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1. La fiducia non esiste

Giorno 1

Si svegliò col collo madido di sudore e le lenzuola fastidiosamente appiccicate alla pelle.

Forse la tensione gli aveva giocato un brutto tiro, tormentando il suo sonno con vecchi incubi spaventosi.
Prese un respiro profondo e tossì, mentre accendeva la luce, torcendosi tra quelle lenzuola umide prima di scendere da quel letto morbido ed accogliente.

La radiosveglia sul comodino segnava impietosamente le dieci ormai passate.
Cazzo!

Lo sbalzo tra le coperte calde e la temperatura fresca della stanza lo fece rabbrividire e scrollare spalle e schiena come a volersi togliere un fastidio.
Una sciacquata veloce e si rimise in fretta i vestiti della sera precedente.

Nell'agguantare la felpa, prima d'indossarla, balenò nella sua mente che quel Nathaniel fosse stato devvero gentile a prestargli indumenti che non avrebbe più usato.
"Forse anche troppo gentile!" si ritrovò a pensare, mentre infilava i pantaloni della tuta.

Per quello che aveva potuto sperimentare fino a quel momento, aveva capito che la gentilezza era sempre effimera e la gente la utilizzava per  tornaconto personale. E Logan aveva imparato, suo malgrado, a fare proprio così.

Mentre infilava i calzini, ripensò alla conversazione avuta con il biondo, solo qualche ora prima.

Il modo in cui si era preso cura di lui, in maniera apparentemente disinteressata, l'aveva spiazzato, facendogli credere, per un solo, breve momento, di avere di fronte qualcun altro.

Fu quando passò davanti la reception ed incrociò gli occhi di Nathaniel, di quel colore particolarissimo, che si ripromise di andarsene da lì il prima possibile.

«Buongiorno, Logan!», il biondo lo salutò calorosamente, facendolo trasalire di colpo.

«Bu-buongiorno...».

«Non volevo disturbarti stamattina: ti ho sentito parecchio agitato stanotte e ho pensato fosse meglio lasciarti riprendere le forze.».

«Beh... Grazie... Effettivamente non ho dormito granché. Spero di non averti dato troppo fastidio... – e lo osservò, alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui aveva ben chiaro in testa -  Potrei... avere del caffè? ». I suoi occhi ambrati diventarono due fessure e, di nuovo, quella strana sensazione gli fece alzare i peli sulla nuca, riportando immediatamente a galla ricordi spiacevoli. Doveva stare all'erta, non poteva in alcun modo permettersi di abbassare la guardia.

Il biondino si alzò dalla scrivania e si portò dietro il bar, preparandogli quello che aveva chiesto e mettendogli un croissant su un piattino.

Logan strinse le labbra, incerto se avvicinarsi a quella persona o meno, contemplando lo sgabello esattamente di fronte alla tazza fumante.

Forse fu lo stomaco a comandare il suo corpo, facendolo accostare al bancone e sedersi a un posto di distanza da Nathaniel, impaziente di mangiare e poi di andarsene al più presto.

Dal canto suo, Nathaniel si puntellò sul bancone con le mani, continuando ad osservarlo. Sapeva di essere indiscreto, il più delle volte glielo dicevano pure! Ma quel Logan, saltato fuori da chissà dove, era interessante.

Logan non amava essere fissato, in nessuna situazione. E si era già ritrovato con qualcuno che lo osservava finire un pasto e, no, non era stato affatto piacevole. Metteva ansia, si sentiva a disagio e lo stomaco gli si chiudeva all'istante.
Eppure,  lo sguardo imbronciato di Nathaniel aveva tutto l'effetto opposto in quel momento.

La sera precedente non aveva notato la barba rasata alla perfezione e il leggero pizzetto, appena sotto il labbro inferiore.

Nel complesso era quello che la gente avrebbe definito un bell'uomo.

«Logan»
«Mh?», mugugnò, la bocca riempita con l'ultimo boccone di croissant.
«Tu sai fare qualcosa? Intendo...un qualche lavoro?».

Perché glielo stava chiedendo?

«Più o meno... Perché?», e il biondo corrugò le labbra in una specie dighigno.

«Sai...è da ieri sera che ci ripenso e ho quest'idea in testa... - agitò la mano ad indicarsi la tempia - Stavo pensando che potrei assumerti qui, come tuttofare.».

