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Disegno


Hajime mi aveva rapita, rinchiusa e ora...privata della mia libertà.
Marchiata.
L'unica parola che continuava a ronzarmi per la testa era proprio quella.
Ero stata marchiata come un animale da macello, privata della possibilità di liberarmi. Con un ricordo, un segno, indelebile sulla pelle, in una delle parti del corpo più difficili da coprire e che avrei avuto davanti agli occhi ogni volta che mi sarei guardata in uno specchio.
Il terrore si era sostituito al desiderio di sapere, di conoscere il motivo per il quale mi avesse rinchiuso in quel posto dimenticato da Dio.
Alexander era ancora intento a mettere a posto il letto a baldacchino e a prepararmi una camicia da notte "integra", il suo profilo era nobile e affascinante, di un aspetto misterioso e non comprensibile appieno.
-Siete davvero fortunata! Il mio signore ha grandi progetti per voi!- mi sorrise, una volta finito il suo lavoro e davanti al mio sguardo cupo mi toccò il mento -È incredibile quanto vi somigliate, voi Disegnatrici... Quanti anni avete?
-Diciassette...- la voce mi uscì roca e fievole, distrutta da tutte le urla che avevo liberato poco prima.
I suoi occhi rossi come i petali delle rose mi accarezzarono il profilo del viso con un luccichio incantato. Mi accorsi che era straordinariamente vicino, ma non mi metteva la soggezione o l'inquietudine che mi trasmetteva il suo padrone.
-Compiuti ieri, giusto?
Annuii, colta di sorpresa.
Come sapeva che ieri era stato il mio compleanno?
Dovette intuire la mia muta domanda, perché mi accarezzò la pelle scoperta delle braccia e mi strinse a sé, il viso immerso nei miei capelli : -Non temiate nulla, ma non opponetevi alla volontà del padrone. So il vostro compiere degli anni per un'intuizione, ogni Disegnatrice aquista pienamente i propri poteri al compiere dei suoi diciassette anni di vita. E se non sapete che significhi il vostro titolo, presto lo saprete.
Alexander mi accarezzò la testa per un istante, poi si mosse talmente tanto rapidamente che non me ne accorsi.
Un istante prima ero tra le sue braccia, un istante dopo era accanto allo specchio dal quale era scomparso Hajime : -Ora devo andare, Nessuno...muoviti! Abbiamo del lavoro da fare!
La figura che mi aveva terrorizzata saltò sulla sua spalla.
-No! Aspetta...spiegati! Di che poteri parli? - cercai di intrattenerlo, ma lui sorrise enigmatico e scomparve oltre la superficie riflettente.
Ero di nuovo sola.
Mi presi nuovamente la testa tra le mani, questa volta frustrata per l'impotenza che mi attanagliava lo stomaco. Sentii un brivido percorrermi la schiena, come un dito freddo che tracciasse una linea invisibile sulla mia pelle.
Mi voltai di scatto, ma non c'era nessuno.
Mi morsi un labbro e notai che sulla scrivania era comparso un vassoio d'argento, su cui era posato un antico piatto in porcellana con una pietanza dall'apparenza e il profumo inventati, ma che non avevo mai visto.
Un sottile calice colmo di un liquido scuro era posato lì accanto, mentre un foglietto di carta pregiata e rigida recitava una sola parola, un ordine più che un invito: "MANGIA".
Mi sentii Alice nel paese delle Meraviglie, certo una versione più tetra e decisamente inquietante, ma pur sempre Alice.
Fino a quel momento non mi ero neppure accorta di avere fame. Mi avvicinai, titubante, cercando di trattenermi dalla tentazione di afferrare il piatto e mandare giù tutto in un solo istante.
Il profumo era così invitante che era davvero difficile resistere...allungai una mano ad afferrare la posata e presi un pezzetto di ciò che occupava il piatto.
Lo avvicinai alle labbra e ne assaporai il gusto sulla punta della lingua.
Non potei trattenermi dal chiudere gli occhi e sospirare di piacere, per poi allungarmi a svuotare il piatto in poco tempo.
-Sono felice che sia di vostro gradimento, domina...
Una voce sommessa mi fece alzare gli occhi di scatto.
Una fanciulla dai tratti aggraziati ma pallidi mi fissava proprio di fronte a me, i boccoli d'oro raccolti dietro una coroncina tipica delle cameriere dell'Ottocento. Aveva tratti nordici, eppure la sua voce possedeva un accento che non avevo mai udito.
I suoi occhi inespressivi erano di un azzurro tenue e sbiadito, ma umano.
Lei fino a quel momento mi parve la persona più normale che avrei mai potuto incontrare in un posto del genere.
-Desiderato dell'altro? Il padrone mi ha detto di rifoccillarvi a dovere, prima del suo ritorno.
-Tu...tu chi sei?
-Mi chiamo Julia, e più di questo non so. - recitò, fredda e pacata, rimanendo immobile -Desiderate dell'altro, domina?
-Sei umana?
Corrugó lievemente la fronte, primo segno di una reazione di qualche tipo che le avevo visto fare. Pareva perplessa, ma poi tornó indifferente:
-Sì, credo.
La guardai, sorpassando la scrivania per avvicinarmi, incredula. Avrei voluto abbracciarla, felice di aver trovato finalmente qualcuno come me, ma lei si allontanò di scatto, piegando la testa verso il basso in modo reverenziale:
-Domina, non vi avvicinate. Lo sapete che non mi é concesso alcun contato se prima il padrone non mi da l'ordine...
Mi immobilizzai, incredula.
Hajime assumeva sempre di più i tratti di un mostro, di un tiranno e di un padrone crudele.
-Non ho più fame, Julia. Puoi andare...- mi sforzai di mantenere un tono pacato, sebbene mi venisse nuovamente da piangere.
E non guardai neppure da dove uscisse, le diedi le spalle e caddi sul letto morbido con un sospiro profondo.
Dovevo capire come facessero ad attraversare gli specchi. Julia era umana come me e ci riusciva, cos'aveva lei in più di me? Oltre a un anima vuota e incatenata da troppo tempo?
Mi alzai dopo qualche secondo, sentendo le dita formicolare.
Sapevo cosa significava, dovevo disegnare.
Afferrai un foglio e una piuma, intingendola nell'inchiostro e invece di disegnare normalmente mi misi a scrivere la stessa frase per tutto il foglio componendo un volto di donna, dai tratti dolci, le labbra piene e gli occhi accesi di una furbizia profonda e inspiepegabile.
I capelli erano fili neri e lucenti. Il mento affilato.
Un neo accanto al sopracciglio destro si formò da solo quando una goccia di inchiostro cadde sulla pergamena, subito assorbita.
Il naso leggermente arricciato in una smorfia di sfida.
E le sue labbra dischiuse parevano recitare la frase di cui era composta...
Nella mia mente si costituì un immagine, come di un ricordo.
Quella ragazza, ferma in mezzo a un bosco, schiacciata contro un tronco.
Urla, fuoco, fumo.
La luce morente di un sole che si tinge del sangue di tutti quegli innocenti.
Un pensiero, una muta maledizione.
Per sé stessa.
Per la sua vendetta.
E poi una figura sudicia ma maestosa a un tempo, che la obbliga a inginocchiarsi. Ed ecco, lo sguardo di sfida e quelle parole...

"La luce precede le ombre, ma la segue anche."

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