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La diagonale Alechin (parte II)

Ma riavvolgiamo il tutto con ordine. Come abbiamo già detto, Aleksandr Alechin è un campione di scacchi di origine russa naturalizzato francese. È lo sfidante del pluri decantanto giocatore cubano Capablanca, personaggio dai modi gentili, raffinati, vestito sobriamente con abiti inglesi, affiancato spesso da una graziosa e frivola ragazza russa, adorato dal pubblico. Vince la sfida per lo scettro del migliore a Buenos Aires nel 1927, nonostante Capablanca, si diceva era uno dei pochi a possedere, naturalmente e sottolineo naturalmente, quel "terzo occhio" utile ai campioni per sbaragliare chiunque. E' una sorpresa. Ebbene, il romanzo parte da un gennaio del 1940, quando Alechin è in viaggio sulla Miracle, imbarcazione battente bandiera portoghese, verso Lisbona. Molti lo affiancano e gli chiedono di poter concedere una rivincita al campione cubano, lui glissa l'argomento, sostiene che sarà data solo alle sue condizioni, capricciose in verità, negandola di fatto ogni volta (concessa invece con avversari più morbidi, perdendo il titolo una sola volta, nel 1935, contro Max Euwe, scacchista e matematico olandese, ma poi riconquistato sempre contro lo stesso due anni dopo). Par l'epilogo di un campione questa sua negazione; indisponente a volte collerico col pubblico, viaggia con la sua quarta moglie di oltre 10 anni più vecchia di lui, americana, pittrice miniaturista, appassionata di scacchi pure lei, facoltosa grazie ad un precedente marito proprietario terriero, ritirata dalla scena da tempo, indisponente e nauseata dai capricci di lui. Megalomane, nevrotico, fa ritorno in una Europa che si appresta a vivere i periodi più brutti della sua storia. La Germania di Hitler minaccia l'invasione della Polonia. La coppia possiede in Normandia un castello, per l'esattezza in dote alla donna. Da lì, lei, Grace, questo il suo nome, stanca dei continui viaggi per il mondo vorrebbe dedicarsi esclusivamente alla pittura e affrontare con distacco gli sviluppi di quei tanti fermenti politici. Parigi non era lontana e concedeva spesso e sempre molte distrazioni. Alechin invece, viaggia con una preoccupazione: una lettera di mobilitazione, probabilmente dovrà arruolarsi nell'esercito francese con grado di tenente interprete. Ma i fatti precipitano. La Germania ingaggia una trionfante avanzata lampo sul territorio che la porta al suo ultimo obbiettivo, invadere la Francia e conquistare Parigi. A questo punto entra in gioco la controversa assunzione di posizione del campione di scacchi. Diventa, a quanto pare un simpatizzante del governo nazista, vien affiancato da gerarchi, adulato e mantenuto economicamente in cambio dei servigi come scacchista nel Terzo Reich ed articoli antisemiti sulle principali riviste scacchistiche. In verità Alechin viene messo con le spalle al muro dai nazisti: lasciato da Grace, vive nel completo abbandono. Soffre di allucinazioni notturne, è angosciato, si trascina con la speranza che tutto finisca e che possa riabbracciare nuovamente l'amata moglie e lo fa nell'unica maniera a lui possibile: giocando a scacchi.

Bellissimo il capitolo in cui Alechin, forzato direttamente da Brikmann, il suo tutore tedesco affibbiatogli che agisce per conto di Mross, a sua volta enigmatico gerarca nazista, dalle mani curate, pallide ma in verità imbrattate di sangue, viene costretto febbricitante a giocare a scacchi nella maniera in cui era diventato famoso: in simultanea e alla cieca contro vari ufficiali tedeschi, dilettanti nel gioco, di ritorno dal fronte. Siam sul finire della guerra mondiale. Le sorti dell'esercito tedesco sono appese ad un filo, il gioco degli scacchi, ambito e seguito nel regno, è il giusto diversivo per distrarsi ed al tempo stesso prendere coscienza di una superiorità razziale nei confronti di molti campioni europei, per lo più di origini ebree. Alechin viene invitato a non essere troppo duro. Lui li affronta, non curandosi delle raccomandazioni, come una rabbia feroce nel gioco, la sua aggressività famosa, solo ed esclusivamente associata alla sua persona. Li deride. Al termine dell'esibizione viene malmenato e riportato nella stanza dell'albergo dove soggiornava.

