La Mappa
Se mai fosse stato loro chiesto, né Edouard né Diane sarebbero stati in grado di localizzare con precisione nella propria memoria il giorno del loro primo incontro, tanto erano ormai abituati a condividere insieme la propria vita. S'erano conosciuti in quell'età di mezzo tra l'adolescenza e l'adultità e, inseguendo la chimera di un amore perfetto, s'erano promessi di non lasciarsi più.
Eppure, prima di quel venerdì di metà marzo, quando nella capitale s'era tenuta quella manifestazione per l'ambiente, Eddie e Diane non si erano mai parlati molto, e anzi avrebbero giusto detto di conoscersi di vista, magari il nome di uno avrebbe richiamato qualcosa nella mente dell'altra, ma niente più del semplice ricordo sfocato di un volto. Diane soprattutto, con le sue origini medio-borghesi e la sua promettente carriera da fantina, era sempre presa a correre dietro alle pretese dei suoi genitori, i quali, avendola cresciuta in mezzo all'odore di stalla e finimenti in cuoio, l'avevano sin da bambina indirizzata verso il mondo delle gare equestri e le medaglie d'oro; ben poco tempo aveva dunque da dedicare a quel giovane tirocinante di medicina veterinaria venuto a prendersi cura dei cavalli del maneggio di famiglia. Ed Eddie, d'altronde, abituato sin da ragazzino a passare inosservato in mezzo a chiunque, con quel suo corpo sottile con cui riusciva a scomparire con niente, non avrebbe mai creduto che una ragazza come Diane avrebbe potuto accorgersi di uno come lui.
"Caro amore mio...".
Ma nonostante ciò, nonostante facessero parte di due mondi fin troppo diversi toccatisi per un attimo e destinati a non rincontrarsi più, nonostante ciò, quel venerdì di metà marzo, per semplice fortuna, circostanze che si coordinano e si mettono a danzare tra loro, Eddie e Diane si ritrovarono. Entrambi storditi dalla folla, si erano rifugiati lontani dalla confusione per lo stesso viottolo angusto del centro, ed era bastato loro un unico sguardo per riconoscersi e giungere alla tacita conclusione che quella era una coincidenza da dover prendere al volo, come un'occasione rara. Si misero a camminare per ore, fino a quando i piedi non iniziarono a far loro male e la sera non scese trai vicoli e le stradine nascoste. Poi Eddie l'aveva riaccompagnata a casa in motorino e il mese dopo erano andati a vivere insieme in un minuscolo monolocale di periferia, abbastanza economico da poter essere pagato con i pochi soldi del tirocinio di lui.
E forse fu solo il desiderio di Eddie di sentirsi finalmente visibile per qualcuno, o forse fu solo il desiderio di Diane di fuggire via da quella prospettiva di vita di cui si sentiva prigioniera, ma se mai fosse stato loro chiesto, entrambi avrebbero risposto dicendo che, senza ombra di dubbio, il tempo condiviso insieme fu in assoluto il più felice delle loro vite.
Ogni giorno, Eddie si alzava e si recava in università, poi prendeva l'autostrada per raggiungere in poco tempo i maneggi e le fattorie di campagna, e infine tornava a casa all'ora di cena. E seppure potesse a volte sembrarle una quotidianità piuttosto monotona, Diane lo aspettava impaziente ogni sera, ed ogni sera i due si ritrovavano sul divano-letto che scricchiolava ad ogni loro movimento, e sul quale, sfiniti, si addormentavano abbracciati, sperando che quei momenti così rapidi durassero per sempre.
"Sai, ogni tanto mi capita di ripensare a quei nostri viaggi infiniti anche se spesso immaginati, a quei sogni costruiti mentre osservavamo la nostra grigia città, che a noi è sempre sembrata uguale, troppo monotona nei suoi tram in orario ad ogni stazione.".
Si sentivano felici. Diane lo era di sicuro, dopo che aveva rinnegato tutti i progetti che i suoi genitori le avevano cucito addosso: la carriera da stella dell'equitazione, i premi, magari persino le Olimpiadi; un percorso già scritto su una mappa che aveva strappato in due, finalmente libera di poter vivere come la ragazza normale che aveva sempre sognato di essere, con la possibilità di scegliere tra mille e mille strade da percorrere, su una mappa ancora da scrivere. Lei era felice, lei ora viveva davvero, e non aveva alcuna intenzione di tornare indietro.
Prima ancora che i colpi bassi della vita li cogliessero di sorpresa, Eddie e Diane avevano avuto l'occasione di viaggiare parecchio, scorrazzando per la campagna vallona a bordo di una Ford Escort del '98, appartenuta al padre di Eddie quando lui era ancora un ragazzino, e che questi aveva deciso di tenere nonostante il nome ilare di cui andava però piuttosto fiero. Partivano di sabato mattina, alle prime luci del giorno, e felici se ne andavano sfrecciando per strade chilometriche dai paesaggi tutti uguali: stesse fattorie e stessi campi di tuberi, verdi come smeraldi lucenti. Facevano tappa nei paesini attorno alla capitale, passeggiavano per la piazza centrale e per le stradine isolate, riproponendo in ogni nuova città il giorno del loro primo incontro; scattavano foto, passeggiavano a lungo, e poi mangiavano fermandosi da qualche parte, o continuando a camminare, o seduti su una panchina davanti al via vai di gente sconosciuta; aspettavano che il sole calasse lento dietro i palazzi e alla fine si rimettevano in macchina di ritorno verso casa, nel buio dell'autostrada già deserta.
