiò il mezzo come se si fosse trattato di un'astronave ma non fece commenti.
L'elfo recuperò i due caschi dallo scomparto sotto il sellino e me passò uno. «In tre staremo stretti, ma ho fatto di peggio.» L'idea sembrava più divertirlo che preoccuparlo.
Mi arrampicai sulla moto dopo di lui, cercando di lasciare quanto più spazio possibile dietro di me. La mia fronte non superava le sue spalle, così dovetti girare la testa e appoggiare il lato del viso sulla sua schiena mentre avvolgevo le braccia introno alla sua vita.
Le vibrazioni mi attraversarono le gambe quando il motore si destò con un ruggito. L'elfo tirò su una gamba e lasciò che tutto il peso gravasse sull'altra, poi fissò Clothilde da dietro la visiera oscurata del casco. «Salta su.»
La sirena replicò i miei movimenti con una certa esitazione, mettendosi a cavalcioni del veicolo e premendosi contro di me fino a mettermi a disagio. Potevo sentire ogni curva del suo corpo sulla mia schiena e quando mi afferrò i fianchi sussultai.
Partimmo a tutta velocità, i riflessi dell'elfo superiori a quelli di qualsiasi umano.
Un ringhio rimase intrappolato nella gola di Clothilde e tutto il suo corpo si fece rigido. Cercai di immaginare la scena dal suo punto di vista – il rombo del motore, l'aria contro la faccia, la città che scivolava veloce tutt'intorno. Ci volle poco perché la sua presa si facesse più salda ma anche più tranquilla e il suo corpo meno rigido e più proteso in avanti.
Si rilassò contro di me, le braccia intrecciate quasi mollemente intorno alla mia vita e il mento appoggiato sulla mia spalla. Il suo cuore batteva forte contro la mia schiena.
Sorrisi senza che lei potesse vederlo.
Quando arrivammo era quasi completamente buio.
Lasciammo la moto nei pressi della linea ferroviaria, insieme ad una decina di altri veicoli arborei, poi zigzagammo tra vecchi edifici industriali che si trovavano lì dalla costruzione dei binari più di un secolo prima.
«Da qui in poi è territorio arboreo» annunciò l'elfo mentre ci facevamo strada tra le rovine della necropoli. Lasciai andare il suo braccio. Ero ufficialmente protetta.
Clothilde strinse le braccia intorno al collo e non fece commenti. Aprì bocca solo ogni tanto, quando sassi, legnetti, fili d'erba secca o frammenti di monumenti le ferivano i piedi nudi.
Emergemmo da una zona alberata sulla via dei sarcofagi e io ed il mio accompagnatore cominciammo a contare sottovoce.
Ai due lati della strada si susseguivano quelli che sembravano grossi vasi per piante, alcuni ancora coperti da spesse lastre di pietra, altri completamente scoperchiati e ormai pieni di terra e sterpaglie.
Senza rallentare il passo, l'elfo mi rivolse uno sguardo interrogativo. Fece un cenno impercettibile verso Clothilde, poi si limitò a fissarmi.
Abbassai lo sguardo, poi lo rialzai senza incrociare il suo.
Potevamo fidarci di lei? Non potevo saperlo con certezza. Probabilmente no. No.
Ma anche se avesse voluto tradirmi, ormai mi aveva trovata, tanto valeva tenerla sott'occhio. Lei mi aveva cercata – era di questo che non riuscivo a capacitarmi. Nessun prezzo, nessuna ricompensa avrebbe potuto spingere me ad andare incontro alla mia marchiatrice. Per una sirena, arrivare ad avventurarsi sulla terraferma – accettare il dono delle gambe – per arrivare a me, doveva significare qualcosa di più.
Non riuscì ad incontrare lo sguardo di Clothilde prima di tornare a rivolgermi al mio accompagnatore. Mi limitai ad annuire.
Lui strinse le labbra in una linea inespressiva e fece un vago cenno di consenso con il capo.
Ci fermammo al tredicesimo sarcofago coperto. L'elfo sollevò il coperchio come quello di un baule, poi mi fece segno di precederlo.
Scavalcai e mi sedetti all'interno. Quando il coperchio si richiuse sopra di me, il fondo si inclinò dolcemente finché non mi ritrovai in piedi nel corridoio sotterraneo.
Clothilde fu accanto a me poco dopo, seguita dall'elfo.
«Dai qua» fece quest'ultimo, pretendendo di rivolgersi ad entrambi nonostante io conoscessi perfettamente la strada.
La rete di tunnel sotterranei degli arborei era un enorme formicaio, disordinato e complesso e allo stesso tempo studiato ed efficiente. Non esistevano piani, ogni corridoio curvava e pendeva in maniera diversa e ogni stanza si trovava su un livello diverso. Alcune avevano soffitti alti quanto cattedrali, altre erano dei sottoscala. Alcuni cunicoli erano stretti e opprimenti, altri ampi e ben arieggiati. Eppure non era confusione, né disorientamento che si provava ad aggirarsi nella versione arborea di Arles, quanto fascino e coinvolgimento.
A seconda della profondità, il muschio che ricopriva il pavimento come moquette variava dal blu in prossimità della superficie, all'azzurro, al verde, al giallo fino al rosso più scuro. Io non ero mai stata oltre il giallo.
Scendemmo fino ad una delle aree più affollate del livello verde dove comprammo cibo in abbondanza prima di rintanarci in una nicchia e sederci a terra intorno ad un tavolo basso e rettangolare in vetro e acciaio.
Mi lasciai cadere sui cuscini sparsi a terra, dello stesso verde menta del muschio sul pavimento, e appoggiai la schiena alla parete di pietra.
Clothilde cominciò ad aprire i contenitori di cibo senza troppe cerimonie e si fiondò su delle porzioni di riso e pesce crudo che non avevo mai visto.
«Che roba è?» chiesi rivolgendomi all'elfo.
«Sushi» rispose lui ispezionando i contenitori fino a trovarne uno con dentro un impasto di frutta, legumi e bambù per cui la maggior parte degli arborei sembrava andare pazza.
«È cibo per sirene?» continuai avvicinando a me uno dei contenitori di sushi su cui Clothilde non aveva ancora messo le mani.
L'elfo rise. «Non avevo dubbi che lo gradissero, ma no, è una specialità molto umana. Giapponese per la precisione. Si sta cominciando a diffondere solo ora in Europa, ma da noi è arrivata molto prima.»
«Il pesce esiste da sempre» commentò Clothilde a bocca piena, la voce resa particolarmente animalesca invece che impastata o comica. «Anche in Europa.»
L'elfo rise di nuovo, poi si alzò portandosi dietro il proprio contenitore e una forchetta. «Torno appena posso» disse solo, prima di alzarsi e sparire tra la folla lasciandomi da sola con Clothilde.
Fissai la sirena. Continuava a mangiare con voracità impressionante. Nonostante i miei marchi avrebbero dovuto renderla totalmente umana fuori dall'acqua, i suoi denti erano più affilati di quanto avrebbero dovuto e la sua bocca sembrava aprirsi leggermente di più del normale.