Ma la vetta più alta di questo romanzo e della magistrale scrittura di Arthur Larrue, che vale l'intero costo del libro, sono i capitoli dedicati ai 3 scacchisti di origine ebrea che Alechin ha sfidato più volte prima dello scoppio della guerra e rimpiange il non aver più notizia. I 3 capitoli si susseguono uno dietro l'altro e sono introdotti da Larrue per mezzo di un'invocazione: giorni dopo l'incontro terrificante con il gerarca nazista Mross, Alechin deve diventare subito operativo, giocare a scacchi ma soprattutto scrivere di essi e farlo seguendo logiche razziste per la grandezza del Terzo Reich. La cosa lo infastidisce non poco ed in preda ad incubi ed allucinazioni notturne, ubriaco fradicio, li invoca piangendo. Nelle sue allucinazioni ci sono sempre ombre di uomini che lo sorprendono nel cuore della notte, pestandolo. 

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"[..]Siete qui? Perché, io non sono qui. In realtà me ne sono andato...Io non sono più io. Capite quel che voglio dire? Io non sono qui, perciò non è colpa mia. Alechin non esiste, ve lo giuro[..]Lui vive a Buenos Aires, in Dalmazia settentrionale, su Saturno. Ha battuto Capablanca. Non ho scelta. Alechin non ha scelta, vero? Volente o nolente, il re deve indietreggiare[..]I pazzi costringono il re all'angolo. Le sue mani non sono sporche ma bianche, lo vedete anche voi come lo vedo io?[..]"

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Dei tre che nomina però David Przepiorka era già morto. Rudolf Spielmannn sarebbe morto presto. Da nove anni, Akiba Rubinstein era diventato pazzo. Ecco un assaggio di questa parte meravigliosa del romanzo, quando parla di David Przepiorka, campione scacchistico ma ebreo e polacco:

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"Quando i tre soldati della Feldgendarmerie sfondarono la porta dell'appartamento, il giovane Dov, che quel pomeriggio aveva lasciato i suoi studi di diritto alla facoltà di Varsavia per giocare a casa di Przepiorka, fu il solo ad alzare la testa dalla scacchiera. Vide le placche di metallo al collo e i cappotti grigioverdi. Cercò di guardarli negli occhi, ma le visiere dei berretti li nascondevano dietro una fascia d'ombra.

«Dove sono i loro occhi?» chiese Dov a Przepiorka chinandosi verso di lui.

Przepiorka stava succhiando un sigaro a forma di fuso. Indossava un elegante tre pezzi in tweed, come un armatore o un produttore cinematografico, perché Przepiorka era convinto che i poeti, i giocatori di scacchi, i pittori e tutti coloro che lui chiamava «i giocatori dell'inutile» dovessero vestirsi con decoro, più dei banchieri e degli uomini d'affari. [..]

«Maestro, dove sono i loro occhi?» chiese ancora una volta Dov a Przepiorka.

Con un gesto lento Przepiorka spinse una delle sue torri lungo la colonna e.

«Vediamo un po' come pensi di venirne fuori».

«Ah! Avevo visto quella mossa ma troppo tardi...»

Przepiorka sembrava uscire da un sogno.

«Cosa hai detto?»

Dov ricordò che Przepiorka era un po' sordo.

«Le facevo notare che questi soldati non hanno occhi».

«Per quello che fanno, non ne hanno bisogno. Tocca a te...»

[..]

Dei tre gendarmi, Helmut era il più nervoso. Siccome Hermann (l'altro gendarme, nda) non capiva perché Przepiorka e Dov non si alzassero, diventava nervoso pure lui, meno nervoso di Helmut ma abbastanza per ripetere l'ordine urlando. Przepiorka, che manteneva una calma da bonzo, avvertiva l'angoscia del giovane Dov ma preferiva ignorarla, non foss'altro che per insegnare al suo allievo che l'essenziale era quella partita, nient'altro che quella partita, il resto non dipendendo più da loro ma da quegli uomini ai quali avevano tolto gli occhi, il cervello, l'anima, il cuore.

Non volendo più aspettare, Helmut diede una spinta al tavolo col piede, rovesciandolo. I pezzi di legno rotolarono per terra assieme agli zolfanelli e a quel che restava del tè freddo in una teiera smaltata. Przepiorka non si mosse di un millimetro. O meglio, aspirò una boccata dal sigaro, sputò fuori una nube azzurrognola e poi si volse verso lo studente terrorizzato.