Logan tossì e quasi non sputò il caffè caldo addosso a Nathaniel: «Cosa?».

Il biondo si staccò dal bancone, passandoci sopra una pezza umida, a pulire il disastro che aveva fatto: «Avresti alloggio gratis, così come il cibo. Potresti anche ricevere un adeguato compenso se a te sta bene. – si prese il tempo per osservarlo e fare una pausa fin troppo lunga e carica di attese - Così avrai pure qualcosa in tasca se te ne vorrai andare.».

Logan non sapeva cosa rispondere. Stava cercando che cosa? Un accordo?

Certo, un po' di di grana gli avrebbe fatto di certo comodo, ma non voleva trattenersi più del dovuto. Era consapevole che rimanendo in quel posto avrebbe fatto un enorme errore e non poteva rischiare di farsi prendere di nuovo.

Tuttavia, qualcosa lo trattenne dal rifiutare categoricamente quell'offerta.
«Posso pensarci su o devo accettare subito?».

Il sopracciglio biondo di Nathaniel scattò impercettibilmente verso l'alto, prima di rispondergli: «Prenditi il tempo che ti serve per valutare la mia offera. L'ho riproposto a Ester anche stamattina e mi sembra ben predisposta. ».

Ben predisposta? Cosa cazzo voleva dire ben predisposta?

Decise di accantonare l'argomento e di dare libero sfogo alla propria preoccupazione: «Nath... Ieri notte non mi hai davvero risposto ad una cosa e questa tua proposta è allettante e strana allo stesso tempo – gli uscì di getto - Perché mi hai portato qui? E perché stai facendo tutto questo per me?».

Nathaniel si accigliò. Che lo avesse infastidito con la sua insistenza, con la sua voglia di capire il perché di quella bontà improvvisa?

Il biondo si mordicchiò l'interno della guancia, osservandolo come si fa con un bambino petulante e fastidioso: «L'ho fatto e basta, Logan. È stato spontaneo. Magari non ci avrò pensato troppo e potresti essere anche un tossico o un criminale per quanto mi riguarda. - Logan s'irrigidì a quelle parole - Ma non mi interessa. So come ci si sente a non avere nulla e nessuno e a vagare per il mondo senza una meta, senza uno scopo. – Nathaniel si posò con i gomiti al bancone, mentre Logan si allontanava di poco da lui - Se fosse capitata a me una fortuna come la tua, non avrei fatto troppe domande e avrei colto l'opportunità al balzo!».

Logan sentì una fitta allo stomaco, come se quelle parole l'avessero colpito alla pari di un pugno.

«Ma tu non sei me, Logan. E rispetto la tua diffidenza e qualsiasi decisione prenderai.», tagliò corto.

Logan non parlava, limitandosi a scrutare l'espressione risoluta che induriva il volto di Nathaniel.
«Cioè tu hai vissut-».

«Per strada. Ho vissuto per strada anche io,  prima di prendere consapevolezza che potevo fare qualcosa di meglio nella mia vita.».

«Come ci sei riuscito? A fermarti, intendo.».

«Determinazione, calli alle mani, mal di schiena e notti insonni. E fiducia nelle persone, Logan.».

Fiducia.

Potevano essere simili su alcune cose, ma, in quello, Nathaniel risultava ingenuo ai suoi occhi.

«La fiducia non esiste, Nath. - e si alzò dallo sgabello con il cuore apparentemente più pesante di prima - La fiducia è solo un vetro troppo sottile, che ti fa vedere le persone con colori falsati e nasconde per bene tutta la merda del mondo.».

Il biondo si trovò spiazzato da quell'affermazione, gettata tra di loro come un macigno in una pozzanghera.

Si ritrovò a richiamarlo quando ormai il moro stava già per uscire dalla porta a vetri dell'atrio.

«Oggi pomeriggio mi accompagni in città. Devo prendere delle cose e mi serve una mano.», e Logan percepì quel tono più come un ordine che come una proposta, a cui comunque si sentiva in dovere di accettare.
In realtà si convinse che quella era solo un'occasione in più per farlo sentire in debito nei suoi confronti.

Nonostante le premesse, quel pomeriggio si rivelò essere più piacevole del previsto. Non si erano trovati a discutere di certo  sui massimi sistemi che muovono il mondo, ma era riuscito almeno a scoprire qualcosa di più sul suo salvatore, tra un discorso futile e l'altro.

