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0. Tenuto sottochiave

Correva da un bel pezzo lungo il sentiero che la pioggia e le foglie secche rendevano scivoloso.

Schivò alcuni sassi e delle radici sporgenti durante la corsa e quasi finì gambe all'aria dopo aver messo un piede su una pietra liscia e, fortunatamente, i bastoni di legno gli avevano evitato la caduta. Si fermò un attimo e si girò, guardando indietro. Ansimava e, come se non bastasse, si sentiva la schiena a pezzi per colpa dello zaino. Sentì delle voci che si avvicinavano, poco dietro la curva che aveva appena oltrepassato. Si fece forza e ricominciò a correre. Arrivò ad un bivio.

«Cazzo!» si voltò di nuovo indietro: no, li sentiva ancora. Erano dietro di lui, non gli lasciavano scampo. Si tolse la mantella, percorse per un po' il sentiero che saliva ripido lungo il crinale e gettò l'indumento tra i sassi, poi corse lungo il pendio in discesa, a destra, sull'erba, per non lasciare tracce e per raggiungere l'altra stradicciola del bivio.

Si nascose dietro un masso erratico coperto di muschio e piccoli arbusti.

Adesso gli sembrava di non sentirli più. Il cuore gli batteva forte in gola e le ginocchia gli dolevano. Il calore del corpo fuoriusciva dalla sua bocca e si condensava in nuvole di vapore.

Si scostò i capelli che si erano appiccicati alla pelle umida della fronte con la pioggia. Aveva usato la mantella per depistare i suoi inseguitori ed ora si trovava fradicio e infreddolito a causa del vento gelido che si stava alzando. Puntò il naso al cielo, mentre la pioggia batteva sul suo volto: le nubi si stavano addensando molto più velocemente del previsto, vide un lampo.

Tempo infame!

Portò una mano nello spazio tra la sua schiena e lo zaino e tirò fuori un maglione, l'unica cosa che poteva indossare sopra la maglietta fradicia e che fosse vagamente asciutta.

Trovò un pino dai rami bassi, in mezzo a cespugli di rododendri, non molto distante dal masso dietro cui si era nascosto. Ci si riparò sotto, con la speranza di non trovare anima viva, tanto meno i suoi inseguitori. Si accucciò dietro un cespuglio, riparato da un ramo più basso degli altri, aspettando la fine del temporale.

Un'altra piccola nuvola di vapore uscì dalla sua bocca, mentre, ad una nuova folata di vento, rabbrividiva stretto nel suo maglione umidiccio e già sporco di fango e resina. Starnutì.

Aprì lo zaino e vi frugò dentro: tirò fuori un incarto con dentro un panino con il formaggio, lo aprì e lo addentò. Masticò piano e lo rimise nello zaino. Non sapeva quanto sarebbe rimasto tra quelle montagne e per questo doveva risparmiare il cibo.

Sentì dei rami spezzarsi. Si abbassò dietro il cespuglio, estraendo lentamente, dal fodero sulla caviglia, il piccolo coltello a lama fissa. Tra il battere incessante della pioggia sulle foglie attorno a lui, riuscì a distinguere dei passi che si avvicinavano.

"Aspetta che arrivi alla tua portata, aspetta..." pensò, immobile, nel folto del sottobosco.

Attese due lunghi, estenuanti minuti prima di sentire quei passi abbastanza vicini, così da poter colpire.

Con uno scatto, e non poco trambusto, uscì dal suo nascondiglio, impugnando saldamente il coltello, aggredendo la figura che passava vicino ai cespugli. Riuscì ad atterrarlo, ma rotolarono assieme, nella foga della lotta, per dieci metri scarsi in discesa.

Finalmente c'era riuscito: l'aveva messo a terra e gli puntava il coltello alla gola, rimanendo a cavalcioni su di lui per tenerlo fermo.

Scostò il cappuccio della mantella dell'aggredito, così da poterne vedere il volto e ne rimase quasi sorpreso. «Quincy?»

Un paio di occhi chiari lo fissavano increduli, contrariati. Impauriti.

Un brivido di piacere gli percorse la schiena e il sangue gli s'infiammò nelle vene. Aveva ucciso un altro uomo non molto tempo prima, tra quei sentieri, ma una sensazione così intensa ed estremamente familiare non la percepiva da parecchio.

Si passò la lingua sulle labbra e conficcò i denti nella parte interna della guancia, nel disperato tentativo di trattenersi.

Premette di più il coltello sulla pelle e quello a terra mosse la testa per sfuggire alla lama. Si sentiva di nuovo potente in quella situazione come se la paura di colui che aveva bloccato sotto di sé risuonasse dentro di lui e lo facesse vibrare, come la corda di un'arpa.

«Cosa volete ancora da me?», ma l'aggressore non rispose. Affondò il coltello nella pelle sottile della gola e uscì sangue.

«Parla, cazzo!», ma quello si limitò a fissarlo e a serrare ancora di più le labbra. Fu come se i suoi occhi chiari non possedessero più alcuna vitalità. E, purtroppo, conosceva bene quello sguardo vacuo.

«PARLA QUINCY!», ripeté, alzando la voce, ma quello ancora non voleva proprio saperne di parlare.

Gli salì una rabbia intensa, come un'onda calda che non può essere fermata, che gli fece muovere rapidamente il braccio e nello stesso momento un rantolo si perse nell'aria, sovrastato dal rombo del tuono.

Ci mise qualche secondo a riprendersi da ciò che aveva fatto, restando con le mani appoggiate al torace dell'uomo, ascoltandone il battito affievolirsi e i suoi polmoni tentare di aspirare aria per vivere. Si passò il dorso della mano sulla faccia, a pulirsi un impertinente schizzo di sangue che l'aveva colpito, mentre l'odore muschiato della pioggia si mescolava a quello disgustoso e metallico del sangue.