«Significa che non torna più?» ringhiò ad un certo punto, tra un boccone e l'altro.
Sollevai leggermente le spalle mentre finalmente cominciavo a mangiare anch'io. Orzo e carne macinata, arricchiti con così tante spezie da rendere indistinguibili i sapori originari. «Spero di no» risposi abbozzando un sorriso.
«Dormite anche insieme?»
Alzai di scatto lo sguardo su di lei. C'era ancora un velo di arroganza difensiva nella sua voce, ma non ero certa che avesse inteso la domanda con malizia. Erano la mia effettiva libertà e autonomia che le interessavano.
«Mi accompagna fuori come ulteriore protezione» spiegai. «Ma qui è solo un mio studente.»
Clothilde smise di mangiare e mi fissò con le sopracciglia sollevate.
«Mi hanno messa ad insegnare.»
Ancora occhiate confuse. «È la loro versione di punizione?»
«No!» protestai d'istinto. Poi, con un attimo di ritardo, capii a cosa si stava riferendo davvero. «No» ripetei, questa volta a voce più bassa. Mi guardai intorno. «Per gli arborei non funziona così.»
«E come allora?» Aveva ancora le mani dentro i contenitori di sushi, il prossimo boccone tra le dita, ma non aveva ancora ripreso a mangiare. Appoggiò la schiena alla parete dietro di lei e sostenne il mio sguardo.
«Per loro non vale la legge del taglione, ma del riequilibrio» cominciai.
«Una vita per una vita. Un favore per un favore» mi interruppe. «Questo è equilibrio.»
Scossi la testa. «È un modo troppo semplice, troppo comodo per saldare i debiti» ribattei. «Per gli arborei l'unico modo per espiare la colpa di omicidio sarebbe quella di dare la vita a qualcosa o a qualcuno. Secondo loro la legge del taglione può solo a raddoppiare le colpa.»
«Non capisco» protestò Clothilde e solo con un momento di ritardo si pentì di averlo ammesso.
«Uccidere significa levare la vita a qualcosa che la possiede. Per restaurare l'equilibrio bisognerebbe dare la vita a qualcosa che non ce l'ha.»
Fece per parlare. Poi si trattenne. Poi si arrese. «Qualsiasi cosa?»
Annuii. «Nella loro ottica non conta ridare la vita esattamente a chi è stata levata. Non si tratta di riparare agli errori correggendoli, ma compensandoli.»
Ci rifletté per qualche istante. Era una logica molto diversa dalla sua – gli arborei erano una specie molto diversa dalla sua. Una specie capace di vivere millenni e conservare le conoscenze di civiltà dimenticate, per cui vita e morte avevano un valore diverso e il tempo era una moneta di scambio.
«Ma nessuno può dare la vita a qualcosa. Non dal nulla» fu la sua conclusione.
Annuii nonostante continuasse a guardarmi interdetta. «Per questo è un crimine irreparabile.»
Riprendemmo a mangiare e non parlammo per un po'. L'elfo non tornò.
«Quindi ti hanno messa ad insegnare perché... perché hai impedito a qualcuno di andare a scuola?»
Non riuscii a trattenere una risata e mi strozzai con il cibo. «No! Quello è semplicemente il mio lavoro. Sono considerata una specie di rifugiata politica e ho diritto a protezione, ma non significa che possa starmene qui tutto il giorno con le mani in mano. L'unica cosa che ho fatto davvero in tutti questi anni è stato studiare, perciò ora insegno.»
«Ad arborei.» La situazione sembrava troppo assurda per entrarle in testa.
Forse l'idea che una ragazza di sedici anni e mezzo potesse insegnare a creature di secoli più vecchie era ancora più bizzarra di una marchiatrice protetta dagli arborei.
«Sì, ad arborei» ripetei. «E non solo.»
Ispezionò tra i contenitori fino a trovarne uno chiuso ancora pieno. «Ma allora non ti hanno punita?»
«Non ho ucciso nessuno» le feci notare.
Esitò, lo sguardo fisso nel vuoto come se stesse cercando di ricordare qualcosa.
Era vero. Non avevo direttamente ucciso nessuno. E pertanto agli occhi degli arborei non meritavo la morte a cui i mutaforma mi volevano condannare.
«Tutto ciò di cui posso essere accusata è di aver marchiato nove persone» dichiarai. «Dieci,» mi corressi subito, «compresa te.»
«Ma hai marchiato te stessa quindi le cose si compe--» si interruppe da sola. «No, non funziona così.»
Scossi la testa ma accennai un sorriso. Cominciava a capire.
«Dovresti poter... rimuovere i marchi? È così che saresti perdonata?» Con la mano libera si grattò la nuca, lì dove il cappellino di lana che indossava mostrava più pelle nuda di quanto avrebbe dovuto. Gli altri nove marchiati erano morti, e così le sirene che avevano ereditato i loro marchi. Rimaneva solo lei.
«Teoricamente» ammisi. «Ma no.» Abbassai lo sguardo e non riuscii a rialzarlo per incontrare il suo.
«Non puoi» concluse da sola. «Sei imperdonabile.»
«Teoricamente» ripetei.
«Ma no?» Si protese leggermente in avanti, squadrandomi come se avesse voluto sbattermi contro il muro fino ad avere tutte le risposte.
Scossi lentamente la testa. «Non posso rimuovere i marchi» confermai. «Ma non è quello il modo riequilibrare la mia colpa.»
La sorpresa sul suo volto era paragonabile alla mia quando lo avevo saputo. Per settimane, dopo aver trovato il mio cadavere in via di rigenerazione, gli arborei avevano discusso del mio caso. Potevo non essere la prima marchiatrice della storia, ma di certo ero la prima il cui destino veniva messo nello loro mani.
«Per quanto riguarda aver causato dolore a qualcuno, la soluzione è alleviare il dolore di qualcun altro. Mi è bastato lavorare per qualche giornata in un ospedale arboreo.» Dove avevo conosciuto l'elfo che ora mi faceva da accompagnatore prima ancora che fosse mio studente. «Per il resto, ho sostanzialmente modificato in vario modo la natura dei miei marchiati. Il cambiamento non è un crimine per i marchiati.»
«Tutto qui?» Clothilde ingoiò l'ultimo boccone. «Quindi rimarrò umana fuori dall'acqua?»
Annuii, esitante.
«Non ha senso» fu il suo unico commento. E anche se il suo disappunto era evidente fui certa di cogliere anche del sollievo nella sua espressione.
Ci disfacemmo dei contenitori di cibo ormai vuoti, poi non ebbi altra idea che portarla a casa con me.
La stanza che mi avevano assegnato era una camera quasi quadrata sul livello verdeacqua, con una libreria e un armadio su due pareti opposte, un letto addossato alla terza e un tavolo rettangolare al centro. Il corridoio su cui affacciava era pieno di sistemazioni più o meno simili alla mia, pensate come alloggi per studenti o per arborei di passaggio.