"Ed ogni volta che ci ripenso, sai, sogno di portarti lontano da questo mondo, da questi luoghi tristi che ti intristiscono più del tempo, del suo modo spaventoso di correre via. Sogno di portarti lontanissimo, a vivere come vorresti, ogni sera davanti ad un tramonto diverso, scorto attraverso l'entrata di una vecchia tenda da campeggio.".
Tante cose, in quel periodo, apparivano loro come senza tempo, probabilmente perché cercavano di congelare ogni attimo presente, di racchiudere l'eterno facendosi promesse che terminavano con un "per sempre" dal sapore di infinito, a tratti anche dal sapore di una bugia. Ma sebbene Eddie e Diane sapessero benissimo che l'eterno non esiste, preferivano mentirsi a vicenda piuttosto che lasciarsi andare alla terrorizzante idea che qualcosa potesse all'improvviso mettere fine a quanto stavano vivendo: credere nella prospettiva di un eterno senza ostacoli era per loro più confortevole, rispetto ad un presente che con le sue difficoltà sembra sempre fuggire via.
"Potremmo vivere di momenti che fuggono, ma per sempre fissati dentro vecchie e scolorite istantanee scattate con una Polaroid, che racchiuderai in uno dei tuoi tanti album colorati. Forse, il tempo catturato lì dentro non ti farà più così paura, come invece fa quando le circostanze ti costringono a rimanere immobile.".
Finché un giorno, quando tutte le crepe delle loro vite erano già state ignorate, giunse nella loro storia un nemico degno di qualsiasi fiaba. Esso non aveva volto, né un nome vero e proprio, ma soltanto la malinconica forma che ha la tristezza, il terribile immobilismo dell'impotenza.
"Però non posso darti niente di tutto questo, niente di quanto meriteresti. Ho provato a curarti chiedendoti cosa vedessi, così che potessi vederlo anche io. Ma tutto quello che ora vedo sei tu che ti consumi senza pace, con l'ansia che ti divora, mentre il tempo inesorabile passa e a te a volte nemmeno sembra.".
Ogni volta che rimaneva sola con i suoi pensieri, un incontrollabile senso di colpa cresceva dentro al petto di Diane, che lei non riusciva ad associare a niente se non alla preoccupazione generica che aveva nei confronti della propria vita, al fatto che la vedesse sempre tanto storta e sbagliata da farle credere di non poter essere rimessa a posto. Era una sensazione viscerale che si portava dietro sin da bambina, e che sperava sarebbe scomparsa grazie all'incertezza inizialmente tanto bramata, che la faceva sentire così libera, così viva. Ma persino quella d'improvviso le parve incontrollabile, un'onda del mare talmente alta da inghiottirla con niente, lei che ora si sentiva così piccola e impotente rispetto a tutto quello che la vita le chiedeva di fare e di essere.
Per inseguire l'assenza di limiti, aveva abbandonato tutto, ogni propria sicurezza, e lo aveva fatto scappando così velocemente da non aver dato il tempo né a sé stessa né ai suoi genitori di parlare di quei desideri nascosti, di chiarire ogni sentimento taciuto, di gridare ogni parola mai detta. Se lo avesse fatto, forse tutto si sarebbe risolto, forse lei sarebbe stata in grado di far convivere due lati di sé tanto diversi tra loro: l'assenza di limiti con la presenza di un obiettivo. Ma ciò non avvenne mai, per Diane e la sua famiglia, e ognuno ristagnò nel proprio testardo orgoglio lasciando che i mesi si trasformassero in anni, fino a quando tutto il peso invisibile che il nulla può contenere non mieté la sua prima vittima, e il padre di Diane morì stroncato da un infarto, lasciando sua figlia orfana e piena di rimpianti.
Dopo la scomparsa del padre, quel vago sentimento di angoscia che Diane si sentiva dentro l'anima, e che fino a quel momento non era stato altro che sensazione astratta che non aveva avuto modo di uscire fuori, le si rivoltò contro d'improvviso e divenne tachicardia, apnea, sudore, lacrime, tremore. E nonostante adesso avesse trovato un modo per sfogarsi, la preoccupazione di Diane non accennò mai a placarsi; anzi, si trasformò in un sentimento ancor più cupo di ansia che lei non si sentiva in grado di comprendere né di controllare. Inizialmente, era stata in grado di tenere Eddie lontano dai demoni che le oscuravano i pensieri, spinta dal timore che lui ne rimanesse spaventato e fuggisse via da lei. Ma quando quel timore di perdere Eddie si trasformò in paura di perdere sé stessa, non fu più in grado di nascondergli quella parte di sé che nemmeno lei riusciva più a tollerare.
Al loro primo periodo di felicità incondizionata, quindi, ne seguì un altro, molto più lungo, durante il quale la ragazza cercava inutilmente di contrapporre le voci che nella sua testa l'attaccavano senza pietà a quella di Eddie che, calmo, la teneva stretta e cercava di tranquillizzarla, sussurrandole parole semplici, di certo banali, ma che lui contava bastassero per soffiare via quelle che sperava essere le insicurezze di un momento.