Guardò il corpo esangue sotto di lui e sorrise amaramente al pensiero che, un tempo, quel cadavere era uno dei suoi migliori compagni nella SSB*. Ma se l'era meritato, si disse. Se l'era meritato e lui non provava nemmeno un briciolo di rimorso.

Con un sospiro e uno sforzo esageratamente grande tornò là, dove prima si era riparato. Quel pino, così frondoso, aveva protetto il suo zaino, lasciandolo fortunatamente all'asciutto. Beh, almeno quello. Lui, al contrario era fradicio da capo a piedi e, naturalmente, sporco di fango e con più di qualche abrasione sul corpo. Quello era il prezzo minimo che doveva pagare per aver salvato la propria pelle.

Non era certo la cosa più entusiasmante del mondo essere ricercato da un'organizzazione non governativa per dei crimini che non aveva commesso; e non lo era neppure l'essere ricercato dal Governo per aver combattuto con i ribelli.

L'idea di poter finire di nuovo nelle prigioni della Capitale lo fece rabbrividire, più che non l'idea della morte stessa.

Ma per quanto avrebbe avuto ancora la forza di fuggire?

Tornò vicino al cadavere, sicuro di recuperare qualche vestito, o un paio di scarpe, ma nulla: il sangue aveva già imbrattato la giacca e la maglia. Tentò di togliergli in fretta la mantella, ma, nella foga, la lacerò tra il cappuccio e la saldatura sul collo, rendendola praticamente inservibile.

Continuò a tirare fino a sfilarla del tutto, prese delle foglie e dell'erba a ciuffi e tentò di levare il sangue che era finito sulla plastica.

Non aveva molto tempo, non più ormai, prima che calasse la notte. Tornò all'albero e arrotolò la mantella, infilandola in una delle aperture dello zaino. Se lo caricò con fatica in spalla e si mise a scendere la montagna camminando fuori pista.

Altri inseguitori potevano essere ancora nei paraggi e, di certo, un cadavere fresco di uccisione in mezzo al sentiero non avrebbe aiutato a seminarli.

A parte il breve diversivo, ormai era da più di quattro ore che correva o camminava di buona lena e sentiva le spalle dolere per la frizione con gli spallacci dello zaino.

Il sentiero era ripido e sempre più scivoloso a causa della pioggia. Mise male un piede e la caviglia cedette per la stanchezza. Per evitare la caduta si appoggiò con più forza su uno dei bastoni, spezzandolo a metà per non finire nella scarpata.

Si riprese e vide il suo sostegno destro ridotto a metà della sua lunghezza e lo gettò nel dirupo assieme al sostegno sano con un moto di stizza. O forse era solo la stanchezza e la malasorte che continuava a perseguitarlo da un paio d'anni a quella parte.

Proseguì cautamente, cercando di non caricare troppo peso sulle ginocchia ormai martoriate.

Dopo circa mezz'ora, giunse all'imbocco di una strada asfaltata, saltando da un muro di contenimento del terreno. Gli dolevano i piedi, tanto che all'atterraggio fu percorso da una scossa di dolore. Anche le ginocchia stavano davvero cedendo, bruciando come stessero andando a fuoco. Ormai sicuro che non lo seguissero più, si diresse verso la pianura con passo più tranquillo, prendendo quella vecchia e malridotta strada di montagna.

La pioggia si fece di colpo più intensa e il vento si placò.

Il bosco che lo circondava si diradava man mano che si abbassava di quota e vide che quella era la strada giusta, che correva attraverso sterminate distese di campi, alcuni smossi per essere preparati al sovescio. Vi erano dei paesi in quella vallata, o almeno lo credeva, visto che la pioggia aveva ricominciato più forte e non permetteva di vedere a distanze elevate.

"Regione Verde", la chiamavano, ma in autunno era tutt'altro che verde. Il nome, però, era azzeccato: in effetti quella Zona era la più grande produttrice di ortaggi, frutta e vegetali in genere su tutto il continente. L'aveva letto una decina di anni prima su un vecchio libro scolastico. Gli era rimasto impresso. Si era ripromesso di visitare quei luoghi così belli, ma il sé stesso adolescente mai avrebbe immaginato di girare il continente in quel modo!

Il tempo, in quella Regione, sembrava essersi fermato. Era strano, ma la capitale, Engova, non era ancora stata attaccata dai ribelli o corrotta dalla malavita: aveva la fama di essere un piccolo paradiso. Dicevano anche che il Governatore, fiduciario ed amico di Sua Maestà, reggesse la Regione in modo giusto e severo. Tutti lo amavano e lo ammiravano.

A lui, invece, era toccato nascere nei freddi territori del profondo nord, tra colline brulle e campi coltivati a patate e meleti

Lui, era riuscito a vedere il suo Governatore solo una volta, un ometto longilineo, magro, composto. Corrotto. Gli era sembrato una persona incolore. Come avrà mai potuto il Re dare fiducia ad un individuo similie?

"Chissà come deve essere questa Regione in estate...", pensò, inspirando a fondo mentre osservava il paesaggio, un passo alla volta.

Arrivò ad un incrocio, con tutto il corpo che gli doleva e un buco nello stomaco per la fame. Si voltò e vide le montagne, vicinissime, che salivano dal terreno senza preavviso, illuminate da lampi che spezzavano il grigiore del cielo. Il vento scuoteva le foglie umide come in un applauso smorzato nella sinfonia della pioggia.

Una luce intensa illuminò il cielo e lo schiocco di un tuono riecheggiò fino a fondo valle. Incassò la testa nelle spalle, colto alla sprovvista, mentre il tuono rimbombava nella sua cassa toracica e gli faceva accelerare il battito. La pioggia si fece meno intensa.

