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Capitolo 8 - maledetto bastardo

6.11.2007
Ore 11,30

Il mio ufficio è un via vai di auror, medici e giornalisti di fiducia.
Sembra che il caso del Victoria Park, nel piano centro di Bristol, sia del tutto simile a quello di Hide park, nel quartiere di Bayswater, avvenuto cinque giorni fa qui a Londra.
Quindici persone uccise.
Solo maghi e streghe.
Che, chiaramente, presentano gli stessi sintomi di avvelenamento.
Mi scoppia la testa.
Sento le teorie più improbabili farsi strada tra le urla.
Ognuno difende la propria idea, con tutta l'enfasi che riesce a trovare.
Tutti si assicurano che io li stia guardando, prima di lanciarsi in arringhe spericolate.
Volte solo ad accrescere i loro ego già piuttosto ridondanti.
Non sopporto più nessuno.
Mi avvicino ad Harry che sta tentando, con scarsi risultati, di far ragionare quella che deve essere una medimaga, sul fatto che non può essere un semplice malore causato dal troppo sole che in questi giorni si è abbattuto sull'inghilterra.
Sono degli inetti.
Tutti quanti.
Harry intercetta il mio sguardo.
Con gli occhi al cielo, davanti all'ennesima scemenza della sua interlocutrice.
Mi rivolge la sua attenzione.

- "Portali fuori di qui..."

Lo sussurro appena, increspando solo le labbra.
Lui capisce.
I suoi occhi furbi saettano al centro dalla sala.
Lo vedo salire su una sedia.
Battere le mani sopra la testa un paio di volte.

- "Adesso basta! Uscire tutti dal mio ufficio!
Immediatamente!"

Intuisco la mia stessa voce insinuarsi prepotente tra il vociare indistinto.
Di colpo regna il silenzio.
Qualcuno ha il coraggio di provare ad opporsi.
La maggioranza saetta fuori dalla porta con la testa bassa e l'orgoglio distrutto, consapevole di non aver vinto il distintivo del suddito perfetto, davanti ai miei occhi selettivi.
Sono patetici.
Altre quindici persone sono morte senza una spiegazione, e loro si ostinano ad indossare la divisa di primo della classe, senza risolvere niente.
Un uomo di circa settant'anni prova a insistere con la teoria strampalata delle onde magnetiche, generate dagli apparecchi babbani.
Non lo ascolto.
In realtà non so nemmeno chi sia.
Ne tanto meno cosa ci faccia nel mio ufficio.
Mi abbandono sulla poltrona.
Spingo svogliatamente sul solito tasto dell'interfono.

- "Sì, Ministro?"

- "Kimberly, il fiume di persone che stai vedendo defluire dalla mia porta va condotto nel solito posto.
Di agli auror presenti di riservare loro il medesimo trattamento che abbiamo regalato ai medici di qualche giorno fa."

- "Sì, Ministro.
Posso fare altro?"

- "Chiamami Severus Piton.
...prima che tu lo chieda, facendo andare in briciole quel poco che mi resta di pazienza, la risposta è sì!
Quel Severus Piton.
Mantello nero, sguardo di ghiaccio, e carattere detestabile.
Il pacchetto completo.
Digli cosa è successo a Bristol, e che lo voglio nel mio ufficio, subito!"

Sento Kimberly tremare impercettibilmente all'altro capo dell'apparecchio.
Stacca la conversazione.
Intuisco la sua voce, al di là della porta, fare strada alla mandria di imbecilli che è riuscita solo a farmi montare un gran mal di testa.
Accendo una sigaretta.
Ne aspiro una lunga boccata.
Lascio alla nicotina l'ingrato compito di calmare i miei nervi compromessi.
E chiaramente non ci riesce.
Harry mi guarda.
Allunga una mano verso la scrivania.
Prende una sigaretta dal mio pacchetto.
L'accende anche lui.
Poi si siede stancamente su una sedia.
Restiamo immobili.
Il fumo invade la stanza.
Lasciamo passare cinque minuti.
In completo silenzio.
Poi lui si riscuote.
Mi guarda negli occhi.

- "Che cazzo succede, Hermione?"

Lo osservo un istante.
Accendo una nuova sigaretta.
Ne do un'altra lunga boccata.
L'esalazione si solleva dalle mie labbra, formando vortici fiabeschi.

- "Non lo so Herry...
Io non lo so..."