Ma non si trattò mai di un unico momento, Eddie dovette rendersene ben presto conto, e ancora oggi, a chiunque, gli chieda, persino a Diane, dove trovi tutta quella pazienza per stare insieme ad una persona tanto problematica, lui non è in grado di dare una risposta. Semplicemente non lo sa, lo fa e basta, di restare. Perché andarsene vorrebbe dire fuggire, lasciare Diane da sola, lei che ha rinunciato a tutto per stare con lui, lei che è così fragile eppure bellissima. Eddie non se ne va perché la ama, Diane. La ama perché è riuscita a notarlo, lui che era un semplice particolare sullo sfondo della sua vita, perché lei è l'unica in grado di capire i suoi silenzi, i suoi pensieri contorti, le sue paure inutili, è l'unica in grado di prendersene cura, anche se a modo suo. La ama, e vorrebbe solo che lei sia felice, che sia lui a renderla felice. Ma con sé ha soltanto parole vuote e rassicurazioni vane, quando si ritrova di fronte alle sue crisi che sembrano nuove ogni volta, e davanti cui lui si sente sempre così impotente.
"Vorrei solo che potessi abbracciare meglio questa tua bellissima fragilità che a te va così stretta. Vorrei che l'abbracciassi forte come ti abbraccio io, stringendola ma non soffocandola, facendola vivere senza una colpa, nella consapevolezza che, prima o poi, se ne andrà via, anch'essa per la sua strada.".
Ormai Diane si è abituata alla paziente speranza di Eddie, al suo aspettare che tutto, un giorno, si rimetta a posto per conto proprio e che funzioni. Si è abituata al fatto che non importa quanto rumore faccia ogni volta che avrà un attacco di panico, o quando si lascerà prendere dall'ira di non essere abbastanza, quando risponderà male, e urlerà che lui non capisce; non importa quante volte scapperà e quante si nasconderà: Eddie non se ne andrà mai. Perché lui lo sa, o almeno dice di sapere, che stare bene è una questione di fortuna tanto quanto trovare l'amore. O forse è soltanto troppo buono per fargliene una colpa.
"Sai, avevi ragione quando dicevi che questo mondo è fatto soltanto per gli stupidi. Solo ora mi rendo conto di cosa intendessi dire. Per gli stupidi come noi, che ingenuamente credevamo di poter cambiare questo mondo semplicemente amandolo, o amandoci. Che avevamo visto altri amarsi prima di noi, e abbiamo sperato di poter fare lo stesso, e che quello ci sarebbe bastato.".
Eddie e Diane ora vivono insieme da quattro anni, ma a loro spesso sembrano anche di più. Non hanno mai smesso di andare alle manifestazioni per l'ambiente, per i diritti degli animali, contro lo sfruttamento e gli allevamenti intensivi. Non mangiano carne, fanno attenzione ad ogni prodotto che acquistano, dove è stato fatto, se con le giuste norme. Hanno preso con loro Granola, una gatta dagli occhi gialli e il pelo tricolore salvata dalla strada, così come Dylan, un meticcio destinato al commercio clandestino.
Eddie è diventato un veterinario affermato e lavora con l'università, mentre Diane entra ed esce da periodi bui che la rendono incostante in ogni progetto che inizia e spera di portare a termine, ma che invece abbandona alla prima difficoltà. Nonostante il consiglio di molti amici preoccupati, Diane non ha mai iniziato un percorso di psicoterapia, in parte perché non si trova nelle condizioni economiche adatte, tanto che nemmeno la sua assicurazione ricoprirebbe una parte sufficiente di spesa; e poi, Eddie è l'unico dei due ad avere un lavoro stabile, e tra affitto, bollette e acquisti vari, poco rimane loro per potersi permettere più del necessario. Ma in realtà, malgrado nemmeno lei ne sia consapevole, iniziare un percorso di psicoterapia vorrebbe dire ammettere che ci siano aspetti di sé che lei ha lasciato marcire, e non vuole rendersene conto. Non vuole rendersi conto di non essere stata in grado di prendersi cura di sé, di reagire come avrebbe dovuto. O magari è inconsciamente convinta del fatto che l'ansia sia ciò che davvero la definisce, ciò che la rende quello che è, e teme che provare a stare meglio vorrebbe dire perdere un pezzo di sé, qualcosa che nel bene e nel male è parte di lei e del suo modo di essere. Quindi Diane sopporta immobile, Eddie assiste impotente, entrambi ad aspettare che passi una nuova crisi a scombinare il loro equilibrio e che se ne vada lasciandoli in attesa che ne arrivi una nuova, nella speranza forse che esse si consumino col tempo.
Quando erano ancora soltanto due ragazzini ignari del proprio destino, sognavano insieme di allargare a poco a poco l'orizzonte dei propri confini, progettando di partire per l'Olanda, poi la Francia, la Germania, fino in Italia e in Spagna, viaggiando in macchina o in treno, senza fermarsi mai. Possedevano l'ingenua e giovane sicurezza che, insieme, sarebbero riusciti a disegnarsi una mappa che sarebbe andata bene ad entrambi, sulla quale trovare una strada adatta a loro da seguire insieme. Ma quella prospettiva ha mostrato ben presto le sue pecche, e il loro rapporto ormai consumato dalle loro paure ha rivelato una necessità per entrambi di prendere in qualche modo una strada diversa, divisa; dopotutto, mantenere, al contrario di promettere, richiede un impegno più grande di una semplice prospettiva, ed oggi i due sognano piuttosto di fuggire per riuscire a dimenticare, magari guarire dalle proprie paure dettate dall'incertezza, da un futuro ancora oscuro e che sembra senza via d'uscita. Eddie spera nel poi, Diane ignora l'oggi, ma entrambi ancora non sanno da che parte andare.
