6. La Fortuna e il Mare ~ Estesa e rivista
C'era un ragazzo con i piedi ben piantati a terra e nessuna intenzione di prendere il largo. Suo padre gli aveva insegnato che, lavorando sodo, avrebbe avuto la pancia piena e un tetto sopra la testa, così si era impegnato per imparare lo stesso mestiere.
La sua famiglia aveva una piccola casa e dei campi, su una delle tante distese verdi che si gettavano a strapiombo sul mare. Lì, usavano l'aratro e badavano alle quattro capre che possedevano.
Era cresciuto con il canto dei gabbiani nelle orecchie e poche pretese. C'era abbastanza amore nella sua vita, perché potesse sopportare quotidianamente il sole cocente e la fatica.
Il suono delle onde che s'infrangevano sulla roccia lo cullavano nel sonno e lo aiutavano ad abbandonare le difficoltà della giornata. Era un ritmo così ipnotico, seducente e calmo, che una notte finì per portarsi via persino sua madre. Si gettò dalla scogliera e divenne spuma, come in una poesia lacerante.
Toccò a lui leggere il biglietto al padre analfabeta e la voce gli tremava, mentre le lacrime scendevano. Aveva lasciato scritto che lo faceva perché era triste e voleva che quel sentimento affondasse, liberandola.
Distrutti, attesero che il corpo li venisse restituito pazientemente, ma ogni giorno cresceva l'odio per quell'acqua infame ed egoista, che non voleva renderglielo.
Mentre lui si nauseava a respirare la salsedine, a sentire la brezza sul viso bruciato e si ancorava sempre più alla terraferma, suo padre affogava il dolore nell'alcol. Il vino era la sola cosa a dargli conforto, ormai.
Smise di aspettare assieme al figlio, ma continuò a bere alla taverna. Si fece sempre più incauto e spavaldo, finché azzardò con la fortuna, come se pensasse che dopo quella tragedia lei gli fosse dovuta.
Una sera si sedette di buon umore al tavolo dei dadi e cominciò a scuoterli. Ogni sera, un lancio dopo l'altro, i pochi soldi nelle tasche sparirono; disse addio alle loro affezionate capre; non ci fu più terra da coltivare. Alla fine, restarono senza la casa sulle ripide e verdi coste.
Qualche mese dopo, l'unica cosa che rimase al ragazzo, fu il corpo pesto e senza vita di suo padre, un mucchio di debiti e il paio di dadi maledetti che ancora il cadavere teneva stretti in pugno.
Lo seppellì sulla scogliera da cui sua madre si era gettata, immaginando avrebbero voluto entrambi così. Sulla loro tomba posò dei fiori per lei e versò del vino per lui.
In ginocchio, mormorò qualche parola di addio, si asciugò gli occhi e si mise in tasca quei due piccoli strumenti di miseria, per non dimenticare quanto fosse stata fragile la loro felicità in quel luogo. Era tempo di far vedere alla Fortuna quanta strada poteva fare con la iella addosso.
Prese il sacco con le sue poche cose, gettandoselo in spalla. Guardò l'orizzonte e una strana sensazione gli animò il petto, infondendo forza al pugno. In quel momento lo giurò: si sarebbe ripreso tutto ciò che il mare gli aveva portato via e di più...
"Devi sentirti fortunato Henry. Diversamente da tanti tuoi coetanei, che se ne vanno al molo, la nostra terra ci riempie tanto la schiena di fatica, quanto la pancia di buon cibo!"
Mia madre me lo ripeteva sempre, ma non mi aveva spiegato quanto fosse dura la vita da randagio. Non mi ero mai dovuto porre il problema, ma ormai non possedevo più nulla e non ero benedetto abbastanza per affidarmi al caso.
Sebbene l'odore del mare mi rivoltasse le budella, mi ero diretto al porto più vicino anch'io, convinto che laggiù servissero sempre braccia giovani e robuste in cerca d'opportunità.
Avevo sottovalutato la mia cattiva stella. Una brutta tempesta aveva fatto attraccare le navi altrove e al mio arrivo non ne trovai nessuna. Non c'era alcun pullulare di vita al mercato, solo tante lamentele e imprecazioni.