Il mio amico si alza di scatto.
Si passa una mano tra i capelli, mentre comincia a camminare in tondo, importunando con le suole delle scarpe la perfezione maniacale della mia moquette.
Ordino frettolosamente a Kimberly altri due caffè enormi.
Per me è il quinto da questa mattina.
E comincio ad avere le mani che tremano.
Mi alzo dalla poltrona.
Mi volto.
Gli do le spalle.
Mi dirigo davanti alla vetrata.

- "O Piton è diventato improvvisamente imbecille, oppure abbiamo un problema davvero grosso, Harry!

- "Prenderei come valida la seconda ipotesi, Granger!"

Mi irrigidisco.
La sua voce glaciale rimbalza sulle pareti del mio studio.
Portando con se tutto il disgusto di cui solo lui è padrone.
Mi volto di scatto.
Se ne sta con le braccia conserte, appoggiato allo stipite della porta.
Si è smaterializzato dentro al ministero.
E non riesco a capire come diavolo ha fatto.
Mi rivolge uno sguardo immobile.
Uno sguardo che mi fa tremare.
Avvolto nel mantello nero che lo fa sembrare un'ombra scappata ad una notte piena di incubi.

- "E temo sia un problema più grosso di quello che ti ostini a non voler ammettere..."

Sibila.
Harry si muove velocemente.
Gli si para davanti.
Allunga una mano verso la sua figura inerte.
Lui sfila il braccio dal mantello.
Gliela stringe con fare svogliato.

- "Professor Piton..."

- "Potter..."

Si osservano per un istante.
Poi Harry si scansa di lato.
Gli fa segno di accomodarsi ad una delle poltrone.
Lui lo supera sgarbatamente, senza degnarlo più di un solo sguardo.
Raggiunge il centro della stanza.
Punta gli occhi dritti nei miei.
Poi fa lo stesso con lui.

- "Adesso lasciaci soli, Potter!"

Lo ringhia tra i denti.
Harry mi rivolge uno sguardo pieno di fiamme incredule.
Io rimango immobile.
Lui resta fermo un istante.
Aspetta una mia smentita.
Una smentita che non arriva.
Perché la voce di quest'uomo mi paralizza.
Il suo sguardo mi paralizza.
Le sue mani che si muovono nell'aria con un'eleganza impercettibile e fredda mi paralizzano.
Harry prende con stizza la sua giacca dallo schienale di una delle sedie.
Esce dalla porta lasciandosela sbattere alle spalle.
Io raggiungo il centro della stanza.
Raggiungo anche lui.
Severus Piton.
L'uomo di ghiaccio.
Che continua a rimanere immobile, avvolto nella sua tenebra eterna.
Mi posiziono in piedi davanti al suo corpo.
Lo fisso con gli occhi più severi che riesco a trovare.

- "Questo è il mio ufficio, professore.
Sono io che chiedo alle persone di uscire.
Non lei.
Qui dentro non può fare come le pare."

Glielo sibilo in faccia.
Lui inarca un sopracciglio.
Sorride sprezzante.

- "Io faccio cosa voglio... Sempre!"

Me lo sputa sulle labbra con rabbia.
E io sento il suo respiro.
Per un attimo smetto di pensare.
Poi mi rianimo.
Riprendo il controllo sul mio corpo.
Lui si volta.
Si dirige verso la mensola su cui tengo i documenti che mi sono arrivati poco fa.
Indugia con lo sguardo sulla cartellina che contiene le autopsie.
Io torno a conquistare il mio posto dietro alla scrivania.
Dove mi sento più sicura.
Meno vulnerabile.
Meno in balia dei suoi occhi gelidi e dei suoi modi impossibili.

- "Sono questi i referti di Bristol?"

Lo chiede come se fossimo vecchi amici.
Come se non mi avesse appena minacciata.
Come se non avesse appena sbattuto il mio migliore amico fuori dal mio ufficio, con il poco garbo che ha sempre riservato al resto dell'umanità.
Scuoto la testa.
Quest'uomo mi fa impazzire.
Lo prenderei a sberle fino fargli perdere conoscenza se solo non avessi un fottuto bisogno di lui.
Della sua esperienza e della sua maledetta cultura sconfinata.
E nello stesso momento, starei ad ascoltare la sua voce per ore.

- "Sono quelle!
E sono uguali a quelle di Bayswater..."

Gli rispondo stancamente.
Lui prende la cartellina in mano.
La esamina velocemente.
Poi mi rivolge un nuovo sguardo pieno di fuoco gelato.

- "Fai bene ad avere paura, Granger!"

- "Non ho paura professore, solo..."

- "Solo niente! Se non avessi paura saresti un'imbecille!
E tu sei arrogante, saccente, testarda e fastidiosa... Ma non un'imbecille!"