Nelle sere peggiori, quelle in cui Diane perde il controllo e inizia a mettere disordine e fare rumore, lei si allontana e Granola la segue sul balcone, mentre Eddie rimette a posto il casino che s'è lasciata dietro. Ogni volta, Diane si mette a guardare la luna avvolta nel vecchio maglioncino che ha ancora l'odore di sua nonna, l'unico cimelio che le resta di una vita a cui anni prima ha scelto di rinunciare, e ascolta la musica che arriva in onde lente da qualche finestra del vicinato. Granola le si siede accanto, non troppo vicino per non disturbarla, poi anche lei alza la testolina verso il cielo ed entrambe restano immobili nella quiete buia.
Nei suoi giorni migliori, invece, Diane esce di casa e porta Dylan al parco; lo lascia giocare per il prato, inseguire le anatre, odorare le foglie gialle cadute per terra. E poi camminano, camminano a lungo, e a Diane piace camminare; vanno per i boschi e i campi aperti, e ogni tanto incontrano qualche cavallo che pascola docile, la testa china sull'erba fresca. Eddie non lo sa, lei non glielo ha mai detto, ma ogni volta che ne vede uno Diane scoppia in lacrime. Si ritrova sempre a chiedersi, davanti a quelle bestie così maestose che ha amato per più della metà degli anni che ha vissuto, se abbia fatto bene a rinunciare ad un sogno non suo, ma che almeno le dava una prospettiva, qualcosa in cui credere, verso cui camminare; se lo chiede ora che ha una mappa ma non sa lo stesso dove andare. Non può tornare indietro, perché la sua famiglia non ne vuole più sapere di lei; non può mettersi a studiare, dato che ha a malapena i soldi per stare bene con sé stessa; non può chiederli ad Eddie, che certe volte è persino costretto a chiederli ai suoi genitori, anche se non prova vergogna nel farlo perché loro lo supportano, dal momento che il loro figlio si è sempre impegnato per fare tutto, per farlo bene, e per questo saranno sempre fieri di lui qualsiasi difficoltà si trovi a dover affrontare. Ma Diane non ha una famiglia come quella di Eddie, non ha la sua stessa voglia di fare tutto, di impegnarsi in tutto, lei non sta bene come sta bene lui: a volte, nemmeno riesce a trovare un motivo per alzarsi e iniziare una giornata, per non sentirsi inutile, di troppo, un peso che non mancherebbe a nessuno, se solo sparisse. L'unica cosa che ogni tanto Diane si sente in grado di fare è camminare, perché quando lo fa l'ansia sembra sparire e lei si sente bene, per un unico momento che però subito vola via.
Un giorno, poi, quasi per caso, decide di mettersi a camminare verso un parco diverso dal solito, più lontano da casa sua, in una zona della città che non frequenta quasi mai. E per semplice fortuna, circostanze che si coordinano e si mettono a danzare tra loro, in quel parco, dopo tanti anni, Diane ci trova Hugues.
"Avrei dovuto capire che la mia presenza non sarebbe stata sufficiente per farti stare bene, che i miei sentimenti non sarebbero riusciti, da soli, a tirarti fuori dall'abisso che ti portava giù, sempre più giù. Ho avuto troppa fiducia nei confronti delle mie capacità, e nei confronti di quelle fiabe per bambini che per tanto tempo abbiamo continuato a raccontarci.".
Appena arriva, quella mattina, Diane toglie il guinzaglio a Dylan e quello corre via, si butta tra le foglie e va ad annusare gli altri suoi simili, cerca di fare amicizia con tutti gli umani disposti a fargli una carezza. Si avvicina anche ad un ragazzo seduto, inizia a fargli le feste, scodinzola e guaisce, e quello risponde alla richiesta di attenzioni toccandogli la testa, sorridendogli. È così che Diane lo riconosce, Hugues: grazie a quel suo sorriso, lo stesso che assumeva ogni volta che si metteva a suonare il pianoforte. Gli si avvicina, e quando lo raggiunge gli posa una mano sulla spalla.
«Hugues?», lo chiama.
Il ragazzo distoglie gli occhi da Dylan e li alza verso Diane, che incredula lo fissa.
«Sì?»
«Sono Diane.», dice lei, indicandosi il petto. «Ti ricordi? Andavamo a scuola assieme.».
Hugues sorride, mostrando una fila di denti lucidi e dritti. «Ah, ma certo!», esclama. «La cavallerizza! Come no, mi ricordo di te.»
Rimangono per un secondo in silenzio, fissandosi, cercando le parole che non sanno neanche se esistono o meno. Hugues la scruta, come per analizzarla a fondo. Diane fa altrettanto, ma sin da subito si astiene dal fare commenti.
«Sei cambiata.», aggiunge poi lui. «Sei più bionda.»
Diane sorride. «Shampoo biologico alla camomilla. Fa miracoli.»
«Certo.»
Si fissano ancora, di nuovo in silenzio. Diane vorrebbe aggiungere qualcosa, fare una domanda, ma sa già che qualunque sarà il modo in cui la porrà apparirà fuori luogo. Sposta nervosamente il peso da un piede all'altro, mentre con lo sguardo vaga per il parco in cerca di Dylan.
«Sei anche tu qui con il tuo cane?»
«No.» Hugues scuote la testa. «No, mi portano qui ogni giorno per prendere una boccata d'aria. Fa parte della terapia, dicono.» Poi sorride. Diane lo sente, mentre accenna una risatina quasi di scherno. «Sono cambiate un po' di cose, come avrai notato.»
La ragazza torna a guardarlo: Hugues sta fissando qualcosa, davanti a sé, magari un altro cane che rincorre le anatre, un bambino che si butta tra le foglie; senza volerlo, le dà modo di scrutarlo e studiare con attenzione i suoi lineamenti, più adulti di come ricordava, così come gli occhi più tristi, la bocca che ora presenta solo la reminiscenza di un sorriso.