Nathaniel veniva da una delle terre più aride ed inospitali del sud, di quelle che si leggevano sui libri di scuola, ricche più nelle viscere della terra che sulla superficie.

Un posto in cui anche Logan era stato durante le sue peregrinazioni e di cui si ricordava fin troppo bene.

La famiglia Watkins era agiata: possedeva dei giacimenti di ferro e, tra i suoi cinque fratelli, Nath era sempre stato considerato la "pecora nera", quello che se ne infischiava dei soldi e di tutto il resto, frequentando molte volte ambienti e personaggi al limite della legalità. Per questo, come gli aveva accennato, aveva vissuto per strada durante un periodo poco fortunato della propria vita.

Nathaniel amava parlare di sé e Logan l'aveva capito.
Gli avevano insegnato a valutare situazioni e persone e, nonostante la frase secca che gli aveva rivolto quella mattina, Nathaniel sembrava davvero una persona di cui fidarsi.

In fondo, il suo chiacchiericcio era piacevole.

Il biondo gli confessò di slancio che aveva anche vissuto con un nome falso per un certo periodo e, mentre glielo stava raccontando,  Logan non poté fare a meno di chiedersi se anche Nathaniel fosse un nome falso. Il moro, in compenso, si era tenuto estremamente sul vago, mentendo sul proprio passato e omettendo tanti episodi che, sicuramente, l'avrebbero fatto desistere dall'intento di assumerlo come collaboratore nella locanda.

Rientrarono che il sole stava calando: le giornate cominciavano ad accorciarsi velocemente e l'aria a farsi molto più pungente sul far della sera.

Nathaniel si era offerto di acquistargli dei vestiti nuovi, più civili di quelli indossati finora, a detta sua. E Logan l'aveva lasciato fare, in cuor suo lusingato da una tale premura.

Prima di cena chiese il permesso per assentarsi: indossò la vecchia tuta che il biondo gli aveva regalato senza battere ciglio e recuperò il suo vecchio cellulare dallo zaino.
L'intenzione era quella di scoprire un po' le zone limitrofe alla locanda in cui era finito e si affrettò ad uscire per una passeggiata, girovagando e perdendosi per le stradine del paesino dov'era capitato.

Le case erano vecchie, alcune ben ristrutturate e molte strade erano costeggiate da tigli o separate dalle varie proprietà con fossi o canali ricchi di acqua. Qualche temerario come lui stava correndo nella direzione opposta. Purtroppo, i suoi poveri piedi e le ginocchia erano ancora troppo doloranti per sopportare una corsa, come invece gli sarebbe piaciuto.

I coni di luce dei lampioni cominciavano timidamente a mostrarsi lungo la via, a rammentare che l'inverno era praticamente dietro l'angolo.

Si fermò, girando su se stesso per trovare un minimo di segnale, digitando dei numeri sul tastierino del telefono e tentando di fare una chiamata. Nelle orecchie gli squilli non ricevevano alcuna risposta. Digrigò i denti e ringhiò per il fastidio, come un lupo in gabbia. Cosa sperava? Che quell'odio ta di Reuben fosse ancora libero o...vivo?
Decise di digitare un messaggio mentre camminava, ma inciampò in una buca lungo il ciglio della strada, facendouna paio di passi a destra per mantenere l'equilibrio, continuando a fissare il piccolo schermo luminoso del telefono.

Era tanto preso dai suoi pensieri e dalle piccole lettere sul display che non si rese conto della luce fastidiosamente fredda che lo illuminava da dietro, seguita da un rumore acuto che si perdeva nell'aria.

Il suo mondo si capovolse velocemente, provocandogli un dolore lancinante alla gamba sinistra. Toccò terra prima con il gomito e poi con la schiena, cercando di riparare la testa come meglio poteva durante la caduta. Il telefono gli scivolò dalle mani e si schiantò al suolo, esattamente come il suo proprietario.

Ci mise qualche secondo a realizzare di avere la testa pericolosamente vicina alla ruota di un'automobile.

Udì sbattere una portiera ed una serie di imprecazioni che stonavano col timbro di voce  che avvertiva tra il borbottio del motore sopra di lui. Il cuore sembrava volergli uscire dalla gola mentre si rimetteva lentamente a sedere, tutto intontito e dolorante.