Me lo dice con gli occhi puntati dritti nei miei.
Ancora una volta.
Mi lascio scappare un sorriso pieno di amarezza.
Quanto meno non mi reputa un'idiota.
Quanto meno risponde in modo molto solerte alle mia chiamate.
Quanto meno non mi riempie di teorie assurde con il solo scopo di farsi vedere uno scolaretto diligente.
Quanto meno non mi guarda con terrore.
E questo mi basta a fare di lui l'unico di cui posso fidarmi.
Insieme ad Harry.
Che ha un coraggio da leoni e una buona dose di intelligenza, ma la cultura di un mandarino cinese.

- "Cosa pensa che stia succedendo, professore?"

Cerco di cacciare in dietro l'odio che provo per lui.
Di cacciare la strana sensazione che mi fanno i suoi occhi.
I pensieri assurdi di questa notte.
In cui immaginavo la sua voce.
Il suo respiro lambirmi la pelle.
Facendomi vibrare.
Cerco di rinchiudere tutto in un antro nascosto del mio petto.
E di mettermi nelle condizioni mentali di capire qualcosa in più su questi dannati eventi.
Con lui.
Che continua a guardarmi con quei maledetti occhi immobili, infiniti.
E ipnotici.

- "Credo che dietro queste morti ci sia l'ombra di Voldemort, Granger!"

Spalanco la bocca.
Non può dire sul serio.
Mi sono illusa.
Questa è la teoria più assurda che abbia sentito da questa mattina.
Supera persino quella della strega deficiente che imputava ventisette morti ad un colpo di sole.
Mi lascio scappare una risata.

- "Professor Piton, quello che dice non ha senso.
Voldemort è morto nove anni fa.
Nella sala grande di Hogwarts."

- "Ma davvero, Granger?
Non me ne ero accorto..."

È un sibilo pieno di sarcasmo.
Resta immobile a guardarmi un istante.
Poi si muove velocemente.
Mi raggiunge dietro alla scrivania.
Mi si piazza alle spalle.
Sento il suo corpo sfiorare il mio per un attimo.
Poi avverto il suo fiato sul collo.
Mentre un brivido mi sale dalla spina dorsale, per sparire all'attaccatura dei capelli.

- "Ascoltami bene Granger, quello che hai tra le mani non è un gioco.
È arrivato il momento che tu la smetta di fare la ragazzina terrorizzata e che ti decida a guardare in faccia la realtà.
Non so perché, e non so come.
Ma Lord Voldemort è tornato."

Mi volto di scatto.
Lo guardo negli occhi.
Quei suoi occhi neri che sembrano privi di vita.
A pochissimi centimetri dai miei.
Sento il fiato mancare.

- "Smettila di fare la stupida, ragazzina!
E piantala con gli oblivion a chiunque osi mettere in discussione la tranquillità del tuo mandato.
Qui c'è in gioco ben di più di una poltrona da difendere.
È il caso che ti svegli, e che tu lo faccia in fretta!"

Maledetto bastardo.
Come diavolo si permette di parlarmi così?
Di guardarmi così.
Vicino, strafottente, magnetico.
Gli rivolgo un'occhiata piena di fuoco.
Faccio per parlare.

- "Non capisco se preferiresti uccidermi o scoparmi, Granger..."

Me lo sibila in faccia.
Continuando a guardarmi dritta negli occhi.
E io mi sento avvampare.
Perché nessuno legge i miei pensieri.
A nessuno è permesso guardarmi negli occhi e sfidarmi.
A nessuno.
Tranne che a lui.
Che se ne fotte di tutto.
E che riesce a vedere le mie paure.
E purtroppo non solo quelle.
Che riesce a farmi tornare la ragazzina piena di entusiasmo e terrore che ho sepolto tanto fa.
Provo a dire qualcosa.
Una qualsiasi cosa che possa rimetterlo al suo posto.
Non me ne da il tempo.
Di colpo si allontana dal mio corpo.
Si dirige verso la porta.

- "Chiamami quando hai deciso di tirare fuori le palle, e di affrontare la realtà!"

Mi sibila da lontano, prima di sparire verso l'ascensore.

Nota dell'autrice: spero di avere appagato l'attesa per la presenza del nostro eroe.
Temo che di qui in poi non riusciremo più a levarcelo di torno.
Come sempre ringrazio tutti voi per l'affetto che mi dimostrate.
Mi sto divertendo un mondo ad interagire con i vostri messaggi e con le vostre ipotesi.
Grazie per le stelline, per la presenza, per farmi sentire tutta la vostra passione.
Alla prossima puntata...

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