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Capitolo 0.2






Quattro ciotole, perfettamente liscie all'interno e irregolari e ruvide all'esterno, giacciono sulla sabbia umida, vicine ai suoi piedi scalzi.
Allunga una mano accarezzando lo smorto legno di acacia, prima di afferrarne una, compiacendosi per la sua creazione, da lei stessa intagliata come il bastoncino appuntito che tiene nell'altra mano.

Lo intinge nella miscela scura e profonda contenuta dal legno, testandone la densità. Traccia una linea su una delle gambe, che incrociate, le permettono di godere delle carezze delicate dei granelli sulla sua pelle olivastra.
Un tratto sottile, deciso, ma debole e inutilizzabile per il suo scopo.
Mentre un rivolo nero come ossidiana le scivola sul ginocchio, posa la ciotola fra le sue gambe, frugando nella sacca di foglie intrecciate e ritrovando il suo tesoro.

Una minuta scatola scura, con intagli esagonali sul coperchio, viene fuori grazie alla presa delle dita affusolate.
Al suo interno l'ingrediente mancante al suo intruglio: cera d'api.
Col coltello recuperato dalla borsa ne stacca un triangolo, tenendolo perfettamente in equilibrio sulla lama piatta mentre con cura la avvicina alla fiamma calda e scoppiettante del falò davanti a lei.

A contatto col fuoco, la forma geometrica pallida si deforma istantaneamente, colando con facilità nella ciotola ancora sulle sue cosce.

Ripone la lama arroventata sulla sabbia, tornando ad impugnare il bastoncino e tracciando una linea ben più precisa e marcata della precedente.

Finalmente soddisfatta, impugna l'irregolare lastra d'argento puro, lucidato per l'intero pomeriggio, permettendo a se stessa di rivedersi nei riflessi offuscati dello specchio improvvisato.

Con movimenti veloci, sposta il bastoncino dalla miscela di galena nera e laurionite al suo occhio, tratteggiando il bordo superiore della palpebra fino ad ottenere una doppia e marcata linea che raggiunge metà della tempia.
Con la stessa precisione, dà vita ad altre due linee: una a metà tra la palpebra e il sopracciglio e una alla base dell'occhio.
Con gli ultimi residui conclude il suo disegno tracciando un tratto dritto e preciso, che parte dal centro della sua gota fino a raggiungerle le sottili ciglia inferiori, da dove parte la seconda e ultima linea diagonale, che cammina verso i contorni del suo viso fino ad arricciarsi in punta.

Gli ultimi mesi trascorsi a recuperare i materiali e gli attrezzi non sono stati vani. Sorride, pensando che presto il suo impegno verrà ripagato e le sue domande potranno ottenere risposta.

Aveva viaggiato per tutti i paesi conosciuti per ottenere i minerali necessari, lavorandoli da sé e con strumentazioni ormai arcaiche, per compiere il suo rituale.
Galena, oro, malachite, ocra rossa, cerussite e fosgenite erano solo alcuni degli ingredienti che per quaranta giorni e quaranta notti aveva fatto ribollire, assieme a sale, grassi e resine, solo per il suo scopo.

Mesi di preparativi e sacrifici che ora si consumano tra le sue mani, sui suoi occhi, solo per poterle concedere di rivedere quelle figure ancora una volta.

Afferra la ciotola dal contenuto verde ottenuto dalla malachite, ne testa la densità, e con un dito ricopre delicata gli spazi tra le linee nere tracciate sulla sua palpebra; si dedica poi alla miscela rossa ricavata dall'ocra, abbondando sulle labbra, tenere e pulsanti, e picchiettando leggermente le gote per colorirle.

Raggiunge infine l'intruglio dorato, quasi liquido, intingendo entrambe le mani all'interno della ciotola e ricoprendo interamente dapprima il viso, fino poi a raggiungere gli arti nudi e inumiditi, che ad ogni tocco prendono a brillare baciati dai raggi lunari.

Lascia che la chioma nera le ricada sulla schiena, sciogliendola dalla morsa del forchettone in osso, e, lentamente, si solleva sulle sue gambe, sistemandosi la veste di lino grezzo e permettendole di tornare a coprirla fino alle caviglie.

Gonfia il petto, espirando ed inspirando profondamente, mentre fiera si dirige verso la riva; i piedi incontrano le acque cupe e increspate, svanendo lentamente sotto il gioco di luci creato dalla luna piena che curiosa accompagna i suoi movimenti.

Con l'acqua a metà del corpo e le vesti appesantite, solleva le mani fino a portarle davanti al volto, serrando gli occhi e concentrandosi sulla sua voce.

«Immensa madre del mio creatore,
Detentrice della vita e Regina dell'essere.
Con l'oscurità, le fiamme e le acque
Ti rivolgo la mia richiesta,
Signora dei tempi passati,
Colei che è sul trono e vaga nella notte,
Ascoltami, mia Dea.
Ti richiamo con gran timore e paura.
Agita i mari, provoca i venti e conducimi a Te,
Guardiana dei quattro figli e Sorella delle stelle.
Concedimi udienza, mia Sovrana,
Portami a Te e lascia che mi unisca a Voi.»

Sente il corpo avvolto da un calore familiare, mentre il disegno sul suo volto prende a brillare di luce propria e le vesti tornano leggere a sfiorarle le carni.
Spalanca finalmente gli occhi, sorridendo alla vista delle figure fiere e solenni dinnanzi a lei.

Dal trono intagliato nella pietra e ricoperto di fili d'oro, una donna, dalla pelle scura e dalla chioma corvina ingioiellata, volge lo sguardo alla sua destra, invitando, col gesto delicato di una mano, l'uomo alto e muscoloso al suo fianco a proferir parola.

