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La Lettera

Love starts as a feeling, but to continue is a choice. And I find myself choosing you, more and more every day.
(Justin Wetch)

«Oh no, di nuovo Zoe, Rose e Logan?» sbuffai, squadrando con aria truce l'immenso disordine. Avevo appena sistemato la cucina... Con immensa pazienza, cercando di non urlare contro le pareti, mi misi a riordinare. Quando ebbi finito, qualcosa sul tavolo attirò la mia attenzione. Era davvero... Quanto era passato? Dieci, quindici anni? Non ricordavo nemmeno l'ultima volta che avevo visto quella lettera mai spedita. Di sicuro, però, non avevo dimenticato quelle parole che raccontavano... No, non una favola, ma una storia. La mia, storia. O almeno, un pezzo molto importante di essa. Aprii la busta, e lasciai che le parole mi trascinassero in un fiume di ricordi.

Il giorno in cui ti ho conosciuto il cielo era di uno di quegli azzurri abbaglianti, splendenti. Il sole, altissimo, illuminava tutto, anche la mia giovane anima. Jake mi aveva aiutato a scavare un fosso in riva al mare, avevo insistito così tanto! Speravo di farci cadere dentro papà, non di certo te. Ma col senno di poi non tutto si rimpiange, no?

Sorrisi. Decisamente no.

Cadesti dentro la buca perché eri sempre distratto – ed ancora lo sei. Ti arrabbiasti, un po' con te stesso, ma anche con me. «Chi è che scava buche in riva al mare?» avevi esclamato. Ed io ti avevo risposto che lo facevano tutti i bambini, la mia solita linguaccia annessa. Mettesti il broncio e tornasti dai tuoi genitori poco più in là. Non voglio nemmeno immaginare i tuoi pensieri quando scopristi che quella bambina antipatica era la tua nuova vicina di casa.

Qualche volta ancora mi chiedevo quali potessero essere stati. Forse solo qualche supplica di pietà.

Ma in fondo, il tuo sguardo caramello suggeriva una bontà d'animo che già avevi alla tua tenera età. Mi vedesti litigare con Jake, e preferisti aiutare quella bambina antipatica, piuttosto che vederla piangere. «Come ti chiami?» chiedesti. Ed io ti risposi che il mio nome era Skyler. Ricordo che avevi alzato lo sguardo, con il sorriso luminoso come una supernova, e mi avevi chiesto se potevi chiamarmi Sky, come il cielo.

Quel soprannome aveva il potere di farmi rabbrividire. Con la sua voce poi era una sensazione vicinissima al Paradiso.

E poi fu da lì che diventammo amici. Non di quelli che stanno sempre insieme, ma almeno non litigavamo più. Ti osservavo, sai. Lo vedevo che non eri come gli altri bambini. Loro potevano correre per tutto il tempo che volevano, fare tanti sforzi fisici... Tu ti univi a loro, ma dopo poco eri costretto a smettere. E proprio perché ti osservavo capivo che un po' ci stavi male, ma avevi già imparato la prima grande lezione della vita: sorridere. Sorridevi sempre, avevi una solarità che contagiava chiunque, e non te ne rendevi conto.

Non è che fosse poi così sveglio... Però quel sorriso diventò davvero il mio porto sicuro.

Non smettemmo mai di salutarci o chiacchierare qualche volta, nemmeno quando arrivammo al liceo. Eravamo due ragazzini impauriti, ma ci ambientammo presto. E scoprii di te che sapevi creare un mondo intero con solo un pennello tra le mani. Un giorno comune del terzo anno mi vedesti discutere con Vicky, e non perdesti un secondo a prendere le mie difese. Buffo il tuo modo di salvarmi, non ho mai capito perché non sopportassi di vedermi in difficoltà. Da quel giorno fu come se ti avessero puntato dei riflettori addosso. Seguivo il tuo sguardo, i tuoi movimenti, eri come una calamita per i miei occhi azzurri.

Ricordavo bene come mi sentivo. A volte temevo che il cuore potesse liberare le ali.

Cominciai a curare di più il mio biondo nido di ricci, a fare più attenzione al trucco e ai vestiti, e come sotto incantesimo ci ritrovammo a piacerci a vicenda in una sera d'estate, mentre guardavamo il cielo stesi sulla spiaggia, insieme ai nostri amici di una vita. Claire l'aveva capito, e forse lo sapeva prima di me, come sarebbe andata a finire. Partii per le vacanze per due settimane, a metà luglio, e già non vedevo l'ora di rivederti.

Con il sorriso a piegarmi le labbra, mi sedetti sulla poltrona del salotto. Ci sarebbe voluto un po' di tempo per leggerla tutta, c'erano ancora tante altre parole.