I giorni passavano, ma nessuna vela compariva all'orizzonte. Nel frattempo, me ne stavo fuori a vagabondare, in cerca di qualcosa di commestibile tra gli scarti putridi, come qualsiasi miserabile disperato.
Mi sembrava di impazzire: più cibo desideravo e meno ne trovavo; quando speravo intensamente che un carico giungesse, le nubi tempestose aumentavano; quanto più elemosinavo, tanti sputi in faccia ricevevo.
Mentre accarezzavo con le dita i chicchi incisi su ciascuna faccia dei miei dadi, mi sembrava che la iella non l'avessi più solo in tasca, ma addosso. Per quanta rabbia potessi provare e per quanta determinazione avessi avuto, in quel momento, mentre me ne stavo seduto contro uno degli ormeggi, troppo debole anche solo per pensare, ero convinto che quella maledizione si sarebbe portata via anche me.
Ero completamente arreso al fato, incapace di chiedere altro se non morte, quando sentii un piccolo tonfo. Un pezzo di pane era appena caduto dal cesto di qualcuno e io non esitai ad arraffarlo con entrambe le mani e a divorarlo. Nessuno venne a reclamarlo o a colpirmi e, mentre masticavo incredulo, ebbi un'epifania.
Decisi di testarla. Mi rimisi in piedi e iniziai a desiderare intensamente temporali, cosicché nessuna nave attraccasse, e sbucò il sole. Sperai il più possibile di rimanere nullafacente, affamato e povero, ma arrivò un grosso peschereccio ed ottenni tutto l'opposto.
Capii: la fortuna poteva avermi anche abbandonato, ma la sventura restava mia fedele compagna e dovevo fare di lei il mio strumento per sopravvivere.
Gli esperimenti procedevano bene. Ero riuscito addirittura a procurarmi una camera alla taverna, però non mi bastava. Volevo farla pagare a troppe casualità per accontentarmi e, una sera, ebbi modo di prendermi la mia rivincita anche sul gioco che aveva fatto ammazzare mio padre.
Mi sedetti al tavolo a osservare le puntate. I dadi da sei venivano lanciati a turno e ognuno scommetteva sui propri numeri prima del tiro, che poteva avvenire con uno, due o tre contemporaneamente.
Tra grida e oscenità, tuttavia, una voce vellutata attirò la mia attenzione, rivelando il viso di una giovane donna che poco aveva da spartire con gli ubriaconi lì presenti.
Fece cenno di volerne usare due e puntò: «Sei chicchi su dodici!»
Quando si abbassò il cappuccio, la pelle d'ebano risplendette alla luce delle lanterne, mentre i suoi capelli, tentacoli d'inchiostro, catturavano la mia totale attenzione. Mi sembrò una creatura magica, uscita dalle profondità degli abissi per ammaliare i marinai del porto con due perle al posto delle sclere.
Non avevo mai scritto o letto poesie in vita mia, ma fu lì che il mio cuore partorì la sua prima rima. Ero stregato dal mistero di quella donna e come ogni stolto, sedotto ed inesperto, provai l'intenso desiderio di averne le attenzioni. Tuttavia, capii in fretta di non essere io l'oggetto del suo sguardo.
La sua preda era il giocatore con il borsello più grosso, che fino a quel momento si era tenuto in disparte. Aveva una faccia emaciata e apparentemente innocua, ma marchiata con il simbolo della prigione di Fort Brambles. Durante la mia permanenza al molo, avevo imparato diverse lezioni, fra cui quella di tenersi alla larga da quelle "B". Invischiarsi con loro, equivaleva a finire in un rovo di spine: uscirne indenni era pressoché impossibile.
Non ero sicuro che sarebbe rimasta incolume dopo quella partita a dadi. La sua bellezza esotica e il suo sguardo fiero avevano attirato l'attenzione di gente molto meno rispettabile di me.
«Ti sfido per l'oro che hai rubato e per l'onore che hai tradito!»
Le sue labbra, carnose come la polpa di un frutto maturo, dichiararono il suo intento senza esitazione. Subito si levò un agitato vociare attorno al tavolo da gioco. Io, per primo, fui stupito da quanto stava accadendo.