Un'ondata improvvisa di caldo si propagò dal petto, come se tutta l'adrenalina volesse uscire fisicamente dal suo corpo, come una tempesta di spilli roventi.

«Ma cazzo! Ma guardare dove vai è difficile? - fece la donna a voce alta e stridula, cercando di trattenere la rabbia, mentre scendeva dal veicolo. - Tutti a me i deficienti oggi!».

Quel tipo imbecille era spuntato all'improvviso, attraversando la statale. Al buio!

«Ma dico! Lei doveva proprio guardare quel maledettissimo cellulare! E che cazzo!», e continuava ad inveire contro di lui, con una frequenza inversamente proporzionale alla distanza che la separava dall'idiota a piedi.

«Come pretendi che riesca a vederti col buio? Ma ti rendi conto che ti potevo uccidere?». Gli si avvicinò di più, tendendogli una mano. «Niente di rotto?». La luce dei fari dell'auto illuminava il volto sofferente del ragazzo dai capelli scuri.

Il cuore della giovane non aveva ancora ripreso a battere normalmente, dopo che un brivido freddo l'aveva percorsa quando aveva inchiodato per evitare il peggio. Si era sfogata a parole, ma,adesso, sudava freddo, in risposta alla forte angoscia provata.

Lui non accettò la sua offerta di aiuto, tirandosi in piedi da solo con una certa fatica e pulendosi i pantaloni e la felpa con le mani.

«Avrebbe potuto moderare la velocità...- fece lui con voce infastidita e mortalmente seria - Fortunatamente sto bene, grazie.». I toni si erano smorzati subito, lasciando spazio ad un pesante imbarazzo.

«Ne è sicuro? Vuole che la accompagni in ospedale? - la voce le tremava, sopraffatta ancora da una spiacevole ansia - O la porto a casa... Come preferisce...». Ecco. Ritornare a dare una certa formalità alla conversazione la rassicurava. Cominciò a tormentarsi le mani.

«Guardi, io sto bene, la ringrazio.», fece lui, allontanandosi il più velocemente possibile.

La ragazza rimase a fissarlo mentre se ne andava a recuperare il telefonino, rigirandolo tra le mani e controllandone lo stato.

«Se si è rotto mi permetta di farglielo aggiustare o di comprarne uno nuovo...», la voce le tremava ancora. Lo vide alzare il cellulare, un modello vecchio, ancora di quelli con il tastierino alfanumerico, praticamente indistruttibile.

«È integro, non si preoccupi.», e si allontanò da lei in fretta, zoppicando leggermente.

La ragazza tirò un mezzo sospiro di sollievo e si attardò qualche istante sul sedile a prendere dei respiri profondi e cercare di calmare il correre del proprio cuore.
Chiuse con strana lentezza la portiera e ripartì con calma in direzione del paese.

Svoltò tra le stradine un paio di volte e si ritrovò sull'ampia via che portava fuori città.

Quella era una delle sue classiche giornate cominciate male, proseguite di merda, interminabili e con una sfiga dietro l'altra.

Girò velocemente a destra ed imboccò una stradina di sassi, fino ad una grande cancellata nera in ferro battuto, che si aprì cigolando appena le fu di fronte. Passò lungo il viale, poi a fianco della costruzione chiara, facendo riposare l'auto nel garage.

Era ancora agitata e stizzita quando entrò nella hall della locanda, sbottonandosi in fretta il cappotto di panno rosso.

«Buonasera Signorina Rachel! Ben arrivata!». Quella voce incerta la fece trasalire. Si bloccò in mezzo all'atrio, voltandosi verso un uomo sulla settantina, che era entrato poco dopo di lei con delle zucche tra le braccia.

«Buonasera, Roman! Non ti avevo visto, scusami... Ero un po' per le mie. Tutto bene?». Il vecchio le sorrise e rabbia ed agitazione svanirono di colpo.

«Oh benissimo! Oggi non ha piovuto e ho potuto sistemare per bene l'orto e la serra. Avremo zucche ancora più grandi tra qualche settimana! Lei? In ufficio tutto come sempre?», le sorrise ancora, avvicinandosi e lei ricambiò, con affetto.

«Nulla di nuovo purtroppo, come sempre.».