Si girò verso un segnale stradale, al centro del crocevia. A destra indicava il piccolo paese di Agra, ad appena un'ora di cammino. A sinistra indicava Parysona, una piccola città, a vederla da quella distanza. Un cartello blu gli suggeriva invece che quello dietro di lui era il Monte Fanan.

Si fermò qualche minuto, il tempo per mangiare ancora un boccone di pane e formaggio e bere una lunga sorsata d'acqua.

Si rimise lo zaino e ripartì, fradicio più di prima, verso alcune luci che iniziavano ad accendersi in lontananza, mentre, a poco a poco, oltre il grigiore delle nubi, calava la sera.

Sarebbe riuscito a riposarsi? Non dormiva come si deve da... Quanto? Aveva perduto il conto delle ore o addirittura dei giorni.

Gli interessava solo scappare, da tutto e da tutti, sperando sempre che, in qualsiasi posto in cui capitasse, nessuno l'avrebbe riconosciuto. Tornò a guardare i campi: sarebbe stato diverso quella volta?

Mille dubbi roteavano nella mente, mille immagini di altrettanti luoghi, di altrettante fughe.

Continuò a camminare, quasi controvoglia, con quella sensazione di un pericolo imminente che aveva cominciato a seguirlo come un'ombra da quando era uscito dal bosco.

Era già buio quando arrivò nel piccolo paese di Agra ed era stanchissimo, tanto da non riuscire quasi a reggersi in piedi.

Trovò un bar aperto, l'unico in quell'agglomerato di case. Entrò nella bettola e si portò vicino al bancone, appoggiando a terra lo zaino e sedendosi sullo sgabello.

«Whiskey...» sussurrò, giusto per farsi capire.

Mezz'ora e due giri di liquore più tardi, se ne stava con la testa reclinata sul braccio, semi disteso sul bancone, ad osservare il ghiaccio nel bicchiere prosciugato: girava il bicchiere, ma il ghiaccio stava fermo sempre nella sua posizione.

Si ritrovò a ridacchiare, perché sembrava l'esatta metafora della sua cazzo di vita fino a quel momento: non importava quando girasse, quanto scappasse. Lui continuava ad essere fermo, nelle medesime situazioni di merda, negli stessi problemi.

La pioggia aveva ricominciato ed ora batteva insistentemente sulla vetrata del bar.

«Ehi! Dico a te! Hai finito di dormire? Qui devo lavorare, vattene!». Il barista lo risollevò momentaneamente dal torpore in cui si era rifugiato.

Si alzò stancamente dal piano del bancone, tirò fuori dalla tasca una banconota e qualche moneta. Contò i soldi, gli ultimi che gli restavano, e li abbandonò alla mercé del barista, mentre scendeva dallo sgabello e con lo zaino su una spalla si avviava all'uscita.

Quando aprì la porta del locale, una ventata gelida gli sferzò la faccia, inumidendogli naso e fronte. Imprecò e si strinse con la mano il collo del maglione, uscendo dal bar.

Cercò di affrettare il passo, ma combatteva ormai non tanto contro il maltempo, quanto contro la sua stessa stanchezza.

La pioggia a tratti era meno forte e gli permise di vedere un piccolo riparo, sotto un ballatoio di una casa fatiscente.

Era ancora sporco di fango dal pomeriggio, i piedi e le gambe gli dolevano in una maniera impressionante, non aveva alcunché nello stomaco, se non dell'alcol scadente, ed era stanchissimo, tanto da non riuscire a reggersi in piedi.

Non sapeva se qualcuno in quel posto avrebbe potuto riconoscerlo come ricercato, ma a quel punto non gli interessava più: voleva solo sedersi o sdraiarsi e riposare, togliersi gli scarponi e camminare a piedi nudi sull'asfalto umido e freddo.

Si riparò sotto l'architrave della porta. Tolse lo zaino e si lasciò scivolare lungo lo stipite.

Dallo zaino prese la mantella e ciò che restava del suo ultimo panino, si mise la mantella come una coperta, per sentire meno il freddo, e finì il cibo in un sol boccone.

Non sapeva che ore fossero, né aveva la benché minima idea di quanto avesse camminato. Si perse tra i mille dubbi che la sua mente gli proponeva, tanto che le palpebre si fecero talmente pesanti da chiudersi e farlo sprofondare in un breve sonno senza sogni.

Il tergicristallo continuava ad oscillare insistentemente e nell'abitacolo l'odore misto di umido e bruciato faceva pensare ancora all'estate.

Nathaniel strinse di più la mano attorno al cambio e pigiò l'acceleratore.

Correre gli piaceva e avvertiva sempre quel lieve formicolio alla bocca dello stomaco quando la velocità aumentava, quando la macchina sfrecciava sull'asfalto e le miglia diventavano così più sopportabili. A volte era tanto preso dal guidare che non pensava a nulla, solo alla strada. Ma vi erano dei momenti, rari, soprattutto quando la radio era spenta, che si ritrovava a riflettere su tante cose. Ripeteva tra sé discorsi fatti, fantasticava su luoghi da visitare, rimuginava sulla propria vita.

La pioggia sul vetro rendeva traballante la vista dei fari delle auto. Amplificava ogni cosa, tranne i rumori. Quelli li sovrastava. Una folata di vento un po' più forte fece oscillare l'auto.

Sbadigliò con la bocca aperta, ovattando per un momento tutti i rumori fastidiosi del veicolo. Stava transitando in una zona militare di silenzio radiofonico: la radio aveva perso qualsiasi segnale, così la spense e continuò lungo l'autostrada, sapendo che tra poco sarebbe sceso da quella macchina.