Dopo più di quattro mesi libreria e armadio erano ancora troppo vuoti per i miei gusti e non me l'ero sentita di disegnare sulle pareti come nelle segrete, ma in qualche modo quella stanza marrone e verdeacqua aveva la mia essenza oltre che il mio odore.
Esitai sulla soglia solo un momento prima di farmi da parte e far entrare Clothilde. La sirena si guardò intorno molto poco, ma si soffermò sul planisfero grigio e ocra appeso proprio sopra il mio letto.
Sul tavolo c'erano un sacchetto e un biglietto che non avevo mai visto.
Sollevai il pezzo di carta nello stesso istante in cui Clothilde afferrava il sacchetto e lo se portava al naso.
Clothilde è affidata a te fin quando non le sarà consegnato un documento di riconoscimento arboreo, fai attenzione, recitava il messaggio, in una lingua arborea che conoscevo appena. Aggrottai le sopracciglia riconoscendo la scrittura dell'elfo. Era uno dei pochi a conoscere l'arcaico, perché non usarlo se voleva che altri non leggessero il biglietto?
Clothilde si era spostata nel piccolo bagno privato collegato alla camera. Fissai la sua schiena mentre apriva l'acqua della vasca triangolare incastrata nell'angolo. Il cappellino di lana giaceva ora sul tavolo davanti a me e i suoi marchi erano visibili.
Umana fuori dall'acqua.
Esattamente le parole che aveva usato per definirsi. Ricordai l'unica volta che aveva visto il marchio sul mio polso, prima di uccidermi, e come sulla spiaggia mi avesse chiesto a che numero ero arrivata.
Se Clothilde sapeva leggere l'arcaico, questo la rendeva una sirena molto più interessante di quanto pensassi. Sapeva anche parlarlo?
Raggiunsi la soglia del bagno e rimasi appoggiata allo stipite. Clothilde mi lanciò un'unica occhiata inespressiva. Il livello dell'acqua ancora non era neanche a metà della vasca, ma lei vi entrò comunque e si inginocchiò sul fondo, poi recuperò il sacchetto trovato sul tavolo da dove lo aveva lasciato sul pavimento.
«Cosa c'è dentro?» chiesi, con appena abbastanza voce da superare il rumore dell'acqua corrente. Parlai volontariamente in arcaico cercando di farlo sembrare accidentale.
Clothilde mi guardò come se sapesse esattamente cosa stessi pensando. Fissò il vuoto per qualche istante, strizzando gli occhi come per sforzarsi di ricordare qualcosa.
«Sali» rispose alla fine, allungando la parola come se fosse pesante sulla lingua, ma con una pronuncia corretta. Poi attese la mia reazione.
Guardai il sacchetto, poi la vasca che si riempiva lentamente. L'acqua le aveva ormai bagnato completamente le gambe e si arrampicava lungo la stoffa del vestito fin quasi alla vita, ma il suo corpo non dava nessun segno di essere sul punto di trasformarsi.
Aggrottai le sopracciglia. Non era acqua di mare, ma nemmeno quella della piscina nelle segrete di Versailles lo era stata. Cercai di riflettere. Era stata nella piscina prima che la marchiassi, quando ancora non poteva cambiare, e dopo non ero rimasta abbastanza a lungo per sapere se si era trasformata prima o dopo essere uscita dall'acqua. Doveva essere successo prima, mi dissi, perché senza uno specchio non avrebbe potuto sapere cosa avevo marchiato su di lei e che sarebbe valsa la pena trascinarsi fuori dalla vasca.
È curioso come certe cose sembrino avere senso anche prima della spiegazione.
«Spero funzionino» aggiunse intanto Clothilde, dopo quella che era stata un'altra lunga pausa in concentrazione.
Avrei voluto chiederle molte cose su come e dove e da chi avesse imparato l'arcaico. Invece mi limitai ad osservare mentre rovesciava il contenuto del sacchetto nella vasca semipiena e vi agitava le mani per mescolare bene. L'acqua calda si fece opaca, ma sentii chiaramente il suono di ossa che si riassestavano e carne che si piegava in una forma diversa.
La sua mandibola si inspessì sotto la pelle del viso, gli occhi furono ricoperti da un'ulteriore patina umida, la sua schiena si arcuò. Fu costretta a cambiare posizione quando l'articolazione delle ginocchia si disfece. Le mani con cui si aggrappò al bordo della vasca mentre si sedeva sul fondo erano palmate.
L'ultima volta che avevo assistito la trasformazione era stata dolorosa, ma nella vasca Clothilde non diede segno di sofferenza. Forse il problema era solo la metamorfosi inversa. Forse dipendeva dalla velocità con cui avveniva.
Quando l'acqua finalmente le arrivò allo sterno si sfilò il vestito a fiori dalla testa e lo gettò a terra. Mi voltai e uscii, ma lasciai aperta la porta del bagno.
Clothilde dormì nella vasca, il suo sonno di una profondità tale da farmi sospettare che non riposasse da giorni.
Io trascorsi gran parte della notte insonne, stesa sul mio letto nell'unica angolazione da cui potevo vedere la vasca all'interno del bagno, scivolando ripetutamente in brevi sogni pieni di acqua salata e voci indistinte da cui mi svegliavo a corto di fiato.
Nella camera non c'erano finestre e l'orologio appeso al muro era nascosto dietro un velo di ombre, ma come in tutte le costruzioni arboree sotterranee c'era un filo di luce lì dove le pareti verticali incontravano il pavimento, che si affievoliva o intensificava a seconda delle ore del giorno, arrivando a spegnersi solo per qualche istante alla mezzanotte esatta.
Nelle ore della notte era poco più che un riverbero, ma con l'avvicinarsi dell'alba qualche raggio in più si allungava sul pavimento punteggiando la moquette verdeacqua di ombre sottili.
Quando riemersi ansante dall'ennesima, breve tranche di sonno e mi accorsi che dovevano essere le cinque gettai definitivamente da parte le coperte e mi sedetti sul bordo del letto, i piedi a pochi millimetri dal pavimento. La luce oraria e il suo riverbero verdeacqua creavano l'illusione di uno strato d'acqua sopra la moquette.
Quando appoggiai i piedi a terra e sentii il suono di vera acqua sciabordante ritrassi le gambe di scatto, il mio cuore che faceva un balzo nel petto. Con un momento di ritardo sollevai lo sguardo sulla vasca all'interno del bagno, da dove Clothilde mi stava fissando con aria confusa.
Mi diedi silenziosamente della stupida e mi alzai.
«'giorno» bofonchiai raggiungendo la soglia del bagno con passi svogliati. Incrociai le braccia al petto e appoggiai una spalla allo stipite. «Si dorme bene nella mia vasca?» abbozzai mentre mi strofinavo una mano sugli occhi e poi la infilavo di nuovo tra gomito e costole.
«Non quanto sul fondo del mare» replicò protendendosi in avanti e passandosi le braccia intorno alle ginocchia. I sali dovevano aver esaurito il loro effetto e ad un certo punto durante la notte la sua coda doveva essersi divisa di nuovo in due gambe umane. Anche il resto del suo corpo aveva perso le sembianze da maride. «Però l'acqua è ancora calda.»