Quando tornai ti vidi sul terrazzo. Eri bellissimo, con i capelli castani mossi dal vento e la solita luce nello sguardo. Questa si fece troppo intensa per non capire che anche quel tuo debole cuore provava qualcosa per me. Scendesti veloce, più che potesti, ed io piantai a terra le valigie per correre da te. Al diavolo la terra intera, eravamo solo noi due quando le nostre labbra si incontrarono in una danza che mi mandò in tilt ogni terminazione nervosa. Le tue labbra sulle mie mi colorarono l'anima come in uno dei tuoi bellissimi dipinti. Mi sentivo vasta, luminosa, non più una ragazza fragile come un bocciolo di rosa.

Sentii le guance calde, probabilmente ero arrossita, ma non me ne curai. L'inchiostro blu sulla carta bianca era il mio unico pensiero, ed i miei ricordi mi portarono quasi in una dimensione parallela.


Da quel giorno cominciò la nostra storia. Ogni bacio era dolce miele, le tue carezze mi provocavano brividi inspiegabili, i tuoi occhi mi facevano sentire la più bella del mondo; ero diventata invincibile con i miei palmi stretti tra le tue dita affusolate. E tu eri il ragazzo perfetto, anche se non lo eri affatto oggettivamente. Ma se tutti amassero soltanto ciò che è immacolato allora su questa terra ci sarebbe solo odio. Tanto per cominciare, avevo imparato che il tuo naso era sempre freddo in inverno, soprattutto se uscivamo. E per questo ti divertivi a gelarmi il viso, ma ti lasciavo fare. Avevi quei calli di chi dipinge da sempre sulle dita, e spesso ti ritrovavi i vestiti macchiati dalle tempere, ma ai miei occhi eri semplicemente tu.

Solo Alex.

Andava tutto troppo bene, eppure dovevo aspettarmela, quell'ombra nera come onice sulla mia vita. D'altronde, anche se avevo i capelli biondi e gli occhi azzurri non ero una principessa. E pure se lo fossi stata, allora sapevo che, prima di avere il mio lieto fine, avrei dovuto nuotare tra le onde di mari in tempesta e attraversare scogliere impervie. Eppure tu, forse, rimani la figura più vicina a quella di un principe.

Quel lieto fine non mi era mai sembrato più lontano.

Da un po' di tempo cominciavi a stare male. Eri sempre stanco, spesso il tuo cuore batteva forte anche al minimo movimento, riuscivi a stento a fare qualche passo prima che lui, quel cuore difettoso, come tu lo chiamavi, ti facesse fermare. Ma posso dire che amavi in un modo che mi faceva sentire viva. Se solo l'amore potesse risolvere tutti i mali...

Col tempo imparai poi che, per quanto grande, l'amore poteva soltanto alleviare il dolore, ma in fondo questo era già un piccolo miracolo.

L'unica soluzione definitiva era un trapianto. Il tuo cuore era da sempre in quelle condizioni, ma fino ad allora l'avevi tenuto a bada. Non avevi mai esagerato con lo sforzo fisico, avevi sempre fatto attenzione, eppure tutti i tuoi sacrifici non erano serviti a nulla. Ed io mi chiedevo perché, perché a te? Perché tutta quella sofferenza? Tu non eri il cattivo della mia storia, perché doveva toccare a te?

Dimenticavo che a volte non ci sono dei perché, per quanto possiamo ostinarci a trovarli.

Perché? Mi chiedevo quando la lista d'attesa per il trapianto si allungava sempre più, e il tuo turno non arrivava mai. C'era sempre qualcuno prima di te, e intanto soffrivamo in cinque, in venti, in mille. La terra stessa avrebbe pianto se ti avesse perso. E c'erano quei momenti in cui i miei pensieri si confondevano con quelli di una bambina di cinque anni, come quando ti avevo conosciuto. Forse non ho pregato abbastanza a lungo? Non ho sperato abbastanza forte? Non sono stata brava abbastanza? E l'unico suono che mi arrivava in risposta era quello dei miei singulti strozzati dal cuscino. Sapevo che se ti avessi perso se ne sarebbe andata anche una parte di me, e lo sapevi anche tu.

Le lacrime mi bagnarono di nuovo le guance. Anche dopo tutto quel tempo era impossibile non piangere.

Ormai passavi più tempo in ospedale che a casa, ed io ero sempre al tuo fianco. Lo vedevo dai tuoi occhi che ti sentivi in colpa per tutta quella situazione, ma il tuo errore fu pensare che la decisione fosse tua. Le tue parole arrivarono come fulmini a ciel sereno. Non ho mai avuto dubbi sul fatto che mi amassi, ma ammettiamolo: non lo facesti solo per me. Non mi lasciasti perché potessi vivere la mia vita accanto a qualcuno che poteva darmi tutto. Tu mi avevi già dato tutto, Alex, non sarei scappata di certo. Se c'era una cosa che mi faceva più male del fatto che saresti potuto andare troppo lontano per poterti raggiungere, era quella di prendere una strada diversa dalla tua. Lasciarti. Non sapevo dove avessi preso tutta quella forza per lottare con te, ed in passato mi sono chiesta tante volte perché le persone restassero a guardare.