Continuò a tenere la mano destra sul volante, premendo l'acceleratore più a fondo. Poggiò il gomito sinistro sulla portiera e con la mano si prese la testa, inclinandola. Sbadigliò ancora una volta, esausto dopo il lungo viaggio.

La pioggia cominciò a diminuire d'intensità e, con lei, anche il fastidio alla vista. Cercò di andare più veloce, ma la lancetta del tachimetro sembrava non si volesse scollare dalle ottantacinque miglia orarie.

Dopo un viaggio si trova sempre un posto dove fermarsi, riposando o meno.

Superò in fretta un tir, prima d'imboccare velocemente una corsia di immissione per fermarsi in un'area di servizio. Parcheggiò la berlina vicino all'entrata del bar. Scese ed accennò una corsa per raggiungere la porta e bagnarsi il meno possibile.

Appena entrato si passò la mano tra i capelli chiari e sorrise alla cameriera, avvicinandosi al bancone: «Caffè lungo, per favore.», esclamò alzando l'indice ad indicare la quantità.

Una grassa cameriera sessantenne, avvolta in una divisa arancione, macchiata in più punti e di una taglia sicuramente più piccola, gli posizionò il bicchierino di carta sul bancone, non degnandolo neppure di uno sguardo.

Lo bevve in fretta quel caffè, amaro, quasi scottandosi la gola e con un occhio puntato su un vecchio orologio a parete. Era in viaggio da quasi otto ore, fermate varie comprese. Fece scorrere la lingua sul palato, frugandosi contemporaneamente nelle tasche.

Prima di uscire batté sul bancone due monete, facendo trasalire la cameriera.
Risalì velocemente sulla propria auto e si rimise in strada.

Fu circa venti minuti più tardi che Nathaniel imboccò l'uscita segnata dal navigatore: oltre il casello e un paio di rotonde, la strada si allargava e procedeva nella campagna.

L'unico paio di curve che incontrò le affrontò a velocità sostenuta, nonostante la strada bagnata e piena di buche e pozzanghere.

Un dosso preso troppo malamente lo fece sobbalzare assieme alla macchina, facendogli battere la testa contro il tettuccio con un mugugno di fastidio.

Arrivò ad una grande rotonda e svoltò alla prima uscita, entrando lentamente nel paese.

Forse questa poteva essere la volta buona, si disse, quella in cui sarebbe riuscito a non essere più il nomade della famiglia. Forse sarebbe riuscito a fermarsi in un luogo e a restarci. Forse questa volta non sarebbe stato il solito stronzo.

I fari dell'auto illuminavano i muri al loro passaggio e le strade tra le case si facevano sempre più strette e buie.

Rallentò ad un incrocio e scorse, illuminato dal fascio di luce gialla, un ammasso di vestiti, che pareva sbuffare sotto l'architrave di una casa abbandonata. Si ritrovò a stritolare il volante, indeciso sul da farsi.

L'indecisione durò qualche secondo, giusto il tempo si controllare sugli specchietti che fosse la sua l'unica auto su quelle strade di campagna di un paesino dimenticato dagli Dei. E fu la sua parte istintiva a prevalere.

Azionò le quattro frecce e scese dall'auto: «Ehi! - Ehi tu!», disse a voce alta, in direzione di quell'ammasso informe, che si mosse lentamente. Un ragazzo, infagottato e pallido, lo fissava stancamente.

«Ehi, ti serve una mano, amico?». Quello si mosse, ed un po' di vapore uscì dalle sue labbra, tra un balbettio e l'altro.

«Sì...», disse flebilmente, con la voce resa ruvida dall'umidità e dal freddo.

Si chinò vero di lui. «Come ti chiami?».

Quello non rispose, come se le sue parole si fossero fermate tra le labbra screpolate.

«Non importa... Ti andrebbe qualcosa di caldo da mangiare, ragazzo?». Nathaniel si stava bagnando da capo a piedi. Diede una fugace occhiata all'auto ancora accesa, con i fari puntati su di loro e s'interrogò, forse troppo tardi, sul perché avesse fatto quella cazzata.

Perché di una cazzata si trattava: tentare di raccogliere un senza tetto non era proprio un'idea brillante, ma il suo credere nel destino e nelle coincidenze l'aveva sempre ripagato.

Le sensazioni sono sempre mezze verità.

«Un piatto caldo, mh? Che ne dici?», lo toccò, scuotendolo leggermente, come per accertarsi che non fosse un'illusione o che non fosse moribondo. O malato.

Il barbone annuì.

Oh, sì. Stava decisamente facendo una cazzata!

Nathaniel lo prese di peso e quasi lo trascinò nell'auto, sul sedile posteriore. Caricò l'enorme zaino accanto a lui, rimettendosi poi alla guida.

Ingranò la prima marcia e fece salire di giri il motore, muovendo l'automobile e proseguendo nel tragitto: svoltò tra le stradine del paese un paio di volte e si ritrovò su una via più spaziosa che portava fuori città, imboccando ad un certo punto una stradina di sassi, fino ad una grande cancellata nera in ferro battuto.

«Siamo arrivati. Adesso ci penso io, ti faccio fare una doccia e ti faccio preparare qualcosa di caldo.». Il ragazzo sul sedile posteriore mugugnò qualcosa che poteva vagamente assomigliare ad un grazie. O almeno così gli era parso.

Scese dall'auto in tutta fretta, tentando di bagnarsi il meno possibile, sospirando pesantemente per la stanchezza e le gambe dolenti. Una volta di fronte al campanello, suonò ed attese.

La pioggia si stava lentamente fermando, e forse anche questo era un segno.

Il citofono gracchiò ed una metallica voce femminile lo invitò a varcare la cancellata scura. Nathaniel salì in fretta in macchina, controllando nello specchietto retrovisore il suo passeggero. Ingranò la prima marcia e quasi slittò, accelerando di colpo.