«Mi dispiace...», dice infine la ragazza, abbassando piano la voce.
Hugues si stringe nelle spalle. «Non la guidavi tu, quella macchina.»
Torna il silenzio, assenza opprimente di qualsiasi voce. Diane si guarda attorno, cercando un posto dove sedersi. Alla fine opta per l'erba del prato, verde di pioggia, e si posa proprio accanto alla sedia a rotelle di Hugues. Non gli chiede niente, "Cos'è successo, quando?"; non crede che dovrebbe, sarebbe indelicato. Resta in attesa, forse sperando che sia lui, ora, a dire qualcosa.
«Hai un bel cane, comunque.», si complimenta infatti il ragazzo, dopo parecchi minuti.
«Grazie. Pensa che era destinato al commercio clandestino.»
Diane inizia a raccontargli cosa ha fatto durante quegli anni. Gli racconta delle manifestazioni in piazza, del vegetarianismo, di Granola, Dylan e di tutti gli altri animali che ha aiutato. Gli racconta del monolocale, di Eddie, dei viaggi in auto, delle cose che ha visto, ma non dice niente a proposito di quelle che sente dentro. Non parla di quel dolore terebrante che ogni giorno scava dentro di lei fino ad incancrenirsi; quello lo nasconde, come lo nasconde a tutti, sebbene ora ci sia una voce che le sussurra che, invece lui forse capirebbe. In qualche modo capirebbe.
«Ci vai ancora, a cavallo?»
E infatti Hugues capisce. Nota l'elemento mancante del racconto, l'anello di congiunzione trai pezzi, un prima che conosceva e un dopo che gli è sconosciuto.
«No...», mormora lei. «Non più.»
Lui non risponde, forse per disinteresse, forse perché in realtà ha capito tutto e non ne ha bisogno di chiederle altro.
«E tu suoni ancora?»
Anche lei, ora, cerca un prima e un dopo.
Diane ricorda che, nel periodo in cui lei appena iniziava il suo lungo e a volte sofferto percorso nell'agonismo, Hugues già dimostrava da anni il proprio estro artistico suonando il pianoforte, ed era tanto bravo da tenere concerti nel teatro cittadino, insieme ad altri pochi musicisti bravi quanto lui.
Per Hugues, la musica aveva da sempre fatto parte della sua esistenza. Non ricorda quando è stata la prima volta che provò il desiderio di imparare a suonare, non ricorda perché lo fece, e tantomeno ha mai considerato importante farlo. Al contrario di Diane, la musica non era mai stata un'imposizione per lui, quanto piuttosto il solo tipo di libertà concessagli, la sola libera scelta che non fosse condizionata dalle aspettative che la gente attorno a lui aveva nei suoi riguardi. "Impegnati a scuola, diventa qualcuno.". A Hugues non importava niente di tutto ciò, se non di suonare, seguendo quella mappa trovata quasi per caso e che lo stava conducendo verso la libertà.
Quando suonava, poteva muoversi libero lungo i tasti, sospinto da una forza leggiadra che non gli si imponeva, anzi, lo conduceva per mano, come per infondergli il coraggio che ogni tanto dimenticava di avere; gli bastava sedersi sullo sgabello, alzare il coperchio e far scivolare a terra la pezza di velluto. Ogni volta che azionava i tasti, Hugues si ritrovava a viaggiare in uno stato di semicoscienza; non un luogo preciso, ma si sentiva leggero, si sentiva volare pur rimanendo con le dita sulla superficie in avorio; andava lontano, svuotandosi di ogni peso, di ogni dubbio, ogni lacrima che non era in grado di versare. Il pianoforte lo aveva sostenuto in ogni momento di crollo; il pianoforte non lo aveva mai abbandonato; il pianoforte gli parlava, lo rassicurava, e lui avrebbe potuto continuare così per sempre, facendo della musica la sua vita, salvarsi da tutto il mondo opprimente che gli stava attorno. Ma poi arrivò l'incidente, lungo il suo percorso, e allora anche il pianoforte, in qualche modo, se ne andò per sempre, facendogli perdere quella mappa e lasciandolo senza più una direzione da seguire.
«No...», mormora ora lui. «Non più.»
Le dice che ci ha provato, qualche volta, a riprendere a suonare dopo aver perso la sensibilità alla metà inferiore del corpo. Ha provato a rientrare nella sala dove faceva musica, che era rimasta sempre la stessa per tutto il periodo della sua assenza: stesse pareti tappezzate da contenitori di spartiti, lo stesso pavimento di mattonelle chiare, il pianoforte al centro della stanza. Sembrava che il tempo non lo avesse mai neanche toccato, come protetto da una sfera invisibile che lo teneva al sicuro da qualsiasi pericolo del mondo; unico segno dell'inevitabile scorrere dei giorni erano i minuscoli granelli di polvere che, delicati, si erano posati sui tasti, leggeri come per non far loro alcun male.