Quando l'uomo si avvicinò, gli altri fecero un passo indietro. Non volevano guai e non potevo biasimarli, date le premesse. Un ghigno spavaldo si era sostituito alla sua iniziale sorpresa, non promettendo nulla di buono.
«Come ti permetti di darmi del ladro? Queste monete le ho avute in cambio dei miei servizi.»
L'interesse dei presenti volò da lui a lei in un baleno, quasi la platea, dapprima intimorita, si fosse appassionata a quanto stava capitando.
«Taci, baro d'un mercenario. C'hai venduto! Voglio la verità...»
Rivelò, ringhiando come una belva ferita, tirando fuori da sotto il mantello una pistola a pietra focaia. La taverna si svuotò immediatamente alla vista dell'arma, alla stregua di un formicaio durante un acquazzone. L'oste si barricò in cantina, portandosi dietro l'incasso e il moschetto. L'idea di usarlo per far cessare i due non pareva averlo sfiorato.
Quella scena scatenò le risate del giocatore misterioso.
«Ottima mossa. Se lo scopo era quello di appellarti alla Fortuna per benedire questa partita, temo che non ci sia più nessuno per compiere il rituale.»
Quella frase accese il mio interesse. Sapevo che c'era una pratica usata tra manigoldi ed imbroglioni, per assicurarsi il rispetto degli accordi. Era con il gioco d'azzardo che certa gente risolveva "pacificamente" le proprie controversie: il rito rendeva ogni posta messa sul piatto vincolante, pena la vita.
Sospettavo che anche mio padre ne fosse stato vittima, ma avevo due sole certezze: ero l'unico rimasto alla taverna e volevo sapere.
Purtroppo, come uno sciocco, mi ero fatto spavaldo. Il trambusto e il profumo di donna mi avevano fatto dimenticare che la iella se ne stava appollaiata sulla mia spalla. Percepiva ogni mio sussurro e pensiero, per rivoltare le mie debolezze contro di me ed io mi ero esposto. Tuttavia, come sempre, a farmi dannare non fu lei, ma la Fortuna...
Era sorto un nuovo giorno, quando facce sconosciute e consumate dal sole, mi risvegliarono con una secchiata d'acqua salata. Sputai e imprecai, confuso e spaesato, ma riconobbi subito quel sapore maledetto, che mi faceva rivoltare le budella. Il dondolio costante sotto il mio corpo e il suono delle onde, dei gabbiani e del vento non mi lasciavano dubbi, ma parecchie domande.
Mentre gli occhi e ogni altra parte esposta del mio viso bruciavano come l'inferno, sentii il gran trambusto che avevo generato.
«Presto! Presto!»
«Il ragazzo è sveglio.»
«Correte a chiamare il Capitano Morgan!»
La testa mi girava e un fastidioso fischio mi ronzava nelle orecchie. Provai a mettermi in piedi più volte, ma finii rovinosamente a terra, totalmente privo d'equilibrio. Non ero fatto per navigare, ogni fibra del mio corpo ne era consapevole. A quel punto, feci l'unica cosa possibile e aspettai, fiducioso nella mia sventura.
Quando scorsi la sconosciuta che mi aveva ammagliato alla taverna, avvicinarsi a me con l'atteggiamento spavaldo di chi non teme nulla a bordo della sua nave, compresi di essermi perso più di qualcosa attorno a quel maledetto tavolo da gioco.
«Sei ancora vivo. Sorprendente per qualcuno che è stato abbandonato dalla Fortuna e scaraventato con tale violenza lontano dal rituale...»
Abbassai lo sguardo, vergognandomi per la mia ignoranza. Non potevo offrire alcuna garanzia durante il mio giuramento di rito, nessuna fortuna alla dea, e per questo non avrei potuto vegliare su quella altrui. Se lo avessi saputo, non mi sarei mai offerto volontario.
Di colpo, la dolcezza nella sua voce si tramutò in disprezzo.
«Hai idea della fatica fatta per rintracciare quel bastardo!?»
Seppur dolorante, il volto smunto del mercenario mi balenò alla mente e capii di cosa mi stesse accusando. Scossi la testa, sperando che non proseguisse in quella direzione, ma il suo sorriso si fece spietato.
