Cap. 1
Il guscio lucido marrone avanza adagio su otto gambe nere. Gli insetti hanno sei zampe, i ragni otto. Per questo i ragni non sono insetti. Otto zampe nere, lente. E dietro, una lunga fila di formiche scure scure. Spiccava padre Ferdinando, con la casula bianca sotto il piviale violaceo, e tra le donne coperte di panni neri, dal fazzolettone legato sul capo alle scarpe di cuoio grossolano, il biondo ramato di Cettina. Ribelli e gonfi, i suoi ricci si avvitano a cavatappi sotto la veletta e il vento li solleva divertito, che in quello stuolo di cornacchie si nasconda una colomba.
"Conce'! Conceeetta!"
Il primo ricordo era quello, della madre che chiamava stizzita e lei nascosta sotto il letto, nell'armadio, ovunque entrasse, piccina com'era, del tutto indifferente a qualsiasi sporco o animaletto disturbasse. E la nonna, claudicante, che bonaria interveniva.
"Vai pure, tu, che fai tardi. Ci penso io".
Era cresciuta con lei, Cettina; prima perché era troppo piccola, sia per seguire gli altri al lavoro nei campi che per restare sola a casa, e dopo perché la nonna malandata aveva bisogno d'aiuto, anche solo per prendere l'acqua al pozzo del convento e per spazzare lo stanzone affacciato sulla strada che era casa sua.
A quattro anni, Concetta era sgusciante come una biscia, s'arrampicava sui muri come i gechi e ripuliva coi capelli ricci le ragnatele della cantina. Portava in tasca gli animaletti che si appallottolano e tirava sassi come gli scugnizzi che sciamavano nelle vie. Sua madre si disperava ma era troppo veloce per lei e il suo battipanni. Nascosta tra le gonnellone della nonna fingeva spavento, e rideva sotto i baffi. La gente l'additava come la nipote della magara e Concetta poco sapeva di che significasse; avvertiva però un certo celato rispetto, per sua nonna, che l'inorgogliva. "E chi sei, tu?", dicevano ogni tanto per gioco o per sapere, e lei pronta: "La nipote della magara", col mento aguzzo puntato in alto, a farsi alta come non era. Padre Ferdinando l'aveva scacciata furibondo e aveva parlato con sua madre, quando gli aveva risposto così, e la nonna contrita l'aveva presa da parte:
"Concetti', non lo dire più, che è una cosa brutta!"
"Ma se tutti ti chiamano così!"
Di anni oramai ne aveva già sei e padre Ferdinando avrebbe voluto farle fare la prima comunione, ma ci aveva ripensato per via di quella sua uscita.
"La gente così mi chiama, ma non è vero, bambina. Io gioco, capisci?, mica è vera magia".
Concetta fece un broncio furbo. "Io l'ho visto che guardi il futuro nelle carte!"
"E che, non è un gioco?", aveva risposto la nonna.
Ma Concetta aveva stretto forte forte le labbra. Curiosi, gli adulti! Credevano di essere così intelligenti da raggirare un bambino. Smise di rispondere come a padre Ferdinando non piaceva e si appassionò alla questione delle carte. Cresceva e, spazzando il pavimento di pietra liscia, ascoltava. Riempiva le mezzane d'acqua e mettendole sul marmo spiava. Dava il pastone alle galline nel cortile e tendeva l'orecchio.
Quasi ogni giorno qualcuno bussava alla porta aperta, chiedeva permesso e entrava con circospezione. Quasi sempre donne, d'ogni età, che passavano per due chiacchiere. La nonna invitava l'ospite a prendere un caffè, quello accettava e, prima che qualcun altro potesse entrare, accostava la porta, segnale che donna Concetta era occupata. Nella stanza subito caduta nella penombra spuntava un mazzo di carte, e Cettina si acquattava dietro la tenda che riparava il letto.