Percorse un centinaio di metri lungo un viale alberato: le foglie cadute, rese umide dalla pioggia, riflettevano la luce giallastra dei fari dell'automobile.

Quando si fermò di fronte all'ingresso principale della locanda, lo accolse un ragazzetto dai capelli rossicci e Nathaniel lo ricacciò indietro in cerca di aiuto per il giovane che aveva raccolto per strada.

Poco dopo, il ragazzino tornò alla porta accompagnato da un uomo imponente, un cuoco, che si stava asciugando le mani sulla casacca bianca, all'altezza della pancia prominente. Era palese che non avesse alcuna voglia di lavarsi sotto la pioggia da capo a piedi, tanto che gonfiò le guance e sbuffò sonoramente, prima di aiutare Nathaniel a tirare fuori il vagabondo dall'automobile e a portarlo nell'atrio della locanda, facendolo sedere su un divano, sulla destra della sala.

Il ragazzino fece vari viaggi per scaricare tutti i bagagli dei due uomini e il cuoco portò un bicchiere di acqua fresca per il barbone: «Dai su, bevi un po'.», fece l'uomo con voce profonda.

Lo sconosciuto prese il bicchiere tremando e se lo portò alle labbra, prendendo un breve sorso. «Grazie.» biascicò.

«Signor...»

«Gavin.»

«Ecco, Gavin...le chiederei la cortesia di preparare una zuppa o altro di caldo al mio amico. Ed avvisi gentilmente la signorina Larson che il signor Watkins è arrivato.».

L'omaccione si allontanò, ciabattando per il corridoio, lasciando da soli i due giovani.

Nathaniel osservava il vagabondo bere ad occhi chiusi, a piccoli sorsi. L'espressione del suo volto quando poi aprì gli occhi era indecifrabile.

Era fradicio, con i vestiti ed il viso sporchi di terriccio e qualche ago di pino incastrato nel maglione umido, i capelli bagnati gocciolavano sulle spalle e la barba scura era imperlata di piccole gocce di pioggia. Emanava un odore misto di umido e sudore, con una punta alcolica. Aveva i capelli di media lunghezza, castano scuro, e la pelle chiara faceva risaltare i suoi occhi altrettanto scuri e due profonde occhiaie violacee. I lineamenti del suo volto sembravano dolci ma la barba incolta pareva invecchiarlo di qualche anno. Non sapeva bene che età attribuirgli, ma pensò che l'avrebbe scoperto presto.

«Grazie, ma... Ma io devo andare...».

«Non se ne parla! - gli mise una mano sulla spalla, ricacciandolo sul divano - Resta seduto e riposati per un momento. Poi ne riparleremo, eventualmente.», fece Nathaniel, autorevole, prima di udire un rumore di passi nell'atrio.

Arrivò una donna in abito scuro e tacchi bassi. Si sistemò gli occhiali, toccando il ponte con un dito e i lucenti riccioli castani ondeggiavano ad ogni passo.

«Buonasera, signor Watkins, sono Ester, la proprietaria.», fece lei, allungando la mano nella sua direzione. La fissò in quei suoi occhi verdi così seri e le sorrise.

La sua stretta decisa lo aveva lasciato leggermente sorpreso e, quando sciolsero quel contatto, colse l'occasione per lasciarle la mano con una carezza insospettabile.

«Mi chiami solo Nathaniel per cortesia. Avrei piacere di cominciare questo sodalizio in maniera informale, se è d'accordo.».

Lei sorrise di rimando: «Posso chiederle... Chiederti se...», ed indicò il ragazzo sul divano con un cenno del capo.

«È un mio conoscente... Se non fosse di troppo disturbo ti chiederei di farlo alloggiare nella mia stanza per questa notte, prima di trovargli una sistemazione adeguata.». La giovane donna alzò un sopracciglio, con aria interdetta.

«Va bene. Se mi vuoi seguire, ti mostro il tuo alloggio per questa notte. Ti dovrai accontentare di una delle stanze nel piano interrato: al momento i piani superiori sono tutti pieni. Domani un paio di ospiti se ne andranno e potrai trovare una sistemazione decisamente più comoda. - sorrise lievemente - Seguitemi.», disse, avviandosi verso delle scale.

I suoi modi e la tranquillità nel suo tono di voce facevano trasparire una calma ed una sicurezza innata.

Nathaniel prese sottobraccio il ragazzo, facendolo alzare e seguendo a distanza la padrona di casa verso il piano inferiore. Non riusciva a togliere lo sguardo dai suoi fianchi, era più forte di lui.

Le scale scendevano e terminavano in un breve corridoio ben illuminato, su cui si affacciavano quattro porte candide. Tutto era stato studiato per rendere l'ambiente otticamente più grande e luminoso.

Accesero la luce nella prima stanza sulla destra, chiara e spaziosa. Un letto moderno a due piazze occupava la parete di fondo. Accanto a questo una cassettiera ed una scrivania. Dall'altro lato una porta semiaperta lasciava intravedere le piastrelle di un bagno. Vicino alla porta un divano, un televisore e l'armadio. Sembrava quasi un miniappartamento.

«Allora... - esordì Ester - il letto è pronto e nell'armadio trovi coperte e cuscini in più, se servono. Nella cassettiera ci sono lenzuola di ricambio, asciugamani puliti, un paio di tappeti per il bagno ed un phon se ti dovessero servire. Nella parte bassa del mobile del bagno potrai trovare secchio, spugne e detersivi. Dietro la porta ho fatto lasciare scopa e mocio per ogni evenienza. Sul comodino il telefono ha una lista di tutti i numeri interni; se devi fare chiamate esterne basta digitare zero prima del prefisso. Penso che sia tutto...», ridacchiò.