Ci ha provato, Hugues, a suonare di nuovo, ma farlo gli è diventato faticoso: l'equilibrio sullo sgabello che è difficile da mantenere, le braccia che si fanno subito pesanti, le dita che si intorpidiscono... Non è più cura, ma tortura. Sente di fargli un torto, a quel suo maestro di legno che mai gli farebbe lo stesso; ha smesso di provarci ulteriormente per evitare di martoriare la musica più di quanto lui stesso potrebbe sopportare. Le stanze ora si sono fatte silenziose, e le note che prima erano solite riempirne ogni angolo sono diventate totalmente mute. E per quanto lui abbia cercato un qualsiasi modo per tornare, quelle note ormai suonano forti soltanto all'interno dei suoi ricordi. Invano ha tentato di disegnarsi un'altra mappa, ma ogni cosa ha perso valenza, e a poco a poco Hugues si sente sparire pur rimanendo imprigionato in un corpo che gli è pesante, lo tiene ancora piantato per terra.
Glielo dice, a Diane, che ormai passa le sue giornate a pianificarsi la morte come una volta si pianificava la vita. Le dice che ormai è inutile, è soltanto strascico di qualcosa che non ha più. Ha perso tutto: la musica e la felicità, la depressione gli ha portato via anche la capacità di amare.
"È inutile.".
Diane cerca dentro di sé le parole, ma sa già che non sarà mai in grado di trovare quelle giuste, nemmeno provandoci. Continua a cercarle anche quando torna a casa, quel pomeriggio, e anche quando Eddie torna dal lavoro, e quando insieme vanno a dormire. Scava a fondo in ogni centimetro di sé, ma non riesce a trovare nulla di significativo da poter dire.
E allora decide anzi di fare qualcos'altro: decide di tornare a quel parco, nonostante sia lontano da casa sua, e decide che lo farà per tutti i giorni che verranno. Ogni pomeriggio, Diane trova Hugues nello stesso punto, e insieme parlano molto, anche se spesso si ritrovano a contemplare in silenzio la vita e il tempo che passano davanti a loro. Continuano così per settimane e mesi, durante i quali Diane sente dentro di sé una forza muoverla e che credeva di aver perso del tutto. Lo nota persino Eddie, che vedendola così energica quasi crede che adesso ci sia qualcosa che possa finalmente permettere a Diane di migliorare, di tornare a sentirsi libera e felice come un tempo. Eddie crede che abbia trovato lo scopo che tanto cercava, ma decide di non chiederle quale sia: vuole che sia lei a dirglielo, non appena si sentirà sicura di farlo.
"Adesso vorrei davvero poterti portare via con me, non importa dove o come. Solamente noi due, insieme, a vivere il nostro lieto fine. Vorrei vederti sorridere come non fai da un'eternità, vedere la serenità dipingersi sul tuo volto, il vento sul viso che ti asciuga le lacrime senza farti più sentire freddo, ma solo il fresco di un nuovo inizio.".
Diane nemmeno se ne accorge, che quella sua energia è data da uno scopo. Lei si è soltanto convinta di essere in grado di aiutare Hugues, di poterlo capire come lui fin da subito ha capito lei e quello che le mancava: un obiettivo. E ora che lei ne ha trovato uno, benché non ne sia cosciente, spera di riuscire a convincerlo di trovarne anche lui uno tutto per sé. Per questo ogni giorno va al parco, lasciando Dylan libero in giro mentre lei si siede sull'erba accanto alla sedia a rotelle di Hugues; per questo gli parla tantissimo di un sacco di cose, sperando di trovare un argomento che possa entusiasmarlo; per questo un giorno decide di portarlo in giro, prima per altri parchi e i musei della città, poi in campagna, fino ad arrivare alla capitale; per questo si prodiga ogni volta per far succedere qualcosa, far scattare qualcosa.
Malgrado ciò, Hugues sembra irremovibile. Per lui rimane sempre tutto uguale: ogni parco, ogni museo, ogni piazza centrale, gli paiono sempre uguale alle altre, tutte cose che girano attorno a sé stesse senza andare da nessuna parte, proprio come si sente lui.
«Ma perché fai tutto questo?», domanda poi un giorno a Diane. «Chi te lo fa fare?»
Diane rimane impietrita e non trova alcuna risposta da offrirgli; perché alla fine non lo sa nemmeno lei, perché lo fa. In fin dei conti, le motivazioni di Diane non sono affatto convincenti, non convincono nemmeno lei. Come bastare agli altri quando non basta a sé stessa? Quando non le basta nessuno, nemmeno Eddie, che è così buono da amarla nonostante le sue lune storte. Però lei sente comunque il bisogno di essergli utile, forse perché anche lei è in cerca di uno scopo, uno qualsiasi, qualcosa di suo che la faccia sentire ancora legata al mondo in cui vive e che però le scivola di dosso, come un vestito troppo grande per lei che si sente così piccola e insignificante. Non c'è un perché, nessuno la costringe, niente di tangibile la muove nella direzione verso cui sta andando.
«Perché sì.»
Per questo lo fa. Perché ogni giorno, ad ogni uscita, Diane spera che quella sia la definitiva, che dopo di quella Hugues capirà che la vita, spesso, vale la pena di essere vissuta, che lui può imparare a sorridere anche senza suonare il pianoforte, che è possibile seguire il percorso di una mappa diversa. Sa di poterci riuscire, perché lei lo capisce, come lui capisce lei, e per questo ogni volta lo saluta dicendosi che quelli che si scambiano non sono addii, che lo rivedrà il giorno dopo per provare di nuovo a fargli cambiare idea.
"E se solo sapessi come fare, ti toglierei ogni fardello dal cuore, lo porterei al posto tuo, scalando montagne e solcando oceani, così da riuscire a consumarlo prima che esso consumi te. Vorrei poter aggiustare ogni tua paura, trovarne la causa e risolverla, come si risolve un'equazione, una di quelle che potrebbero davvero spiegare il senso dell'universo intero. Vorrei poter essere in grado di risolvere quell'universo che sei, coi tuoi pianeti che viaggiano in mezzo al caos, e si scontrano, esplodono e poi si riallineano, in un circolo vizioso privo di ogni pietà.".