Tale era la sua curiosità per quel rito che l'argento vivo della bambina si smorzava ed era capace di rimanere immobile senza fiatare anche un'ora, a sentir snocciolare le figure che in una lunga catena parlavano del futuro. Amore, soldi, salute, ogni carta aveva un valore che poteva però cambiare a causa delle compagne che la circondavano. La nonna era incredibilmente abile nel tessere una trama di futuri eventi, la sua voce catturava l'ascoltatore e lo trasportava in un luogo arcano. Cettina sentiva le persone cambiare voce, cambiare tono, le sembrava che si rimpicciolissero davanti alla nonna, che diventava invece un'altra: autorevole, onnisciente. Gonfiava il torace, la piccola, piena d'orgoglio per quella sua vicinanza alla magara. Ormai aveva scoperto quale meraviglioso potere gestisse, anche se ufficialmente non bisognava dirlo. Quando la nonna raccoglieva le carte, la bambina lasciava andare il respiro, in uno sbuffo di dispiacere, come fosse rimasta col fiato sospeso per tutto il tempo. Usciva da dietro la tenda, minuscola assistente ormai esperta, e riapriva la porta. La grande stanza perdeva ogni mistero, tornava la povera abitazione dell'anziana venditrice di uova e si metteva sul fuoco il famoso caffè.
"Conce', mio marito ha raccolto i friarielli, benedetto uomo, ma assai proprio! Te ne lascio un po', sì?"
"Stamani ho fatto il pane fresco e te ne ho messo da parte un paio di chili, per tutta la settimana".
"Ti ho portato un po' di caffè da macinare, Conce', lo devi assaggiare!"
Cettina osservava con aria critica i doni che gli ospiti lasciavano alla nonna, che tra quelli e i soldi delle uova riusciva a vivere senza l'aiuto economico delle figlie sposate. Sembrava a sua nipote che, per un'arte così unica, per la magia che si liberava, le ricompense che lasciavano fossero ben poca cosa. Ma la nonna era di diverso avviso.
"Mari', ma come te lo devo dire che non devi?"
"Mena, scusa ma perché..."
Ogni volta erano proteste, e ogni volta dovevano insistere per farle prendere i loro pacchetti. Cettina osservava annoiata gli scambi di battute e tutte quelle moine. Ma l'educazione è educazione, le ripeteva sempre sua madre severa, ogni volta che la piccola tentava di svicolare qualche smanceria. Così, pensava, evidentemente era buona educazione fingere di rifiutare, come per l'offerente era educazione insistere. Infine si poteva accettare, come tutti si sapeva fin dall'inizio che sarebbe stato, e il teatrino era finito.
Cettina vedeva con dispiacere diminuire la luce, al pomeriggio, segno che la cena era vicina e l'ora di tornare a casa pure. "Vuoi che resto con te, nonna?"
"No, Cettina bella, sto bene. Vai a casa, che mamma non ti vede da stamattina"
"Ma lei ha i miei fratelli e papà, tu invece resti sola".
"Non lo dire neanche per scherzo! Tu sei la luce degli occhi di tua madre e se ti lascia qui da me è per il tuo bene, per non portarti ancora in campagna. È un lavoro duro, quello della campagna, e lei lo fa perché a te non manchi nulla. Ora torna a casa e abbracciala forte. E aiutala ad apparecchiare, che mentre i maschi si lavano e si mettono a tavola, la donna appena tornata deve preparare e ancora non è tempo di fermarsi, per lei".
"E mica è giusto, nonna!"
L'anziana aveva riso e annuito.
"Vero, piccina, ma così va il mondo e c'è poco da fare. Tuttavia, se si trova un bravo marito come è stato tuo nonno, allora è bello anche essere donna".
"Non mi parli mai del nonno. Io non l'ho conosciuto, non so neanche che nome aveva".
"Possibile? Ciro, si chiamava. E domani ti prometto che ti racconto di lui. Se stasera fai la brava. Vedi che poi lo chiedo, a tua madre, se l'hai aiutata!".
Più o meno così tutte le sere. Per mandarla a casa ogni volta una storia, finché non accadde il fattaccio.
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