Quando si incrociavano al suo rientro le battute erano sempre le stesse, ma le dava la sensazione di tornare davvero a casa e di avere qualcuno che, bene o male, la aspettava. E Roman aveva quello strano potere di calmarla solo con un saluto.
Quell'uomo l'aveva vista crescere e giocare tra le viti e le siepi di quella tenuta, nascondersi tra gli alberi ed aiutarlo con qualcuno dei suoi lavori più leggeri. L'aveva vista correre dietro alle lucertole e sperimentare intrugli fatti con foglie che trovava nel giardino.

Ed ora, a distanza di anni, sapere che era sempre lui ad attenderla, più o meno alla stessa ora, le dava l'impressione di avere quasi un nonno tutto per sé, che la guardava ogni volta con la benevolenza che solo gli anziani hanno.

Lui si diresse verso la cucina. «Posso aiutarti?», fece lei, allungando le mani verso di lui, prendendo un paio di zucche senza che l'uomo potesse effettivamente ribattere.

L'uomo lasciò sul bancone gli ortaggi e si avvicinò al lavandino, pulendosi le mani dalla terra che ancora le insozzava: «Ceniamo assieme questa sera, Signorina?».

«Anche questa sera non posso, Roman, mi dispiace. - posò anche lei le zucche sul bancone della cucina - Magari domani... Perdonami...».

Lui si tolse la giacca e la abbandonò su uno sgabello, sedendosi da un lato del tavolo di preparazione, ove era stata già preparata una tovaglietta con una pietanza fumante. «Non si preoccupi, Signorina. Vorrà dire che mi toccherà sopportare la compagnia di Gavin una volta di più!», e rise di gusto, mentre il cuoco si voltava grugnendo come il suo solito. Lei gli diede un bacio sulla guancia e si diresse verso la sua stanza, lasciandolo cenare in tranquillità.

La voce profonda del cuoco le fece fermare i passi e voltare: «Pensa di mangiare qualcosa, Signorina?».
«N-no, Gavin, non preoccuparti. Penso mangerò un boccone fuori.», mentì per rabbonirlo e se ne andò.

Era esausta, aveva avuto una giornata pesante a lavoro e non vedeva l'ora di rifugiarsi lontano da tutti.

Stare in ufficio non era così semplice come aveva immaginato. E cercare di non immischiarsi degli affari altrui era sempre più difficile: malumori, pettegolezzi, critiche, lamentele. Mai una giornata serena. Non le importava di cenare, tanta era la stanchezza che aveva addosso, più mentale che fisica.
Fortunatamente l'umore era migliorato decisamente appena era entrata nella locanda, a casa.

Chiuse la porta della stanza e si appoggiò un momento ad essa, sospirando pesantemente. Le mani le tremavano ancora un poco per l'incidente che aveva evitato per miracolo. Lanciò il cappotto sulla sedia e abbandonò gli stivaletti dalla porta, continuando a spogliarsi in fretta.

Dopo la doccia si fermò in stato catatonico davanti al letto, stupendosi di avere la mente così libera da qualsiasi brutto pensiero. Si tuffò tra le coperte, ancora con i capelli umidi e l'accappatoio addosso, assopendosi quasi all'istante.

Logan arrivo in cucina con passo traballante, accaldato dopo la doccia bollente, salutando i presenti.

Un uomo sulla settantina si stava alzando, il piatto ormai vuoto teso verso le manone del cuoco.

Entrò dopo di lui anche Nathaniel.
«Oh! Bentornato Logan, come è andata la tua passeggiata esplorativa?», chiese quello. Il tocco deciso sulla spalla gli provocò una scossa fastidiosa, mentre un lamento lasciava involontariamente le sue labbra.

Era troppo acciaccato per accettare stoicamente ulteriore dolore.

«Sono un attimo indolenzito... Ho messo male un piede e sono inciampato. Una pazza stava quasi per tirarmi sotto con l'auto da quanto andava veloce!».

«Vuole che la accompagni al pronto soccorso?», chiese il vecchio, preoccupato.

«No, grazie, sto bene... -allungò una mano in direzione dell'uomo - Forse non ci siamo ancora presentati...».

«No. - sorrise ricambiando la stretta di mano, energicamente - Roman Blasevich, molto piacere...».

«Logan...».

«Roman è il tuttofare di cui ci parlava Ester giusto ieri sera...», si intromise Nathaniel.