«Neppure noi abbiamo bisogno degli occhi. Io ho giocato Te7».

Dov cercava di articolare qualche parola. Balbettava.

«Si', il che cambia notevolmente la partita».

«L'hai memorizzata bene, questa partita?»

«Si'».

«E allora andiamo dove questi signori vogliono andare, e continuiamo lì».

[..]

Viaggiarono per un'ora buona. La strada era sempre più accidentata. Dopo il villaggio di Palmiry, si diressero verso la foresta di Kampinos. Sul limitare del bosco, li fecero scendere e li bendarono con un tessuto nero completamente opaco. Con tono scherzoso Przepiorka disse a Dov: «Non ti avevo avvertito? Presto o tardi tutti gli uomini finiscono per ritrovarsi, Dov. Ed ecco che ora anche noi non abbiamo più gli occhi!»

Mentre Dov passava in rassegna a tutte le possibilità della scacchiera mentale per sottrarsi allo scacco matto, i due furono guidati fino ad una radura. Przepiorka si riscosse nel sentire un rovo lacerargli i pantaloni. Li disposero con la schiena rivolta a una fossa scavata il giorno prima da una divisione della Gioventù Hitleriana, fossa che sembrava un cratere provocato dalla caduta di un meteorite. Nella misura del possibile, si era pensato in alto loco, bisognava che quella fossa comune non somigliasse a una fossa comune.

«Dov? Vuoi giocare? Non sono certo che tu abbia ancora molto tempo!»

Dov si arresa all'evidenza: la sua situazione era disperata.

«Rg7, maestro!»

Il tacco destro di Przepiorka per poco non scivolò.

«Tg2+! Allora, Dov? Abbandoni?»

La serie di esplosioni secche si avvicinava a Dov. Ognuna era seguita da un tonfo, perché ogni proiettile gettava il corpo all'indietro. Quest'ultimo poi rotolava verso l'abisso. Era ingegnoso. Era addirittura calcolato al millimetro, perché ogni camion portava a un numero preciso di individui con cui formare uno strato uniforme. Nell'attesa che arrivasse un altro camion, i cadaveri venivano cosparsi di fosfato di calce per accelerare la decomposizione. I successivi venivano giustiziati allo stesso modo a bruciapelo con la Luger Parabellum.[..]

Nella foresta di Kampinos, quel giorno, si trattava di polacchi intelligenti o ricchi o diplomati, eventualmente polacchi che assommavano tutte e tre le qualità. Che fossero ebrei era solo una coincidenza. Tra questa gente, c'erano comunque non pochi ebrei, come Przepiorka. C'erano anche atleti, giornalisti, artisti, scienziati, o studenti di diritto in vacanza non molto assidui, come Dov. C'erano anche donne, e qualche bambino.

Dov ebbe il tempo di gridare a Przepiorka che lui abbandonava, che era stato un immenso onore giocare con lui. Dopo Dov, risuonarono altri undici spari. Distanziati tra loro di quattro o cinque secondi. Il boia doveva passare da una vittima all'altra, cosa che faceva spostandosi da sinistra verso destra, alla distanza di uno o due passi. All'ottavo sparo, tenuto conto della capacità della Luger, la frequenza delle esecuzioni fu turbata dal rifornimento del caricatore con cartucce del calibro 7,65. Bisogna mettere in conto anche la fatica muscolare del braccio del tiratore, per via dei rinculi ripetuti dell'arma, e la conseguenza pausa di un minuto che si rese necessaria. Przepiorka ebbe il tempo di ripercorrere lo svolgimento dell'ultima partita della sua vita, biascicando il pezzo di sigaro come fosse un bastoncino di liquirizia. Quando il proiettile che gli era destinato attraversò la sua fronte calva, stava dicendo tra sé e sé che aveva giocato notevolmente bene."

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La cronaca reale vuole che Alexsandr Alechin muoia misteriosamente in una stanza d'albergo a Lisbona, l'indomani di un match per il titolo mondiale contro Michail Botvinnik, sovietico, nel'anno 1946 a guerra finita mentre spie russe e partigiani fanno epurazione in tutta Europa di criminali e collaborazionisti nazisti. Sul referto medico fu scritto che la causa fu soffocamento, ma fu probabilmente assassinato.

Lo_Spettro

Ottobre 2022

GIUDIZIO:  7

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