«Seérkuit, figlia mia.» La voce bassa e potente invade la sala, rimbalzando sulle alte colonne rossastre incise da una lingua antica e arrivando alle orecchie della ragazza dal volto pitturato.

«Horus, Signore del tutto, fui tua figlia in un tempo lontano. Sono qui solo per ottenere risposte

Le braccia forzute si allontanano dei fianchi per incrociarsi sul petto nudo dell'uomo, decorato da decine di raffigurazioni che ne colorano la pelle con i racconti della sua gloria.

«Quante volte hai già sconfitto i tuoi fratelli, Seérkuit?» Domanda chinando il capo, lasciando che la testa di falco incastonata di pietre preziose, che gli fa da elmo, ricada in avanti a sostituire i suoi lineamenti.

«Sei vite, mio Signore. Sei vite trascorse ad inseguire gli altri figli maledetti. Sei vite dedicate a fermare la follia di quella che un tempo chiamavo sorella

«È questo il tuo errore.» torreggia la donna dall'alto del suo trono, mentre le vesti bianche e lucide si gonfiano, per la brezza scatenata dalla sua voce.

«Mia Sovrana.» bisbiglia Seèrkuit poggiando un ginocchio sul pavimento marmoreo, posando su di esso il suo sguardo e illuminandolo con la luce che il suo occhio disegnato ancora emana «Ti imploro, indicami i miei sbagli. Mostrami la strada per curare la sua pazzia. Il mio cuore non può accettare di vederla morire ancora e ancora

«Non vi è follia in lei, solo amore per la madre che vi ha rinnegati, che vi ha maledetti.» continua la donna, abbracciando con le sue parole il corpo della ragazza «La Morte, Seèrkuit, è l'unica via

«Per sei volte ho ucciso i miei fratelli. E per la settima volta ho dato inizio al circolo.
Il primo si è sacrificato venti lune fa, concedendomi i suoi poteri e rivelandomi come giungere a voi, grazie all'antico rituale dell'occhio di Horus, come era in uso ai nostri tempi lontani.» Questa volta è il tono inquieto della ragazza a sollevarle le vesti, dando vita ai suoi capelli rigonfi di ira e aiutandola a tornare in piedi. «Hàmzeit, il tuo prediletto. Mi ha svegliata, mi ha ridato ricordi passati e mi ha donato i suoi poteri, sacrificandosi a me. Per quante volte dovrò vedere i miei fratelli perire? Per quante vite dovrò vagare nella speranza che la follia di Neïth guarisca

«Fino a quando non accetterai la verità, figlia.» Horus torna a fissare i suoi occhi gialli su quelli di lei, travolgendola con tutta la magnificenza della sua figura con un solo gesto della mano e costringendola di nuovo in ginocchio.

«Quale verità? So bene che la morte non può nulla. Ho ucciso ogni figlio per sei vite, e per sei volte siamo tornati

Nonostante la voce raschiata e quasi sussurrata, la risposta del Dio non tarda a placare i quesiti di Seèrkuit.
«Che ne è stato della tua vita, in queste sei esistenze, mia adorata?» pronuncia solenne, ascoltando il silenzio della ragazza prima di proseguire «Per sei vite hai solo ucciso gli altri prima di uccidere te stessa. La verità è che devi accettare il tuo destino, sfruttare i tuoi doni, abbracciare i tuoi poteri e dedicare la tua vita a rimediare agli errori dei tuoi fratelli. Non puoi porvi fine prematuramente. Loro sono il flagello, tu la salvezza.»

«Ma... io non sopporto di vederla morire. Non posso vivere con le mani sudicie del sangue dei miei stessi fratelli

«Devi. È la tua maledizione.» Il suono dello scettro bronzeo, alto come un albero e sinuoso come un serpente, che deciso si scontra con ognuno dei quattro gradini in oro, calpestati dai piedi aggraziati della Sovrana, fa sussultare l'intera sala.
Seèrkuit viene sospinta in piedi dal vento scaturito dalla sua Signora, volgendo per la prima volta lo sguardo al suo viso perfetto e ai suoi occhi neri e lucenti.
«Seèrkuit, tu sei quello che io ero. Unica e sola tra quattro. Accetta la verità e spezza la maledizione. Ben più di sette esistenze ti aspetteranno se non lascerai che il tuo destino si compia.»

«Tre vite, figlia mia. Solo tre divine vite saranno riscattate da Anubi. Se continuerai a donarti come quarta, non potrà che mandarvi indietro
Anche Horus, con sole due falcate, raggiunge il corpo inerme di Seèrkuit, abbandonato ai fili invisibili che la sorreggono e che sembrano allentarsi ad ogni passo degli dei verso di lei.

«Horus, come puoi permettere che i tuoi figli vengano condannati all'oblio a causa della tua sposa snaturata? E tu, Iside, perché non usi il tuo potere contro la maledizione?»
La voce di Seèrkuit riecheggia fino ai due Dei senza che lei abbia aperto bocca, mentre la sua figura comincia a svanire, avvolta da una coltre che si fa sempre più fitta.

«Il nostro potere ci è stato tolto tempo fa, mia adorata Seèrkuit, quando il Tempo ci ha relegato in questo luogo per l'eternità. Siete voi ad averlo ereditato.» La mano di Iside si allunga fino a sfiorare la nebbia che ormai inghiotte il corpo della ragazza, lasciandone intravedere solo dei tratti sfocati. «Tu sei l'unica degna di usarlo, ma ancora non lo sai

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