Nathaniel si guardava intorno ad ogni indicazione che riceveva, spostandosi con calma per la stanza, dopo aver fatto accomodare il vagabondo sul divano.

«Vi informo che nella camera qui di fronte dorme il nostro cuoco, Gavin. Ma ho capito che vi siete già conosciuti. Qui accanto Mark, il nostro garzone che hai conosciuto appena arrivato e sua madre Aurora, la nostra cameriera ai piani. Alloggiano qui solo quando abbiamo molto lavoro, di solito la stanza è sempre libera perché abitano in paese. La stanza in fondo a sinistra invece è occupata da Roman, il nostro tuttofare che credo stia già riposando e che spero tu possa conoscere già domattina.».

«Grazie mille. Credo che poi io e il mio amico torneremo su per mangiare qualcosa. Mi sono permesso di allertare... Gavin? Giusto? Perché ci preparasse qualcosa di caldo.».

«Hai fatto bene, non preoccuparti. Non ci sono problemi. Fate pure con comodo: immagino che il viaggio sia stato parecchio stancante. Mark ha portato qui tutti i vostri bagagli, per cui non vi disturbo oltre. Nel caso, ci vedremo in sala da pranzo per definire gli ultimi dettagli. A presto.», sorrise e se ne andò, chiudendo la porta dietro di sé.

Nathaniel rimase qualche istante a fissare la porta bianca. "Sesto senso." Si ripeté.

Il giovane vagabondo guardava il biondino senza dire una parola. Gli era immensamente grato per quello che stava facendo per lui, così, senza alcun motivo.

«Tu ce la fai a reggerti in piedi? A lavarti da solo? Oppure hai bisogno di una mano?».

Annuì, sollevandosi lentamente dal divano e spostandosi verso il proprio zaino, aprendolo e rovistandoci dentro, alla ricerca di indumenti puliti.

Mentre tutte le sue cose, sgualcite, umide o rovinate, finivano sul pavimento, una mano si tese verso di lui: «Lascia stare e prendi questi. Sono miei, ma dovrebbero andarti bene. Fai un mucchietto in bagno con la tua roba così te la faccio lavare.».

Il giovane vagabondo prese gli indumenti con una certa riluttanza: «Perché lo fai?».

Nathaniel si strinse nelle spalle.

«Sinceramente non lo so. - allargò le braccia - Prendi ciò che viene e non farti troppe domande. Ti attendo di sopra quando sei pronto.».

Si guardarono. «Grazie, allora.», gli fece con voce tremula, prima di vederlo chiudere la porta della stanza.

Il ragazzo moro rimase qualche istante a fissare la porta bianca, per poi dirigersi in bagno.

Si sfilò il maglione dalla testa, gettandolo infastidito a terra. Continuò a spogliarsi meccanicamente, finendo per fissare la sua immagine riflessa nello specchio. Dimagrito, contuso, sporco e affamato. Barba lunga e incolta e due aloni violacei sotto gli occhi. Stentava a riconoscersi. Sbatté più volte le palpebre quando si accorse che il gioco di ombre sul suo viso gli stava facendo vedere un mostro.

Si infilò sotto il getto dell'acqua calda e ci rimase per un tempo indefinito, avvolto da una nube di vapore, con gli occhi serrati e la faccia rivolta al soffione della doccia.

Un mostro tenuto sottochiave.
Questo pensava di sé stesso mentre le mani passavano lo shampoo tra i capelli annodati, impigliandosi tra l'unto e lo sporco che, pian piano, venivano lavati via dall'acqua bollente.

Passare la saponetta sui graffi e sulle botte era più doloroso del previsto, ma togliersi di dosso la sporcizia e il fango non fu mai così appagante, come in quel momento.

Dopo essersi lavato e vestito continuò a rovistare nello zaino, svuotandolo del tutto sul pavimento di legno chiaro. Tra i sacchetti delle poche cose ancora asciutte che aveva ritrovò la sua semiautomatica e qualche munizione. Si affrettò a rimetterla nello zaino, tra le pieghe del sacco a pelo, ricacciando sul fondo. Si rialzò a fatica, i muscoli delle gambe dolevano ancora e, nonostante la doccia bollente, i suoi piedi erano freddi e doloranti. In un sacchetto trovò un paio di calzini spessi. Li annusò per capire se potessero andare e poi se li infilò.

Guardò il letto, combattuto se sprofondare in un sonno ristoratore su un vero materasso dopo... Mesi? Oppure ascoltare il suo stomaco e avventurarsi al piano superiore, rischiando mille domande da parte di quel ragazzone biondo.

Sospirò mettendo una mano sulla pancia gorgogliante, pronto a dirigersi verso la porta mentre sbadigliava sonoramente.

Ad ogni passo i piedi gli dolevano. Si resse al corrimano delle scale per paura di cadere all'indietro, esausto com'era.

Il pavimento dell'atrio era gelido e i calzini non lo proteggevano affatto.

Stranamente ciò che aveva vissuto quel pomeriggio gli sembrava un sogno distante: i chilometri fatti di corsa, la paura di essere ucciso... Dopo quella doccia tutto pareva svanito come fumo. Improvvisamente si rese conto di avere i piedi martoriati, le ginocchia che parevano di fuoco e un sacco di altri piccoli dolori sparsi per tutto il corpo. Quasi si stava pentendo di non aver preferito il materasso!

Si mise a scivolare leggermente, come fanno i bambini, trovando un po' di sollievo. Passò l'area del bar, deserta a quell'ora e varcò la porta della sala da pranzo. Era tutto bianco, luminoso, immacolato. Tutti i tavoli già predisposti per la colazione. Tutto così pulito ed ordinato. Si fermò ed aprì lievemente le labbra, impressionato dal sentirsi tanto fuori posto in quel luogo. In un angolo scorse due figure sedute ad un tavolo e si avvicinò a loro.