«Dormite davvero sul fondo del mare?»
«O intorno agli scogli. Dove possiamo rintanarci.»
Per qualche motivo l'idea di dormire sott'acqua mi risultava più strana dall'esistenza stessa delle sirene. E del fatto di star avendo una simile, tranquilla conversazione con Clothilde.
«Pensi di voler tornare in acqua ad un certo punto?» chiesi, e le mie parole, impastate di sonno e genuina curiosità, uscirono dalla mia bocca con abbastanza naturalezza da spingerla a rifletterci.
Fissò i propri piedi attraverso l'acqua, le mani strette intorno alle ginocchia, i marchi sulla testa esposti alla luce del bagno.
«Sembra che io possa scegliere» fu la sua unica risposta.
Abbassai lo sguardo sulle mie mani, su Caliane ancora addormentata intorno al polso, sul marchio nascosto sotto di lei che non potevo davvero vedere. Poi lo rialzai sulla sirena nella vasca.
«Non ti chiederò scusa» dichiarai alla fine, la mia voce sveglia e ferma questa volta.
«E io non ti ringrazierò» replicò Clothilde sostenendo il mio sguardo.
Annuii. Feci per andarmene ma poi tornai al mio posto. «Quindi ora siamo... cosa, pari?, socie?»
«Due persone che si sfruttano a vicenda?»
Mi venne da sorridere. «In simbiosi allora!»
Non si disturbò a rispondermi mentre si issava sul bordo della vasca e usciva dall'acqua. Distolsi lo sguardo e andai a frugare nel mio armadio in cerca di qualcosa da prestarle. Qualcosa che probabilmente non avrei riavuto indietro.
«Tu sei mai tornata?» Ora era lei quella appoggiata allo stipite che fissava l'altra dall'alto in basso, il suo corpo nudo e pallido che grondava acqua sulla moquette. «A Versailles.»
La domanda mi colse alla sprovvista. «No» risposi dopo un po'. «È troppo pericoloso.»
«Dopo sei mesi?»
«Non sappiamo se i mutaforma abbiano trovato le segrete o meno, se siano riusciti ad entrarci. O se sono ancora appostati lì in attesa che io ritorni.»
«L'elfo senza nome non si è offerto di accompagnarti?»
«Li fermerebbe dall'aggredirmi, non dallo scoprire dove sono le segrete.»
«I mutaforma vi hanno visto uscire dalle segrete» mi fece notare Clothilde. «Sanno esattamente dove si trovano. A quest'ora avranno certamente trovato il modo di entrare.»
«No è impossibile!» protestai. «Lucien ha scelte apposta, nessuno--»
«Non potrebbero essersi trasformati in vermi, o insetti, o microbi ed essersi infilati tra le botole?»
La logica era dalla sua parte. Ma io ero cresciuta in quelle segrete. Sapevo che erano sicure, dovevano essere sicure, o il mio maestro non avrebbe mai rischiato la vita di entrambi restando così a lungo nello stesso posto.
«Se fossero riusciti a entrare se ne sarebbero già vantati» osservai tirando giù dalle stampelle il vestito invernale più grigio e anonimo che possedessi e passandolo a Clothilde insieme ad un paio di scarpe basse che avrebbe potuto scalciare via facilmente. Riuscii a convincerla a prendere anche delle mutande, ma non delle calze. «Non ci hanno pensato due volte a far circolare amuleti fabbricati con il suo sangue, penso che avrebbero indetto l'asta del secolo se fossero in possesso dei suoi quaderni.»
Clothilde spalancò leggermente gli occhi alla menzione degli amuleti, ma non chiese ulteriori spiegazioni. «Non potrebbero volerli tenere per sé?» domandò invece, con una certa malizia.
Capii cosa stesse facendo, instaurando il dubbio dentro di me così che la curiosità avesse la meglio sulla cautela.
«Se questi quaderni sono ancora lì non vuoi riprenderteli?»
Sbuffai. E sospirai.
Non era una buona idea. Non poteva essere una buona idea. Però era un'idea che stava prendendo forma nella mia mente dopo mesi in cui ero riuscita a sopprimerla.
Non sapere cosa ne fosse delle segrete, della mia casa, era frustrante. I mutaforma non potevano esserci entrati – la mia mente rifiutava di crederlo.
Però Mark aveva Boom. Il mutaforma al mercato degli archi di Roma aveva la puffola che avevo lasciato a Versailles.
C'era una possibilità che mi fossi sbagliata e che quella puffola grigia non fosse la mia. C'era una possibilità che Boom avesse trovato il modo di uscire da sola – uscire dalle segrete era tutt'altra cosa che entrare, o neanche Clothilde ci sarebbe riuscita. Però c'era anche la possibilità, remota e improbabile, che almeno un mutaforma ce l'avesse fatta. Che un estraneo, un nemico, avesse girato per i corridoi di casa mia, frugato tra le mie cose, frugato tra quelle del mio maestro.
Guardai Clothilde, impegnata a trovare il modo più complicato di entrare nel vestito grigio. Lei non credeva davvero che i mutaforma ce l'avessero fatta, lo diceva solo per stuzzicarmi. Ma perché spingermi a tornare? Era una trappola?
Il mio cervello lavorò in fretta. I mutaforma avevano attaccato il suo branco e lei era l'unica sopravvissuta. Li aveva già aiutati a trovarmi una volta. E uccisa un'altra.
Questo era il modo perfetto per stanarmi. Per portami nell'unico posto dove non avrei voluto essere seguita nemmeno dagli arborei che mi proteggevano.
I marchi sulla testa di Clothilde erano ancora ben visibili – il capellino di lana del giorno prima finito chissà dove. I marchiatori tendevano a circondarsi dei loro marchiati piuttosto che lasciarli in giro per il mondo. Questa particolare marchiata, però, poteva mentirmi. Poteva tradirmi.
Chiusi gli occhi e mi passai le mani sul viso, mi massaggiai le tempie prima di riaprirli. L'armadio riapparì nel mio campo visivo. Afferrai un maglioncino arancione a pois bianchi che mi piaceva fin troppo e un paio di pantaloni bianchi che secondo gli arborei sarebbero andati di moda solo qualche anno dopo.
«Andiamo a fare colazione» fu la mia unica conclusione.
Clothilde mi seguì fuori dalla stanza, il cappellino di lana di nuovo sulla sua testa e le scarpe strette in mano come pietre pronte per essere scagliate contro eventuali nemici.
La persi mentre zigzagavo tra le creature affollate intorno ai chiostri del livello verde, ma quando riemersi dalla calca con due vassoi di cibo in bilico sulle braccia la vidi nella stessa nicchia della sera prima, l'elfo anonimo seduto a terra di fronte a lei, dall'altra parte del tavolo.
Le loro espressioni erano serie mentre parlavano, ma da dove mi trovavo non riuscii a distinguere le loro parole e loro mi notarono prima che potessi avvicinarmi abbastanza.