«Ricapitoliamo: un signor Nessuno che casualmente si trova alla taverna e non fugge alla vista della mia pistola. Qualcuno che addirittura si offre volontario per il rituale, ma che sfortunatamente lo manda a rotoli, permettendo a quell'infame di scappare. Eravate d'accordo, non è così!?»
Alzai la testa in cerca d'aria per replicare e, finalmente, notai la Jolly Roger nera con il disegno di un teschio e dei fiori. Quando incastrai nuovamente i nostri sguardi, il suo volto sembrava divertito dalla mia espressione.
«Signori! Credo che il nostro ospite debba proprio provare il ballo riservato da noi narcisi a chi deve sciogliersi la lingua...»
La proposta venne accolta a gran voce dalla ciurma della Narciso, che subito cominciò con i preparativi, sballottandomi tra nodi e cime, impazienti di assistere al giro di chiglia che mi attendeva.
Quella danza sarebbe potuta finire molto male. Le "piroette" che mi venivano richieste prevedevano che fossi appeso per i piedi e gettato in acqua, mentre la ciurma scalpitava a ritmo sul ponte per farmi riemergere dall'altro lato. Si poteva finire solo maciullati a strusciarsi contro la chiglia di una nave e, mentre il sale marino ti divorava le ferite, quasi sempre te ne andavi al creatore.
Tuttavia, se sono qui a raccontarvelo significa che la mia sventurata buona stella non mi lasciò nemmeno in quell'occasione.
Fu un fulmine prorompente, atterrando sull'orizzonte limpido, a dir loro di rimandare i festeggiamenti. La tempesta in arrivo divenne la sola priorità: chiunque abbia preso la via del mare sa come niente unisca gli uomini che tirano una dannata cima, più del rischio di finire a picco...
Forse, ora vi sarà più semplice immaginare il perché sia finito qui, proprio a Fort Brambles, con un confessore annoiato nella mia cella ed un cappio pronto per essermi macchiato del reato di pirateria.
Vorrebbero che vendessi il mio Capitano e raccontassi loro della Narciso, ma non hanno idea che entrambe le cose per me significhino casa, ormai. Ne ho già persa una e non c'è prezzo che possano offrirmi per impedirmi di proteggere quella che ho adesso.
Il sacerdote che hanno chiamato non riesce nemmeno a guardarmi, anzi, quando sono io a fissarlo sussulta e bacia il suo amuleto, bisbigliando qualche formula. Probabilmente, crede che la mia iella possa saltargli addosso ed è un peccato che non funzioni in questo modo.
Per diventare un maledetto come me, la fortuna la devi impegnare e perdere, anche se io resto pur sempre un'anomalia, destinata in origine a morire di stenti sullo stesso molo dove ho conosciuto la vita dei marinai.
Grazie a Morgana, nome che suo padre le diede per ovvie e narcisistiche ragioni, avevo cominciato a unire tutti i pezzi: qualcuno la mia sorte l'aveva presa con l'inganno e, lentamente, il pensiero che ci fosse un avido collezionista dietro a questi furti si era insinuato tra le mie certezze.
Sapete, il bello della fortuna è che è estremamente appariscente in un individuo: suscita ammirazione, invidia e chiacchiere, specie quando pare essere ricorrente e concentrata.
La mia presenza in questa prigione non era un caso, così come la mia offerta di cantare, se il suo omonimo e ricco proprietario, Lord Brambles, mi avesse degnato di una visita.
Onestamente, dubitavo sarebbe sceso nei bassifondi, ma alla fine sono riuscito ad attirarlo qui con ciò che potevo rappresentare per lui: la prova vivente dei suoi raggiri contro la Fortuna.
Mentre il mio ultimo desiderio viene esaudito ed egli mi concede udienza, il mio intero essere è proteso a bramare ardentemente l'opposto di ciò in cui spero: che la mia vita volga al termine, che il mercenario della taverna non accetti la mia offerta per guidare la ciurma della Narciso dentro la prigione e che il padre di Morgana, il primo Capitano Morgan, sia già stato giustiziato.
Che la iella ci benedica!
************ Fine ************
Round Finale ~ 🎖️
Premio speciale: "Protagonista più singolare."
Conteggio parole: 2500
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