Ester si sporse appena lo vide comparire. Aggrottò le sopracciglia. Nathaniel si voltò, tenendo la tazza in mano. «Vieni pure!», lo esortò con voce ferma.

La donna si alzò lentamente: «Se tu credi che possa tornarci utile, posso provare a fidarmi. - continuò lei a bassa voce - In fin dei conti ti abbiamo chiamato per facilitarci le cose. Sono molto contenta che tu abbia accettato e spero tu non te ne penta.». Lui le lanciò uno sguardo divertito. «Non lo farò.».

Il vagabondo si trascinò al tavolo e fece un sorriso mesto a entrambi.

Ester si accomiatò con un sorriso che assomigliava più ad una smorfia infastidita, poggiando una mano sulla spalla di Nathaniel: «Avviso Gavin di portare la cena.». Il biondino si voltò lentamente mentre lei si allontanava: il  sopracciglio sinistro saettò verso l'alto ed abbozzò un sorriso, osservandole il fondoschiena.

Il moro si sedette con un sospiro di profonda stanchezza: era più che convinto di essere una presenza scomoda in quella locanda e la naturale diffidenza della proprietaria non lo aiutava a convincersi del contrario. Sbadigliò, stropicciandosi gli occhi, ritrovandosi poi ad osservare colui che l'aveva salvato dalla pioggia e dal freddo.

I capelli biondi, mossi e scompigliati, ricadevano sulla fronte ampia, coprendo leggermente le rughe che si erano formate sul viso, scarno e con gli zigomi un poco sporgenti, e gli indurivano ancora di più l'espressione. Dietro le lenti, gli occhi color miele parevano opachi quando il giovane era impegnato a leggere i vari fogli, scritti molto fitti e molto in piccolo. Con gli incisivi si torturava una pellicina sulle labbra.

«Nathaniel?»

«Solo Nath, per favore.» e, a quell'occhiata sfuggente, il moro deglutì a vuoto.

«Nath...io...Come posso sdebitarmi con te?», chiese con voce stanca, pronunciando quelle parole con un solo debole respiro, come se temesse la risposta.

Nathaniel non mosse la testa, limitandosi ad un'altra occhiata sfuggevole da dietro la montatura scura degli occhiali: «Ci penseremo domani.».

Il cuoco entrò nella sala con una bistecca e delle verdure grigliate, posandogliele praticamente sotto al naso. «Buon appetito!», borbottò con voce grave mentre si allontanava.

Il moro inspirò profondamente quel profumo, la salivazione aumentata e un vuoto fastidioso nello stomaco alla vista di quel pezzo di carne sugoso e fumante. Da quanto non faceva un pasto così?

Nathaniel versò dell'acqua nel suo bicchiere e spinse uno dei calici di vino rosso sotto il suo naso, sorridendogli con espressione serena.
«Beh...buon appetito!», gli fece, toccando appena il calice di vino dello sconosciuto col proprio. Il moro s'irrigidì sulla sedia, dissimulando quel sentimento di terrore che si era impossessato improvvisamente di lui appena aveva incrociato lo sguardo di Nathaniel: quei suoi occhi ambrati lo stavano torturavano lentamente ogni volta che si posavano dentro ai propri.

«Tu? Non mangi?», ebbe il coraggio di chiedere.

«Tranquillo, ho già cenato ore fa.» e gli sorrise benevolmente, in una maniera che lo rese confuso, prima di vederlo tornare con l'attenzione ai fogli che stava controllando poco prima.

Si stava sforzando di non divorare il suo pasto troppo in fretta, cercando di mantenere un certo contegno, tagliando pezzi piccoli di bistecca e verdure, centellinando quel pasto.

Prese una fetta di pane e la addentò, sotto lo sguardo attento di Nathaniel, che aveva ben colto tutto il disagio del vagabondo.

«Posso sapere chi sto ospitando?».

Il moro quasi si strozzò con un boccone, ricorrendo al bicchiere d'acqua, vuotato in un'unica soluzione.

Una domanda così diretta non se l'aspettava e non avrebbe mai voluto che qualcuno indagasse sulla sua vita, ma era una cosa che avrebbe dovuto mettere nel conto della situazione in cui si era trovato. «Logan... Il mio nome è Logan.».

« Perdonami – e posò la penna- ma quando sono allo stesso tavolo con qualcuno, mi sembra scortese non parlare un po'... Non trovi che sia imbarazzante certe volte?»

Logan annuì, il boccone masticato con calma, perché sentiva la nausea bloccargli lo stomaco. .

«Quindi? Da dove vieni Logan? Non sento alcun accento particolare né inflessioni...».

Trasse un profondo respiro e si fece coraggio nel rispondere al suo soccorritore: «Vengo da una piccola città del Nord...»

«Nord? Ho degli amici al nord, verso Cathynaea...tu di dove sei?».

«Io-». Tenne chiusa la bocca per un istante per evitare di balbettare, spostando con i rebbi della forchetta un pezzo di peperone troppo cotto. «Stavo vicino ad Anglitras, in un piccolo paese di campagna...- fece una lunga pausa - Non era molto diverso da quelli qui attorno.».

«Era?», lo incalzò Nathaniel e Logan abbassò il capo, osservando i residui di cibo che giacevano nel piatto.

«È diventata zona di conflitto. Credo che a stento riuscirei a riconoscere casa...», rispose tristemente, sentendo il cuore stringersi nel petto per evitare di finire in vecchie voragini d'oscurità.