«Porto doni» annunciai posando i vassoi sul tavolo. Clothilde ispezionò rapidamente i piatti che avevo scelto. Scartò le uova strapazzate e si impadronì del tartino di alici e dell'insalata di alghe e salmone affumicato.
Io decisi di cominciare dalla ciotola di frutta secca. Ne offrii all'elfo con un gesto, ma lui sorrise e scorre la testa senza incontrare il mio sguardo.
«Ho già mangiato, grazie. E sono solo di passaggio.» Frugò nella tasca interna della sua giacca di camoscio e ne estrasse una busta di carta che porse a Clothilde. «Questi sono dei documenti provvisori» le spiegò.
Lei aprì immediatamente la busta.
«Ovviamente ci vorrà tempo prima che possano rilasciarti qualcosa di definitivo. E dovrai fare richiesta tu stessa. Questa volta mi sono occupato io di tutto, ma la prossima qualcuno dovrà esaminarti.»
«Esaminarmi?» Per prima tirò fuori dalla busta una carta d'identità umana dall'aspetto del tutto autentico, poi una specie di piastrina militare infilata in una corda di caucciù. «Nel senso di visitarmi?»
«No, no» le assicurò lui. «Anche se lo farebbero volentieri se potessero» aggiunse a mezza voce.
«A loro non interessa rilasciare un documento vero» intervenni. «L'importante è che sia attendibile.»
Clothilde mi rivolse uno sguardo confuso e irritato allo stesso tempo.
«Non fa differenza se ti presenti come Clothilde o con qualsiasi altro nome. Non avrebbero modo di verificare che sia autentico o no e non ha importanza. Ciò che conta è che rilascino un documento che si riferisca unicamente a te, perciò ci dovrà essere una tua foto se necessario, o comunque una descrizione che corrisponda alla tua. Hanno solo bisogno di un modo per assegnare un'identità alla tua faccia.»
L'elfo annuì in conferma. «Teoricamente puoi richiedere anche più di un documento.»
Quando lo aveva spiegato a me, pochi mesi prima, lo avevo sommerso di domande sulla burocrazia arborea. Clothilde accettò la situazione con poco più che una scrollata di spalle.
«Quella la devi indossare» puntualizzò l'elfo indicando la piastrina identificativa abbandonata sul tavolo. «O comunque portare con te. È il tuo unico documento arboreo, l'altro è solo un'emulato di quelli umani.» La mia l'aveva inghiottita Caliane e ora era inglobata nel metallo della mia djinn.
«Così se trovano il mio cadavere gli arborei sanno chi sono?»
«Solo se hai dato loro il tuo nome vero.»
«Non ho dato il mio nome a nessuno.»
Afferrai la carta d'identità umana e la aprii. La prima cosa che mi colpì fu la foto. Era decisamente Clothilde, ma con qualcosa di molto diverso. Aveva i capelli lunghi ancora attaccati alla testa, lo sguardo terribilmente perso nel vuoto e una faccia più giovane – da adolescente invece che da ragazza sulla ventina.
«Era l'unica foto di te che avevo» spiegò l'elfo a mo' di scuse quando anche Clothilde fece caso all'immagine.
Un attimo dopo, però, la mia attenzione fu catturata dal nome sul documento. «Overlord?» esclamai. «Clothilde Overlord?»
Parte di me fissò con rabbia l'elfo che aveva dato il mio cognome alla mia marchiata. Un'altra parte di me mi impose di ricompormi.
Lui non si spiegò né giustificò. «Se vorrà potrà cambiarlo» disse solo. Clothilde continuò a masticare alghe e salmone.
L'elfo ci guardò mangiare in silenzio per qualche istante, poi si alzò e si allontanò. Un attimo dopo ero in piedi e correvo per raggiungerlo.
Lo costrinsi a fermarsi e gli dissi di Versailles, così in fretta che quando ebbi finito mi trovai a corto di fiato.
«È un'ottima idea» dichiarò lui alla fine, spiazzandomi.
«È una pessima idea!» replicai io. «Ed è pericoloso.»
Lui ci rifletté solo per un momento. «No invece. Sappiamo che i mutaforma hanno smesso di cercare due mesi fa e non sono più tornati. Nessuno sa se abbiano trovato le segrete o no e tu sei l'unica che può controllare.»
«Ma...»
«Ormai quel posto è pieno di arborei» continuò lui rivolgendomi un sorriso incoraggiate. «Siamo meno vandalici ma non meno curiosi dei mutaforma. Nessuno ti seguirà se non vuoi, ma non ti staccheranno gli occhi di dosso. Sarai al sicuro.»
Lo fissai senza sapere cosa dire. Il cuore del mio petto batteva all'impazzata.
L'elfo mi posò una mano sulla spalla. Mi diede un leggera stretta di incoraggiamento, poi ritrasse la mano. «Ti farà bene tornare lì» concluse prima di riprendere a camminare.
Lo guardai allontanarsi, ancora interdetta.
«Ti procurerò dei biglietti!» aggiunse ad un certo punto, voltandosi e urlando nella mia direzione, ma senza smettere di camminare. «E cancellerò la tua lezione di oggi.»
Tutto ciò che riuscii a pensare mentre tornavo da Clothilde era che se anche gli arborei mi volevano morta non avevo vie di scampo, perciò tanto valeva assecondare i miei desideri e tornare a Versailles.
La sirena non poteva aver sentito la nostra conversazione, ma la mia espressione doveva essere chiara, perché mi rivolse un sorriso a trentadue denti nell'istante in cui tornai a sedermi.
Per quando finimmo di fare colazione l'elfo anonimo era già tornato con due biglietti per un treno arboreo che sarebbe partito poco più di un'ora dopo e una parrucca per Clothilde – un caschetto di folti capelli neri che le stava fin troppo bene. Se ne andò portandosi dietro i nostri vassoi ormai vuoti.
Ebbi appena il tempo di tornare in camera per recuperare uno zaino prima di dover correre attraverso i corridoi sotterranei del livello indaco per perdere il nostro treno.
La stazione arborea di Arles era come un intreccio di tunnel e gallerie che si diramava dal livello blu a quello giallo come un enorme labirinto per le biglie.
Le banchine, tutte di dimensioni e ad altezze diverse, si trovavano sui pioli di una grande scala a chiocciola, una spirale che si avvitava nelle profondità della terra.
Sulla banchina indaco c'erano già altre due persone: un vecchio possente ma ingobbito che si appoggiava ad un grosso bastone intarsiato – una chimera a giudicare dal gargoyle di granito appollaiato sulla sua spalla e dalla pelle nera come inchiostro – e un ragazzino dall'aria denutrita – un acheri, o qualche altro tipo di spettro. Il gargoyle continuava a puntare il ragazzo con occhi famelici. Il vecchio si limitava a dargli colpetti sulle zampe e a borbottare parole che si perdevano in colpi di tosse.
Clothilde incrociò le braccia davanti al petto e rallentò il passo. Mi guardò da sotto la frangia della parrucca come se stesse contemplando di tornare indietro.