Ma una mattina Diane si sveglia con un brutto presentimento, uno strano vuoto alla bocca dello stomaco, una tachicardia che non accenna a calmarsi. È una sensazione profonda che le ricorda l'ansia, gli attacchi di panico, la confusione che prova nei confronti delle proprie emozioni. Si alza, si veste, mette il guinzaglio a Dylan ed esce di casa, diretta verso il parco. Ma quando arriva, Hugues non c'è, e la sua ansia diventa più pesante, più presente, si fa reale, non è più sensazione senza ragione. Lo cerca, "di sicuro è in ritardo", allora lo aspetta. Ma le ore passano e Hugues non arriva; Dylan ormai esausto si è sdraiato sull'erba accanto a lei; Eddie è preoccupato, sta provando a chiamarla da tutto il pomeriggio, e lei però non risponde, nemmeno si accorge delle sue telefonate. Resta solo ferma, senza pensare, perché non ha più bisogno di fare congetture, sa bene cosa è successo. L'ansia glielo ha già detto, glielo sta sussurrando nelle orecchie sin dal primo secondo di coscienza di quella giornata che le sembra senza termine.
"Non gli servi più.".
Il sole inizia a scendere dietro ai palazzi, e soltanto quando fa buio Diane si ricorda finalmente di tornare a casa. Trova Eddie ad aspettarla, preoccupatissimo.
«Ma dov'eri? Cos'è successo? Stai bene?»
Diane non replica. Lo guarda appena, e lui capisce subito che, se dovesse chiederle qualcos'altro, lei non gli risponderebbe; probabilmente non saprebbe nemmeno cosa rispondergli. La guarda soltanto mentre, senza mangiare, si sdraia sul letto e non dice altro, con Granola e Dylan che le si sistemano ai piedi.
"Ogni volta che stai male, vedo quelle esplosioni detonarmi davanti agli occhi. Mi accecano, a volte rendendomi incapace di guardare ai tuoi bisogni, costringendomi a pensare unicamente ai miei, da egoista infame quale sono.".
Il giorno dopo esce il necrologio, e quando Diane lo legge non vuole ancora crederci. Il vuoto al petto le si fa più grande, le toglie il respiro e le fa arrivare le lacrime a fiotti. Eddie torna a casa e la trova per terra, in lotta con sé stessa e con il panico che ormai ha preso il sopravvento, le ha reso nere mente e anima, tenendole prigioniere fino a quando la crisi non scomparirà.
"E scusa se a volte sembra che mi lasci prendere dalla stanchezza e dalla rabbia, scusa se sembra che non ce la faccia più: non vorrei mai farti pensare che non ti ami, che non voglia più stare ad ascoltare te o le tue paure. È solo che... a volte mi sembra davvero così difficile riuscire a farti cambiare idea, convincerti che quei mostri che vedi in realtà non sono affatto più forti di te, non lo saranno mai, perché si nutrono esclusivamente del potere che tu dai loro.".
Eddie la chiama, "Diane, Diane", ma lei non risponde, piange soltanto, si alza e si tira i capelli, e grida, grida, grida forte. Eddie cerca di prenderla tra le braccia, ma lei si dimena ad ogni suo tocco, e senza volerlo lo colpisce, pugni stretti che fa volare sul petto di lui, sulle spalle, le sue clavicole. Eddie riesce a bloccarla, cingerla con le braccia per fermare i suoi colpi che potrebbero andare avanti all'infinito. Incastra le mani di lei tra i loro petti, posa il mento sulla sua testa, e rimane fermo. Aspetta, mentre Diane si lascia andare ai singhiozzi, prolungamenti dei suoi pugni. Aspetta, come la aspetta durante ogni crisi. Aspetta che piano si calmi e migliori.
Ma stavolta Diane non gli permette di aspettarla tenendola stretta sé. Stavolta Diane si libera, spingendo Eddie lontano, e corre a chiudersi in bagno. Lui la segue, le chiede di uscire, la prega, il legno che vibra sotto i suoi colpi leggeri ma decisi.
«Diane, ti prego, cos'hai?»
Diane non replica. Cosa dovrebbe dire, poi? Niente. Niente che Eddie sarebbe mai in grado di capire, lui che ha una famiglia perfetta, un modo perfetto di superare ogni momento di sconforto, una perfetta forza di volontà che non gli fa mai passare la voglia di aiutarla, di capirla. Lui che non capisce perché non è come lei, non è come Hugues, lui non ha perso tutto quello che aveva, lui non è a pezzi.
Maledetta vita storta in questo mondo perfetto, maledetto Hugues, maledetto Eddie, maledetto tutto.
"Perché resti? Chi te lo fa fare?".
Maledette scelte.
Quando Diane esce dal bagno, a notte ormai fonda, la luce della luna che entra dalla finestra in fondo alla stanza si riflette e luccica nelle lacrime che ancora le inumidiscono il viso. Lei resta ferma a guardare quel disco bianco, nella relatività del tempo che non ha senso se nessuno ne tiene conto. Poi fa un passo, muovendosi silenziosa, e fa quello che probabilmente avrebbe fatto comunque, un giorno o l'altro. Soltanto quando finisce si accorge di Eddie, che si è appoggiato sul divano senza pigiama né plaid, raggomitolato come un bambino che attende che arrivi qualcuno a coprirlo. Diane si avvicina con cautela, gli poggia sul corpo una coperta e lo bacia sulla fronte, mentre lui continua a dormire, placido ed ignaro.