Era nato tutto da un episodio che mi aveva fatto gelare il sangue.
Avevo circa sette, otto anni, ed ero in macchina con mamma, papà e Jake. Ci stavano portando al luna park, ed io ero così felice che saltavo sui sedili posteriori dell'auto. Jake mi aveva già sgridato quando per errore gli avevo tirato un calcio, ma non mi ero fermata.

Davanti a noi la macchina blu si fermò di colpo. Poi ci fu uno schianto tremendo, mi spaventai così tanto che chiusi gli occhi, e fu il caos. Papà ci intimò di non scendere, prima di correre ad aiutare con la mamma, così rimasi con Jake sui sedili posteriori, cercando di trovare un senso alle due macchine quasi accartocciate come fogli di carta, quella blu davanti, e l'altra lateralmente. Cercavo un senso nella coda di macchine che si allungava, nelle voci che chiamavano l'ambulanza, e nell'urlo disumano di qualcuno che si elevò sul caos in cui eravamo finiti.

L'adrenalina mi corse su per le vene, e di scatto scesi dalla macchina. Le braccia di Jake mi trattennero come barriere, ma riuscii a liberarmene sotto le sue urla. «Sky, torna qui, non possiamo vedere anche noi!»

Non lo ascoltai. Prima che i miei potessero accorgersi che mi ero avvicinata troppo riuscii a vedere tutto. Una donna ed un uomo cercavano di salvare una signora sulla sessantina. «Mamma, mamma svegliati!» urlava lei, eppure l'anziana pareva immobile, col sangue che le colava dalla tempia e dalla bocca, dal naso.... Mi domandai allora perché la giovane non fuggisse con il suo lui, e non lo capii mai, fino a dieci anni prima. È che quando una persona così vicina a te, legata al tuo cuore con mille nodi, sta male, non puoi semplicemente lasciarla indietro. Non vuoi. Perché forse la ami più del dolore che ti provoca vederla in quello stato, la ami sopra ogni male, ogni sofferenza, sopra la pioggia e il cielo grigio plumbeo delle giornate da dimenticare.

Io non volevo scappare, non potevo lasciarti. E quando tu mi dicesti che invece dovevo, perché non potevi assicurarmi l'eternità felice che meritavo, mi sembrò di andare in pezzi insieme a te. E mi arrabbiai, tanto. Fu come versarmi del cherosene nel sangue e poi dargli fuoco, potevo sentirlo bollire a cento gradi. Me lo ricordo il tuo sguardo. Dovevo avere un'espressione truce, perché lessi nei tuoi occhi il riflesso della mia rabbia, insieme all'impotenza e ad una lontana speranza quasi perduta. E non so come riuscii a trovare il coraggio per non esplodere. Per farti capire che no, non ti avrei lasciato neanche per tutto l'oro del mondo. Perché a volte, continuare un amore è una scelta, ed io avrei scelto te ogni giorno, fino alla fine. Avrei scelto te anche in un'altra vita, Alex. E se qualcuno mi avesse chiesto se mi fossi pentita di averti amato, avrei urlato a pieni polmoni di no. Pensavo che il peggio fosse passato, e invece...

Invece tutto sembrò andare totalmente a rotoli. Erano le sette in punto di una sera di metà maggio, faceva già troppo caldo per indossare magliette a maniche lunghe. Non ti avevo accompagnato a fare i soliti controlli. Proprio quel giorno avevo passato la mattinata a casa di Claire a studiare matematica, e poi ero dovuta correre a casa perché Jake stava troppo male anche per alzarsi dal letto, e i nostri genitori non sarebbero tornati prima di sera. Stavo preparando la cena, quando il telefono squillò rompendo il silenzio della cucina. Mi precipitai a rispondere, ma mi bastò vedere il nome di tua madre sullo schermo per capire tutto. L'ennesima crisi, ma questa volta era diverso. Stavi collassando e solo un trapianto d'urgenza avrebbe potuto salvarti.

Mi sentii come se mi avessero sparato al petto, proprio lì dove c'era un posto che era sempre stato tuo. Il dolore, la paura, mi artigliarono ogni fibra del corpo come zampate distruttive, letali, aprendo squarci enormi. Il dolore mi esplose dentro come uscito da un vulcano al pensiero di perderti per davvero quella volta. Niente più speranze, niente più sorrisi, te ne saresti andato via da me senza salutare se nessuno avesse fatto qualcosa.