Scossi impercettibilmente la testa e le rivolsi quello che mi auguravo fosse un sorriso rassicurante. Se l'elfo ci aveva trovato un posto con altre persone significava che era sicuro.
Passarono appena due minuti prima che una sfera di pietra, grigia e lucida come una perla ma più grande di un'automobile, arrivasse rotolando da una delle gallerie e si fermasse davanti a noi. Sulla metà superiore si aprirono delle crepe nette e geometriche e la pietra si schiuse come un fiore di carta. All'interno, sotto una cupola leggermente più piccola e perfettamente trasparente, un unico sedile circolare addossato alle pareti della sfera era diviso in quattro da dei braccioli.
Il vecchio si mosse per primo. Estrasse da una tasca uno stiletto con un codice inciso – un biglietto come quelli che avevamo noi – e lo infilò in una scanalatura alla base della cupola trasparente, lo fece girare una volta come una chiave, poi un quarto della cupola si sollevò come il bagagliaio di un'auto e lui entrò nel suo scomparto usando il sedile stesso e dei gradini sottostanti come scala. Quando si fu sistemato, la sfera ruotò su se stessa quando bastava per offrici un altro posto vuoto.
Mentre il ragazzo acheri ripeteva i gesti della chimera tenni d'occhio Clothilde.
«Affascinante, non è vero?» commentai per lei, troppo ostinata per esprimere apprezzamento per un'invenzione arborea.
«Ingegnoso» concesse, precedendomi sul terzo scomparto.
«Ho sentito che la più grande in circolazione ha otto posti, su due piani. Hanno creato anche modelli più grandi, ma non sono pratici. Preferiscono affiancare più sfere piccole.»
La sirena mi rivolse uno sguardo che esprimeva tutto il suo interesse in materia.
Mi sistemai per ultima sul mio sedile – sorprendentemente comodo per essere rigido e senza nessun tipo di imbottitura. Il trasporto con cui ero arrivata ad Arles da Roma doveva essere una versione più piccola di questa, ma ricordavo poco e niente di quel viaggio, ero stata un cadavere per la maggior parte del tempo.
Lo strato di pietra si richiuse sopra di noi e dei cerchi luminosi si accesero sul soffitto e ai nostri piedi prima che fossimo lasciati al buio.
Distinguemmo chiaramente il momento in cui la sfera cominciò a rotolare perché potevamo vedere la pietra muoversi oltre lo strato interno trasparente, ma non avvertimmo il movimento in nessun altro modo.
Il ragazzo acheri tentò di attaccare bottone un paio di volte prima che Clothilde lo fulminasse con lo sguardo e cominciasse a canticchiare a labbra strette. All'inizio la sua non era che una melodia sommessa, come se stesse cercando di ricordare una musica sentita chissà dove, ma con il passare dei minuti si arricchì di sfumature. La sua voce riempì l'aria come acqua che sgorga da una fenditura nella roccia, scivolando fuori dalla sua bocca senza il minimo sforzo apparente.
Gli occhi del ragazzo acheri e della vecchia chimera erano puntati su Clothilde, ma i loro sguardi erano vacui e distanti, non come se ogni pensiero fosse stato cavato via dalla loro mente, ma piuttosto se si stessero concentrando sull'unica cosa veramente importante.
Anch'io guardai a lungo Clothilde, e ascoltai quella sua canzone che era nenia e filastrocca, quieta e frizzante, cupa e giocosa, ma dentro di me sentivo di essere lucida, padrona delle mie azioni.
«È interessante,» canticchiò ad un certo punto, in mezzo ad una serie di neutri woo-woo.
«Cosa?» replicai. Il ragazzo e il vecchio non sembrarono neanche registrare il nostro scambio.
«che tu sia ancora immune al mio canto,»
«Intendi nonostante tu mi abbia uccisa?»
Altri woo-woo furono la sua unica risposta.
«Evidentemente il tuo bacio ha effetto prolungato oltre la morte» commentai lo stesso e passai gran parte del viaggio a contemplare la possibilità che, così come la saliva di sirena e qualsiasi cosa vi fosse contenuta, anche alcuni tipi di veleno potessero rimanere in circolo nel mio corpo anche dopo una morte.
Il progresso della tecnologia arborea ci permise di compiere in sole quattro ore un viaggio che sarebbe potuto durare una giornata intera con i mezzi di trasporto umani. Clothilde cantò ininterrottamente fino al momento in cui scendemmo dalla nostra sfera e i nostri due compagni di viaggio se ne furono andati per la loro strada. Per svariati minuti, dopo, il silenzio fu insopportabile.
Prima di tornare in superficie deviai attraverso i cunicoli per raggiungere una delle tante sorgenti sotterranee sfruttate dagli arborei. Clothilde bevve così tanto che temetti si potesse trasformare in sirena.
Seguimmo le indicazioni arboree – simboli luminosi incisi sulle pareti – fino all'uscita più vicina. Ci arrampicammo su una scala a chiocciola particolarmente stretta e particolarmente ripida ed emergemmo nel cuore del cimitero dei Gonards, sbucando dal tronco di un albero cavo. Passammo attraverso la vegetazione come se avessimo semplicemente preso una scorciatoia, ci immettemmo sulla via principale e uscimmo dal cimitero senza attirare l'attenzione dei pochi visitatori.
Fuori dalle mura del cimitero, la città era viva e sveglia e la bolla di irrealtà in cui vivevo ormai da mesi scoppiò di colpo. Il chiacchiericcio mi riempì le orecchie, le voci di uomini, donne, ragazzi e bambini che distorcevano una lingua conosciuta in uno scroscio di suoni indistinti. L'aroma di ruggine e fiori fu soffocato dall'odore di cibo, profumi chimici e gas.
Il vento sembrò farsi più forte, i palazzi più alti di quanto avrebbero dovuto essere e noi molto più piccole.
Il senso di disorientamento mi lasciò stordita a lungo.
«Non dirmi che non sai la strada» si lamentò Clothilde.
«La so la strada» brontolai. Lanciai una rapida occhiata alla posizione del sole per essere sicura di prendere la direzione giusta, poi mi avviai verso nord. Clothilde mi seguì un attimo dopo.
Camminammo in silenzio, con passo sorprendentemente sincronizzato e andatura sostenuta. Stavano attente che nessuna si trovasse mai alle spalle dell'altra, scambiandoci ogni tanto occhiate nervose, ma allo stesso tempo ci tenevamo così vicine che le nostre spalle e le nostre braccia si toccavano continuamente.
Clothilde ricominciò a canticchiare e come sulla spiaggia il giorno prima intorno a lei sembrò crearsi una bolla intorno alla quale le persone si affollavano inconsapevolmente ma che non potevano davvero attraversare. Avvolta dalle vibrazioni della sua voce, mi sentii al sicuro e una sensazione di calore mi riempì il petto e il ventre.
Passammo sotto i binari che uscivano dalla Gare e ci immettemmo su Rue de Chantiers.