"E perdonami se mi ripeto così spesso, nel dirti queste cose, ma vorrei solo che lo vedessi come lo vedo io. Vorrei poter essere in grado di mostrartelo. Vorrei aver potuto mostrartelo quando dovevo, quando era tempo, quando il tempo ancora non ti aveva portato via con sé.".
Lei lo guarda un secondo e poi se ne va, chiudendosi la porta alle spalle, sotto lo sguardo attento di Dylan e Granola. Non lascia biglietti né tracce di sé, portandosi dentro una borsa ogni indizio della sua esistenza.
Un'esistenza che, il mattino dopo, Eddie si mette a cercare fin dalle prime luci dell'alba, non appena si rende conto che qualcosa non va. La chiama, ma il telefono non è raggiungibile. Non va al lavoro, cammina per le strade della città scrutando ogni angolo, dietro ogni foglia di ogni albero. Chiama gli amici comuni, i suoi genitori, la famiglia di lei, ma nessuno sa dove sia. Svanita nel nulla. Eddie la cerca tutto il giorno e tutto il giorno dopo, e quello dopo ancora, col motorino si spinge oltre la città, oltre la regione, verso i confini della nazione, ma Diane non c'è, non si trova. Come se non ci fosse mai stata.
"Invece hai scelto di lasciarmi in mezzo ai pezzi di un puzzle che non sarò mai capace di risolvere per conto mio. Senza un indizio, un punto dal quale iniziare, per cercare di capire. Perché tu non ci sei, ed io ti penso in continuazione.".
Diane è scomparsa, e nessuno per anni avrà più sue notizie. Eddie ha sporto denunce e lanciato appelli, cercandola a lungo, fino a quando non si è rassegnato all'idea che lei non si farà trovare, a meno che non lo voglia.
"Ci sto provando, a stare senza di te, ad accettare il fatto che tu non tornerai più, perché è così che sei, vai avanti e non ti giri mai a guardarti indietro. Ci sto provando, te lo giuro, ci provo ogni giorno, ma non ci riesco. Vorrei poterti chiedere ancora come stai. Vorrei poterti stringere ancora. Vorrei poterti risolvere. Vorrei dimenticarti. Vorrei non piangere. Vorrei avere la consapevolezza che è ancora tutto al proprio posto. Vorrei solo... che niente di tutto questo fosse reale.".
Eddie ha capito che la fuga di Diane sarà per lei una terapia, come per lui lo è stato cercarla e non trovarla. Capisce soltanto ora che l'ha cercata per anni, quella Diane felice che non si è mai fatta trovare, anche se era lì davanti a lui, presente nel corpo ma assente nei pensieri. E nonostante questo, nonostante lei se ne fosse già andata via da tempo, Eddie non le ha mai permesso di andarsene davvero per il terrore di restare da solo, di non riuscire a guarire, lui che non è da solo, lui che ha la sua famiglia a sostenerlo, ma che, nonostante questo, solo ci si sente, invisibile, mai adatto a nessuno, per quanto si impegni ogni volta. Aveva creduto che la somiglianza tra lui e Diane, quella fragilità che avevano in comune e che comunque si declinava in modo così diverso, fosse sufficiente per farsi andare bene la stessa mappa.
"Vorrei che tutto ripartisse, anziché restare sempre fermo. Vorrei che avessi avuto più fiducia in me. Vorrei non dover pensare. Vorrei poterti accarezzare. Vorrei poterti dire che mi manchi. Perché mi manchi, mi mancherai per sempre. Su questo hai sempre avuto torto. Mi mancherai fino al mio ultimo giorno.".
Un giorno, Eddie guarirà dalle proprie insicurezze, come Diane guarirà dalle sue, ed entrambi impareranno che non esistono dolori grandi o piccoli, più gravi o meno, ma che ogni dolore è unico e diverso per ciascuno, e che nessuno potrà mai dire di riuscire capire quello di un altro. Entrambi impareranno che ognuno deve trovarsi la propria, di mappa, e che riuscire a seguirla non è una colpa, che cambiarla non è una colpa, che perderla non è una colpa, sapere o non sapere in che direzione andare non è una colpa, stare bene o stare male non è una colpa. Capiranno che si tratta semplicemente di situazioni che vanno e vengono, e che l'unica cosa da fare è scegliere in che modo reagire: camminare o stare immobili, chiedere aiuto o rifiutarlo. Perché ognuno ci prova come può, a stare bene, per conto proprio e con i mezzi che ha: è questa l'unica vera scelta che il mondo concede, mentre il resto è semplice fortuna, circostanze che si coordinano e si mettono a danzare tra loro.
"Spero che tu abbia trovato la tua pace. Io anche cercherò di trovare la mia, di imparare da questo nostro amore, da questi ricordi che mi restano e che continuano a prendermi a pugni, fino a quando non deciderò io, finalmente, di accarezzarli.".
Adesso Diane vaga per il mondo, per studiarlo e trovare un modo per disegnarsi una mappa tutta per sé che sia finalmente in grado di leggere, che le indichi la strada verso un modo per stare bene, per guarire.
"Ti aspetterò, in una parte qualsiasi di questo mondo, in attesa di incrociare di nuovo i nostri cammini.".
Perché l'unico modo che si ha per conoscerlo, il mondo, è vederlo tutto.
"Per sempre l'amore tuo...".
E fino ad allora, Eddie sa che Diane non smetterà mai di camminare.
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