Mi precipitai in ospedale come una furia, gli occhi gonfi di lacrime, la vista appannata. Ero un uragano di disperazione e speranza, e quelle ore furono una tortura. Ma pregai, con tutte le forze che avevo in corpo. E le mie preghiere furono ascoltate, finalmente. I medici riuscirono a salvarti in tempo. Io e la tua famiglia potevamo riaverti con noi, mi augurai ancora per molto, molto tempo.
Perché ti amavo allora come adesso, che è passato esattamente un anno. Adesso stai bene, Alex. Ed io non potrei essere più felice di così.

Finii la lettera con gli occhi lucidi, colmi di quelle lacrime che avevo versato tante volte. Ma adesso non aveva più senso piangere, no? Avevo scritto quella lettera per spiegare tutto quello che avevo sentito in quel periodo, rileggerla aveva portato tutto ciò a galla, ma era passato tanto tempo, ed io ero felice. Tanto.

Avevamo avuto tre bambini meravigliosi. Zoe e Rose erano le prime, due gemelle fantastiche. Poi due anni dopo di loro era arrivato Logan, il piccolo della casa. Con loro tre le nostre vite avevano raggiunto un picco di felicità che non credevo possibile.

Mi alzai dalla poltrona, affrettandomi a nascondere la lettera, quando mio marito varcò la soglia del salotto. «Ciao, tesoro» elargì con il suo solito sorriso. «Che facevi?»

«Nulla» risposi. Sperai che non notasse che avevo pianto. Quella lettera doveva rimanere un segreto. Non volevo che potesse sentirsi ancora in colpa o peggio, che potesse rivivere quel terribile periodo. Eravamo andati avanti una volta per tutte, volevo godermi il mio lieto fine con lui.

Aggrottò le sopracciglia castane, ma la sua espressione si distese subito. Mi si avvicinò a piccoli passi e mi posò un dolce bacio sulle labbra. «Buon San Valentino, Sky. Questa sera ho organizzato una sorpresa per te, sarà meglio che ti prepari. Indossa qualcosa e poi scendi in cucina, dove c'è una cosa per te.»

Ah, mi sentivo una quindicenne al suo primo appuntamento con il ragazzo più carino della scuola. Mi alzai sulle punte e gli diedi un bacio sulle labbra, per poi andare a prepararmi. Quando arrivai di sotto, tre vocine squillanti emisero strilli di sorpresa. «Come sei bella, mamma!» dissero in coro i miei bambini.

Alex rise. «Vero, marmocchi? Su, ora filate a giocare, che tra poco arriva lo zio Jake!» intimò alle tre piccole pesti. «Jake? Ma Alex, cosa hai combinato?» chiesi allora a mio marito.

«Andremo a cena fuori, a loro penserà tuo fratello» spiegò lui. «Ti dirò tutto dopo» continuò «adesso, prendi questa» dal tavolo prese una rosa rossa che non avevo notato per niente, distratta dai bambini che erano corsi a giocare felici. «Grazie Alex, grazie davvero» sorrisi commossa, quel giorno avevo proprio le lacrime facili!

Mio marito mi prese il viso con l'intento di baciarmi, ma fummo interrotti dal suono del campanello. Jake aveva davvero un pessimo tempismo.

«Bambini, fate i bravi, d'accordo? Zoe e Logan soprattutto, non fate impazzire lo zio con i vostri scherzetti» dissi ai miei figli. L'ultima volta ci era mancato poco che il mio caro, vecchio fratellone non ci rimanesse secco. Logan e Zoe avevano avuto la brillante idea di cospargere il pavimento con dell'olio per farlo scivolare. Rose aveva cercato di evitare il disastro, ma non ci era riuscita. Jake sembrava un po' intontito dopo la caduta, ma non aveva niente di rotto per fortuna.

I bambini annuirono, così io ed Alex infilammo i cappotti e, dopo aver salutato mio fratello, uscimmo finalmente di casa.
«Senti un po', come hai fatto a convincere Jake? Credevo che avrebbe passato la serata a disperarsi per essere stato lasciato da Katherine» ridacchiai.

«Non l'ho convinto. Mi ha detto che sarebbe stato felice di passare la serata con i suoi nipotini» rispose Alex facendo spallucce.
Sorrisi. «Forse ha capito che ha tutta la vita davanti.»

«Può essere» assentì lui «e comunque, che facevi in salotto, prima? Avevi una strana espressione» chiese poi. Accidenti, ormai per lui ero come un libro aperto.

«Niente. Pensavo a quanto sono felice, con te e i nostri bambini» sorrisi, e fui felice di vedere anche le sue labbra seguire le mie.

Finalmente potevamo restare insieme, fino alla fine.

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