Capitolo 3
La porta che troviamo dinnanzi a noi possiede lo stesso colore delle pareti: l'oscurità.
Faccio segno a Lothar di allontanarsi e lui esegue senza indugi: sa cosa si cela dietro quel sipario di tenebra.
Prendo un respiro profondo e poso la mano destra, a palmo aperto, sulla gelida parete affianco alla porta. Una luce la scansiona e una voce metallica mi concede l'accesso.
Strano...
Il Re mi aveva proibito di recarmi in questo luogo e credevo mi avesse cancellata dall'elenco delle persone autorizzate, invece...
Non è da lui...
Mentre io mi interrogo sul comportamento insolito di mio padre, Lothar, appena scorge uno spiraglio, schizza all'interno della stanza senza che io riesca a fermarlo.
《No!》grido al culmine del terrore, precipitandomi al suo inseguimento.
Non devo fare molta strada per trovarlo.
Il mio piccolo servitore è sdraiato a terra con un'espressione d'orrore dipinta sul volto e lo sguardo puntato su una Sfera.
《Lascialo andare》ordino alla guardia robotica, con una voce che spero essere priva di paura.
Un'altra idea del Re.
Non si fida delle persone e così le soppianta con le macchine.
Perché non l'ha fatto anche con me?
Forse sarebbe stato meglio per tutti se io fossi scomparsa...
La Sfera emette un sinistro ronzio e rivolge a me la sua attenzione, rimanendo, comunque, troppo vicino a Lothar per i miei gusti.
La guardia del Re è, in pratica, una Sfera di metallo, priva di qualsiasi tipo di coscienza, con un sensore incastonato al centro e migliaia di lame racchiuse al suo interno.
Le persone non autorizzate che dovessero varcare quella porta sarebbero fatte a pezzi all'istante.
Letteralmente.
《Sono la Principessa Zaira Chal Teilani.》
Mi identifico in tono autoritario e fermo. La Sfera si avvicina, volando in maniera disordinata, e punta il suo "occhio rosso" su di me. Subito avverto il calore della scansione che mi pervade le membra e cerco di mantenere la calma.
Non voglio dargli alcun pretesto per uccidere me o Lothar.
《Identità confermata》annuncia la voce metallica della Sfera.
Il suono rimbomba nella sala ovale, dove ci troviamo, in maniera inquietante, ma rimango impassibile e continuo a fissare la guardia con sguardo truce.
La macchina dispensatrice di morte considera concluso il proprio lavoro così levita lontano da noi fino a raggiungere l'alto soffitto a volta e sparisce al suo interno.
Senza ulteriori indugi, sollevo la gonna e corro, per quanto mi è possibile, dal mio terrorizzato servitore. Giunta al suo fianco, mi inginocchio a terra e lo abbraccio, stringendo forte a me.
《Sei un incosciente. Potevi rimanere ucciso. Cos'avrei fatto senza di te?》mormoro, con gli occhi stretti e chiusi.
Non voglio piangere.
Le lacrime non risolvono i problemi e quindi sono del tutto inutili.
Lothar, però, la pensa diversamente da me e si aggrappa alle mie spalle, seppellendo il volto sul mio collo, inondandolo di fredde, dolci gocce.
Gli appartenenti alla sua razza, infatti, piangono stille dal sapore dolciastro, gelide come le notti su Titano.
《Tranquillo. È tutto finito. Ci sono io con te.》
Rimaniamo abbracciati per un tempo indefinito, ma, quando ci stacchiamo, lo sguardo del mio servitore è tornato lucido e furbetto come al solito.
Solleva le labbra, per quanto gli è concesso, e le incurva in un sorriso un po' storto prima di rialzarsi e mettersi a saltellare per l'ampia sala.
La Sala delle Armi...
Un luogo lugubre in cui non vengo quasi mai.
Un luogo costruito milioni di anni fa dall'architetto Trantor Hardin Pivenne, famoso per i grandiosi progetti con i quali arricchiva le corti intergalattiche, da T'Val IV a Rhodia.
Al centro di questa sala si erge un grande tavolo rotondo, scuro come la notte più profonda, è interamente costituito di Pietra Wells, la più resistente dell'intera galassia.
Se penso che intorno a questo tavolo si riunivano i miei antenati, governatori dall'animo buono, il cuore mi si stringe in una morsa di sofferenza e tristezza.
Come ci siamo ridotti...
Trattenendo un sospiro di malinconia verso quell'epoca così remota e oppure così meravigliosa, sfioro con le dita la superficie liscia e fredda del tavolo e subito appaiono immagini olografiche di quei regnanti, dall'aria solenne, ma giusta.
E la breccia nel mio cuore si allarga.
Un clangore metallico mi fa sobbalzare. Tolgo la mano dal tavolo e gli ologrammi scompaiono immediatamente, facendo ripiombare la sala in una silenziosa penombra.
Mi giro e trovo Lothar alle prese con un elmo rovinato. Lo raggiungo a gradi passi e lo salvo dall'ingombro.
《Non devi toccare nulla》lo rimprovero, mettendo a posto il cimelio di guerra.
Richiudo la teca che il mio servo ha aperto e gli scocco un'occhiata ammonitrice: in questa sala lui non può toccare, né prendere, alcunché altrimenti la Sfera potrebbe risvegliarsi.
Lo prendo per mano e ci incamminiamo assieme verso la parete più lontana.
Cerco di mantenere lo sguardo fisso davanti a me per non vedere la moltitudine di spade, ancora sporche del sangue dei caduti, appese al muro come opere d'arte. Accanto alle lame, ci sono strano scudi ad otto punte, spaventosi e micidiali, braccia robotiche, strappate ai nemici del Re, e, infine, loro, i Borg, un esoscheletro di metallo che conteneva una forma di vita priva d'anima.
I Borg erano una razza guerrafondaia che seminava distruzione nella galassia e assimiliava le razze che più trovava utili.
Fortunatamente si sono estinti molti warp fa.
Lothar inizia a dimenarsi, cercando di liberarsi dalla mia presa, ma riesco a trattenerlo, anche se a stento.
《Lo so... Siamo quasi arrivati...》gli confermo, giungendo finalmente a destinazione.
Ci troviamo di fronte ad una parete spoglia, priva di orpelli inquietanti e macabri. Al pensiero di ciò che stiamo per vedere, avverto un brivido di eccitazione pervadermi le membra.
È da così tanto tempo che non la vedo.
Allungo una mano fino a sfiorare la superficie davanti a me e subito la parete viene fagocitata dal muro, aprendoci la strada verso il Cuore.
《È bellissima...》mormoro, come sempre quando i miei occhi si posano su di lei.
Io e Lothar ci troviamo al cospetto del Cuore del Palazzo, una stella morente che infonde energia a questo pianeta altrimenti spacciato, una luce accecante e malinconia a cui è impedito di raggiungere l'oblio.
《Mi deludi ancora una volta...》
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