«Anche se di gran lunga preferisco occuparmi di piante, che di tutto il resto! - fece l'occhiolino a Logan, strappandogli una smorfia divertita - Ora mi scusi, signor Watkins, ma mi ritiro. Domani mattina se non piove ho altrettanto lavoro da sbrigare!» e si allontanò con un gesto della mano.

Si sedettero al bancone mentre il cuoco metteva loro davanti un piatto di pollo arrosto con verdure stufate. 
«Mi spiace per la tua disavventura.», gli fece Nathaniel, cominciando a servirsi.

«Capita...», fece, laconico, sforzandosi ancora una volta di mangiare con una certa compostezza.

«Sei sicuro che non vuoi vedere un medico?».

A quelle parole, Logan sentì la schiena irrigidirsi. «Non amo gli ospedali. E poi... Credo mi serva solo del ghiaccio o della pomata per contusioni. – Nathaniel lo osservava di sottecchi, scettico - Sto bene, davvero. Non capisco perché ti preoccupi tanto.». Si fissarono.

Dopo un boccone, Nathaniel riprese a parlare. «Rivedo in te molto di me.».

E anche quella frase rimase sospesa tra loro, com'era avvenuto quella mattina, lasciandoli preda si uno strano imbarazzo.

La cena proseguì senza altri discorsi, finché Logan non ruppe quell'opprimente silenzio.

«Ci ho pensato un po' su, prima, mentre camminavo. - Nathaniel lo guardò, curioso - Proverò ad accettare la tua proposta... E voglio essere franco con te: non ho dove andare al momento e non ho soldi con me. - fece una pausa e si guardò l'abrasione spuntata sul palmo destro dopo la caduta - Non son fare nulla, se non metterti a disposizione le mie mani e la mia buona volontà. Non riesco bene a capire cosa tu voglia da me o cosa tu veda in me in questo momento... Ma se credi che io sia un'ancora di salvezza per qualcosa, credimi che rimarrai molto deluso. E resterò deluso anche io da tutto questo, perché sono consapevole che, come tutte le volte, mi toccherà filarmela quando comincerò a stare bene qui, perdendo nuovamente tutto.».

Nathaniel bevve un sorso di vino e lo tornò a fissare, cercando di trovare un senso a quello sproloquio.
«Da cosa stai scappando Logan?».

«Dal vecchio me stesso.», sospirò, incurvando le spalle ad abbassando il capo.

Nathaniel inclinò la testa e lo osservò, torturando una pellicina delle labbra con i denti. «Lo sai, no? Il pensiero della fuga spesso diventa una strategia per sentirsi sicuri da un'altra parte. Ma scappare non è mai l'unica soluzione. Tienilo a mente.».

Logan si incantò a guardare un punto imprecisato sul tavolo. Quel senso di debolezza era tornato ad attanagliargli le viscere e l'aveva reso ancora una volta vulnerabile. Deglutì, cercando di non pensare a ciò che era successo appena un mese prima. «Nemmeno per salvare quelli a cui ti affezioni?», esalò, quasi senza rendersene conto.

Il biondo rimase per un istante in silenzio: labbra serrate e sguardo puntato sugli occhi sfuggevoli di Logan.

«La fuga non è mai la risposta, perché la fonte del nostro tormento ci seguirà sempre, ovunque andiamo... - prese un profondo respiro - Ed in certi casi... Riconoscere di voler scappare è il primo passo per poter andare avanti ed affrontare ciò che ci fa paura.».

«Senti, Logan, domani arrivano una dozzina di turisti, un piccolo gruppo. Ho bisogno che li smisti nelle stanze e che spieghi loro che attività avranno nei prossimi giorni. - gli sorrise, toccandogli il braccio quasi a confortarlo - Sarai il mio braccio destro per un giorno e vediamo come te la cavi, ok?». Logan annuì, ricambiando il sorriso.

«Vieni a bere qualcosa in salotto con gli ospiti più tardi?», aggiunse poi il biondino.

«No, grazie...credo di dover recuperare ancora la nottata. Se ti va bene vorrei dare una mano a Gavin ora, lo vedo un po' preso...».

«Come preferisci.». Nathaniel si alzò, facendo per andarsene.
«Ah...Logan?».

Il moro si voltò: «Dimmi...».

«Cerca di rilassarti, sei al sicuro qui.».

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