Nathaniel lo guardò per un momento, sorpreso. Il tono con cui aveva fatto quell'affermazione era così malinconico, che gli fece provare una certa compassione. Probabilmente gli mancava molto la propria famiglia e forse la guerra aveva cambiato tutto anche lì. Il paesaggio, le città e, soprattutto, le persone.

Giocherellò nervosamente con la penna tra le dita, cercando di dire qualcosa che lo potesse mettere a proprio agio: «Ah... Così anche tu sei forestiero! Io vengo dal Sud, ma ho sempre viaggiato molto. Sai... per diletto e per lavoro. Diciamo che ormai sono un vagabondo... - sorrise - Un po' come te, in questo momento.».

Logan si bloccò con la forchetta in bocca per un istante. Quel suo sorriso tranquillo tra le labbra sottili lo magnetizzava, non sapeva bene come, ma ne era quasi ipnotizzato. Chiuse un momento gli occhi e ricacciò da dov'era venuto un pensiero ridondante, perché quegli occhi color miele, ricchi di una strana curiosità, gli stavano facendo crescere nel cuore un fastidioso sentimento di fallimento.

Sia il cervello (incapace di razionalizzare quello che gli era capitato nelle ultime dodici ore) sia il cuore, si erano accordati per giocargli un brutto tiro e fargli vedere cose che non esistevano. Fantasmi che tornavano a giudicare severamente ogni respiro che lasciava i suoi polmoni.

Ad un tratto Nathaniel si alzò, raccogliendo con perizia i documenti su cui stava lavorando: «Credo che andrò a lavarmi. Ti lascio finire con calma. Quando hai voglia, io ti attendo in camera.», fece, allontanandosi elegantemente e lasciando Logan ai propri pensieri.

Si ritrovò nuovamente solo.

Solo  come sarebbe sempre stato, lo stomaco sottosopra, il cuore pesante e la testa persa nel ricordo di una vita tranquilla, una versione fantastica che non sarebbe stato in grado di trovare nella realtà.

Chiudendo ancora gli occhi rivide la schiena di sua madre intenta a preparare la cena ed il rumore pesante del passo del padre. La risatina fastidiosa di quella peste di Anika. Prese un profondo respiro e gli parve di sentire il profumo di casa, del muschio sulle cortecce, dell'aria fredda nei polmoni. Trattenne le lacrime.

Finì di controvoglia il pasto: lo stomaco, pur mezzo vuoto, si era irrimediabilmente chiuso a quella rievocazione del passato. Raccolse i piatti e si diede alla ricerca della cucina. Quando la trovò, vi entrò con discrezione, salutando il cuoco che stava finendo di pulire.
«Era davvero buono, la ringrazio.».

Quello borbottò qualcosa di rimando, avvicinandosi per prendere i piatti e lavarli, lasciandolo interdetto. Si strinse nelle spalle e si allontanò, un po' deluso dalla reazione del cuoco. Anche se l'ora era tarda e aveva lavorato più del dovuto, Logan sperava comunque in una parola amichevole, ma forse era troppo presto anche per quello.

Tornò verso l'atrio, guardandosi un po' attorno, spaesato, dando tutto il tempo al suo "salvatore" di sistemarsi al meglio dopo quello che, forse, era stato un lungo viaggio.

Più ripensava a Nathaniel, al calore umano provato all'improvviso per un gesto gentile ed inaspettato, più si ritrovava agitato, di nuovo in allerta, forse più sospettoso del dovuto.

Si chiese se lo avessero riconosciuto o se avessero già allertato la polizia e stessero solo prendendo temp-

Trasalì sentendo la porta sbattere e qualcuno pulirsi le scarpe rumorosamente sul tappeto in entrata. Si nascose istintivamente, cercando di capire chi fosse arrivato a quell'ora tarda.

Un'ombra rossa corse verso la sua direzione e lui si accovacciò nella penombra delle scale per non farsi vedere. Da come la figura in rosso si muoveva, dava l'impressione di essere una ragazza, non molto alta, ma sicuramente molto, molto in ritardo, a giudicare dalla fretta e dal fiatone. Mentre percorreva le scale due gradini alla volta fino ai piani superiori, si lasciò dietro un lieve aroma di pioggia e arancia. E Logan si ritrovò a tirare un sospiro di sollievo.

Si rese immediatamente conto che non fosse proprio il caso di avventurarsi di notte per la locanda e cominciò a scendere le scale e ad avviarsi verso la stanza che gli avevano assegnato.

Con sua grande sorpresa trovò Nathaniel seduto alla scrivania, intento a leggere nuovamente dei documenti, probabilmente importanti, a giudicare dalla sua espressione accigliata. Qualche ciocca gocciolava sulla maglietta grigia.

«Non stare lì impalato! - esclamò il biondino senza voltarsi - Entra. Buttati a letto che devi essere esausto.».

«Mi basta il divano...». Quello si voltò, poggiando il gomito sullo schienale della sedia, guardandolo con espressione truce: «Tu userai il letto. - il suo tono era quasi arrabbiato, scandendo le parole per farsi capire meglio - Io dormo sul divano. Questa sarà la tua stanza anche per i giorni a venire, io domani me ne andrò. Non fare storie. Io vado a fumarmi l'ultima sigaretta...», si alzò dalla scrivania, afferrando pacchetto e accendino accanto a lui, costringendo Logan a lasciargli il passaggio verso l'esterno della stanza.

Solo quando Nathaniel fu uscito, Logan trovò la forza di andare in bagno e sistemarsi per la notte.

Appena si distese a letto, con le coperte tirate su fino al naso, tutta la tensione residua, l'adrenalina che ancora gli circolava in corpo lo abbandonarono all'istante, quasi nel tempo di un sospiro, facendogli sentire gli arti pesanti come un macigni e costringendolo a crollare in un sonno profondo, quasi come se fosse svenuto.





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* SSB=Special Service Brigade

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