Cominciò a piovere in modo leggero, senza fulmini né tuoni, come se l'acqua volesse semplicemente avvicinarsi di più alla propria creatura. Forse era proprio così, forse era la trasposizione della capacità delle sirene di controllare il mare e le sue correnti.
Qualche ragazzo corse per mettersi al riparo. Noi non avevamo ombrelli, ma le gocce di pioggia, come le persone, ci si avvicinavano senza mai toccarci davvero.
«Non daremo troppo nell'occhio?» mormorai a Clothilde mentre ci immettevamo sull'ampia Avenue de Paris, la reggia di Versailles visibile in lontananza come lo sfondo di un palcoscenico.
«Non possiamo dare nell'occhio se nessuno ricorderà di averci visto» replicò lei, sempre canticchiando.
«Puoi farglielo dimenticare?»
Mi fissò con aria di sufficienza. «Li inebetisco così non ci memorizzano proprio.»
Non mi fidavo particolarmente delle sue capacità di occultamento, ma rimasi in silenzio. Quando raggiungemmo la reggia mi rifiutai di incantare le guardie per farci passare e costrinsi Clothilde a fare la fila come una normale turista.
Passammo avanti ad una donna che si lamentava de ces nouveaux francs e una famigliola e cui figli non volevano entrare perché cet endroit était vieux, ma per il resto aspettammo pazientemente il nostro turno.
Avevo portato con me decisamente più franchi di quanti ne servivano, perciò pagare il biglietto non fu un problema. L'uomo dietro la cassa non mi era familiare e non sembrò riconoscermi.
Una volta dentro ci dirigemmo direttamente ai giardini. Rimasi a lungo nei pressi dell'ingresso, ad ammirare la grande perspective che quella posizione privilegiata offriva.
«Sono a casa» mormorai, quasi involontariamente, mentre i miei occhi correvano lungo il viale principale, scavalcando le fontane, salutando le statue, accarezzando le siepi.
Non avevo ricordi di nessun posto prima della Reggia di Versailles. Su quella ghiaia avevo mosso i primi passi, tra quegli alberi avevo giocato a nascondino, su quelle aiuole mi ero sbucciata le ginocchia, su quelle scale mi ero seduta insieme a Lucien osservando i turisti e giocando a distinguere gli umani dalle altre specie.
«Una vera principessa» fu il commento di Clothilde.
«La principessa dei sotterranei» replicai costringendomi a distogliere lo sguardo.
«E la sua sirena da acquario.»
Alzai gli occhi al cielo. «Muoviamoci.»
Tornai sui miei passi, attraversai il Parterre du Midi e passeggiai sulla terrazza che dava sull'Orangerie.
«Riconosco questa parte» affermò Clothilde con un certo entusiasmo.
Annuii e le indicai la scalinata alla nostra sinistra che scendeva verso i giardini. «Alla base dei gradini, l'ultima finestra.»
«Quella specie di arco nell'ombra?»
Annuii di nuovo e riprendemmo a camminare. Ci aggirammo per l'Orangerie con particolare flemma, assicurandoci che nessuno facesse caso a noi mentre ci accostavano alla finestra nel sottoscala.
Una normale finestra si sarebbe potuta aprire solo dall'interno. Con la giusta pressione, però, le ante ruotarono sui doppi cardini nascosti. Quando si furono aperte del tutto, il davanzale si rivelò essere una botola. Feci segno a Clothilde di precedermi in modo da poter poi richiudere il passaggio sopra le nostre teste.
Scendemmo la lunga scala a pioli in silenzio e immerse nell'oscurità più totale. Mi sembrò di sentire il suo respiro farsi più affannoso.
Mi sporsi quanto bastava per guardare in basso. Potevo già scorgere delle luci e distinguere il leggero scricchiolio degli ingranaggi sul fondo.
Toccammo terra su un pavimento di ingranaggi e lampadine che riconobbi con gioia.
«Dove sono le altre scale?» protestò Clothilde e la sua voce riecheggiò un paio di volte prima di estinguersi del tutto. Vedevo appena la sua faccia, ma distinsi le pieghe sulla sua fronte aggrottata. «C'erano delle scale...»
«Ci sono, ci sono» le assicurai.
Mi presi il mio tempo, ma lo schema di qual labirinto meccanico era troppo radicato nella mia memoria per poter essere cancellato da qualche mese di assenza.
Il capolavoro di ingegneria ai nostri piedi era il dietro le quinte del cielo stellato che sovrastava le segrete, ma anche la prima e unica linea di difesa che per sedici anni mi aveva protetta dal mondo esterno.
Alcuni ingranaggi erano di ottone, altri di acciaio. Alcuni erano piccoli come orologi, altri grandi come ruote di carrozze. Alcuni erano imprigionati nel loro inspiegabile moto perpetuo, altri erano immobili da sempre. Alcuni erano veri, finalizzati a simulare le orbite delle stelle e dei pianeti, altri erano finti, posizionati per riempire gli spazi vuoti e confondere l'occhio dell'osservatore più esperto. Alcuni, quasi tutti in effetti, erano completamente cosparsi di veleno.
Qualsiasi mutaforma che avesse tentato di deformarsi per strisciare attraverso gli ingranaggi o qualsiasi uovo che avesse voluto creare la propria via smontandoli pezzo per pezzo sarebbe morto nel giro di un quarto d'ora.
«Lucien ha costruito tutto questo?» chiese Clothilde, questa volta a bassa voce per evitare il rimbombo.
Scossi la testa. «Lucien ho trovato questo passaggio e il modo per entrare, e ha sicuramente apportato modifiche alle segrete, ma no, non è stato lui a costruirle. Non ho idea di chi sia stato. Forse esistevano già prima della Reggia, forse in segreto facevano parte del progetto originale. E non ho idea di come il mio maestro abbia fatto a scoprirle.»
«Insomma comunicavate molto.»
Le lanciai un'occhiataccia, ma se la notò non lo diede a vedere e in ogni caso aveva più ragione di quanto fossi disposta ad ammettere.
Non avrei dovuto, ma le rivelai la presenza del veleno sugli ingranaggi. E le mostrai la via di accesso. Quali lampade tenere d'occhio, come muoversi appena rimanevano tutte spente per qualche istante, dove mettere i piedi, quali pezzi far scorrere di lato per rivelare la seconda botola e la scala a chiocciola sotto di essa.
Questa volta scesi per prima.
Nelle segrete le luci erano ancora accese.
Sugli scaffali addossati alle pareti dell'atrio c'erano ancora gli stessi buchi lasciati dai libri che avevo portato nella mia camera. Sul tavolo incastrato in un angolo c'erano ancora il barattolo con le lucciole morte e i taccuini che Lucien aveva portato dal suo ultimo viaggio, il suo zaino ancora abbandonato su una delle sedie. Dalla cima delle scale potevo vedere che la porta della mia camera erano ancora aperta e, più infondo, che la rete metallica copriva ancora metà della vasca, come la coperta di un letto sfatto.
Era come tornare indietro nel tempo.
Cancellare gli ultimi mesi.
Come un libro lasciato a metà, una storia pronta a ricominciare da dove si era interrotta. Ero tornata, avevo Clothilde. Dovevo finire il disegno di Boom sulla parete della mia cella.
Scesi i gradini lentamente, accarezzando appena il corrimano e lasciando una scia lucida attraverso il sottile velo di polvere. Girai su me stessa insieme alla scala a chiocciola, spiraleggiando indietro nella mia esistenza.
«Maestro?» sussurrai e la mia voce riecheggiò nelle segrete.
L'odore di chiuso era più forte di quanto ricordassi. Faceva più freddo dell'ultima volta.
Raggiunsi il tavolo, solo vagamente cosciente della presenza di Clothilde. La polvere aveva riempito i marchi che avevo inciso nel legno, ingrigito i taccuini e reso opaco il vetro del barattolo. I cadaveri delle lucciole erano ancora intatti.
Presi a caso uno dei taccuini e lo sfogliai senza leggere davvero. Non erano le parole ad interessarmi, ma le lettere. Le loro linee sottili, i loro angoli aspri, gli spazi che le separavano e i fili di inchiostro che le legavano. Non importava la lingua, importava la voce che vi era riflessa. Fissai i disegni vedendo solo gli occhi e le mani.
Finché non riuscii a vedere più. I miei occhi erano così gonfi che tiravano la pelle intorno. Chiusi il taccuino ma lo tenni stretto contro il petto. Alzai lo sguardo sulle luci – i tanti piccoli soli del mio cielo stellato – aspettando che la mia vista tornasse limpida, ma non successe.
Tirai su con il naso e mi sembrò di sentire un rumore.
«Maestro?» chiamai di nuovo, questa volta ad alta voce, rivolta al corridoio vuoto. «Sono io» annunciai mentre lo attraversavo a grandi falcate.
Raggiunsi la porta della sua camera, appena socchiusa, ma quando alzai la mano per bussare lo sguardo mi cadde su Caliane. Il djinn scivolò giù dal mio polso, fino al gomito, scoprendo il mio marchio. Il 4 in cifre arcaiche.
Spinsi la porta della cella e quella si aprì con un cigolio appena percettibile.
Mi chiesi da quanto tempo non entravo nella sua camera. Mi chiesi se ci fossi mai entrata. Se ci avrei trovato qualcuno, o qualcosa. Non ero preparata al vuoto.
Un materasso di lana quadrato era appoggiato al centro della parete più lunga, la cassapanca che conteneva le coperte gli faceva da testiera, il pavimento nudo da unico supporto. Due armadi identici occupavano le pareti laterali, uno con dentro vestiti, l'altro penne, fogli bianchi, inchiostri colorati e taccuini vecchi.
L'intera parete contro il letto era occupata da un planisfero, simile a quello che avevo io sopra il mio letto ad Arles, e così diverso che faticavo a riconoscere lo stesso pianeta. Era più accurato di qualsiasi cartina che fosse mai stata stampata, dai colori così intensi che non sarebbero dovuti poter esistere in natura, talmente dettagliato che avrei potuto giurare di scorgere il fondale sotto il pelo dell'acqua e distinguere le cime dei monti dalle loro valli.
Salii sul materasso e vi rimasi inginocchiata a lungo, convinta che se mi fossi concentrata abbastanza avrei potuto vedere tante piccole persone muoversi sulla terraferma.
Avevo la Terra intera davanti a me, nitida e pulsante come se il pianeta fosse stato fatto rotolare sulla parete e vi avesse lasciato la propria impronta.
Chiusi gli occhi, le sopracciglia dolenti e le guance bollenti. E sotto il martellare delle tempie fui certa di udire il suono di onde e vento. Potevo sentire l'aria aperta sulla pelle del volto, il sapore del sale sulla punta della lingua. E in fondo, sempre più in fondo, oltre gli strati di terra dietro la pietra della parete, le voci. Si accavallavano come correnti, intrecciavano come rami, scrocchiando come cera calda sulla carta e rimanendo nient'altro che una carezza contro le mie orecchie.
Quando riaprii gli occhi sussultai.
L'intero planisfero era costellato di puntine. Tanti piccoli aghi dalla capocchia rossa che trafiggevano la pietra in molti più punti di quanti sarei riuscita a contare in giorni e giorni. Come avevo potuto non notarle prima?
Mi alzai in piedi a mi arrampicai sulla cassapanca. Feci scorrere le mani sulla parete, lasciando che li dita si incastrassero tra le puntine, che le mie unghie raschiassero invano il colore indelebile.
Afferrai una puntina a caso tra quelle sul continente americano, dove non credevo fosse mai stato, e tirai con forza. Dopo un momento, la puntina schizzò finalmente fuori dal muro e mi sfuggì dalle dita. La sentii cadere a terra, ma non riuscii a vedere dove.
Fissai l'Europa, dove le puntine erano talmente numerose che mi bastò sfiorarle perché alcune si staccassero dalla parete.
«Sei stato in tutti questi posti.» Stavo piangendo. Da quanto tempo stavo piangendo? Persino il mio collo era rigato di lacrime. «Sei stato ovunque» singhiozzai «e non mi hai mai portato con te!» Afferrai tutte le puntine che potevo «In tutti questi anni» tirai con rabbia «sei partito centinaia di volte» e si staccarono dal muro tutte insieme «e mi hai sempre lasciata qui!»
Decine di spilli piovvero a terra e mi rimbalzarono intorno, ma tutto ciò che sentivo era il martellare del mio cuore.
«Mi hai rinchiuso!» Mi avventai sulle puntine più in alto. «Mi hai punito!» Le mie dita sanguinavano. «Mi hai cresciuta in isolamento.»
Ormai mi stavo arrampicando sul muro. Ma alcune puntine erano troppo in alto per me. Per quanto mi allungassi le mie mani non ci arrivavano.
«PERCHÉ?» protestai verso gli spilli fuori portata. «Perché?» Pensai di saltare, ma invece mi lasciai cadere. Gli spilli sul materasso mi punsero le gambe come decine di insetti.
«Pe-eh--» la mia voce si spezzò definitivamente e le mie labbra presero a tremare incontrollabilmente, ma il monologo nella mia testa era più forte che mai.
Eri invidioso di me, inspirai dolorosamente. La rabbia stava riempiendo il vuoto dentro il mio petto, sgorgando dalle crepe del mio lutto silente. Eri invidioso perché sapevi che sarei diventata una marchiatrice migliore di te. Una persona migliore di te.
«Eri mio padre!» sussurrai rialzando lo sguardo sul planisfero. «Eri mio padre,» ripetei, a voce ancora più bassa, «mio fratello» continuai, abbassando gli occhi sul materasso nudo «e mio amico.» Un singulto mi contrasse i polmoni in uno spasmo di dolore. «Perché?» chiesi di nuovo, scoprendo che anche la rabbia era svanita, lasciando solo un'incredibile stanchezza e un dolore sordo. «Perché mi hai abbandonata?»
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