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Parte 4 - Juan, l'incontro

JUAN

Mi affretto alla carrozza. Mio zio mi accoglie con uno sguardo accigliato, poi urla al cocchiere di andare.

«Guarda bene», dice l'uomo.

Cerco di abituarmi al sole abbacinante della mattina. Il cielo è terso e mi ricorda i turchesi che mia madre porta al collo, il ricordo del suo sorriso dolce mi rende meno amara la lontananza, nonostante sia ancora irritato per la sua decisione di lasciarmi andare. Le piogge delle ultime settimane sono state risucchiate dai venti che spirano verso ovest. Inizia la stagione più calda che, rinfrescata solo dai venti della costa, durerà sei mesi.

Mio zio indica la casupola del sorvegliante, Ramon, e poi una serie di capanne dove vivono gli omega destinati a lavorare le nostre terre.

«Come li hai convinti a venire qui?», domando.

La sua risata riecheggia nella carrozza. «Non sono esseri abbastanza razionali da essere convinti di qualcosa, in loro parlano solo l'istinto e il desiderio della carne».

Gli rivolgo uno sguardo accusatore.

«Ho usato i metodi che ho ritenuto opportuni», dice, le labbra serrate in una linea che le nasconde.

Evito di guardarlo ancora. Scendiamo lungo i tornanti verso i terreni, disboscati dalla vegetazione spontanea, si cui la mia famiglia controlla una percentuale.

«Tutto questo un giorno sarà tuo se saprai governarlo. Tu hai dei diritti, ricordalo sempre», dice ancora zio Francisco.

Davanti a noi noto una serie di carri. «Gli omega vivono nelle capanne e scendono con i carri ogni mattina per lavorare?», domando.

Mio zio annuisce. La carrozza si ferma e davanti a me si stendono a vista d'occhio piantagioni di cacao, banani e caffè. Il mare ormai non si vede più, si ode soltanto il rumore. Il vento scompiglia i capelli, fa svolazzare il rendigote di mio zio e i ciuffi ribelli sulla mia fronte.

Un uomo si avvicina a noi, è tarchiato, la pancia abbondante. Abbassa gli occhi grigi in segno di riverenza, ma ricorda uno dei viscidi valletti di corte da cui è meglio guardarsi piuttosto che accordare la propria fiducia.

«Come procedono i lavori, Ramon?».

«Cerco di fare del mio meglio», risponde lui, nascondendo la sua arroganza dietro un falso schermo di modestia. Deve aver capito chi sono a giudicare dal modo in cui piega la testa verso il basso e dalle occhiate furtive che mi rivolge.

«Bene. Oggi mio nipote Juan ci fa l'onore della sua presenza, dopo troppe notti brave trascorse nei locali lungo la costa».

«Onorato di fare la vostra conoscenza». Ramon è sul punto di inginocchiarsi, ma io gli faccio segno di rimanere in piedi. Detesto la sua piaggeria. Ho la sensazione che lui e mio zio Francisco si somiglino e questo non me lo rende simpatico.

«Giusto ieri notte le guardie hanno catturato un altro omega. Tentava di nascondersi sugli altipiani, ma ora è qui».

«È un nobile?»

Ramon scuote la testa, pare che sia contento. «Non ho visto segni sulla sua pelle che lo indichino. Ha un corpo...», si ferma come a cercare la parola più opportuna, «atletico», decide di dire alla fine, ma io ho il sospetto che siano ben altri aggettivi quelli che adombrano di lascivia il grigio delle sue iridi. «L'ho portato qui. So bene che sarete voi a giudicare la sua idoneità».

Lo zio annuisce. Ramon ci guida tra le piantagioni, ci sono uomini e donne con le spalle curve. Penso che avrebbero bisogno di una protezione sulla testa e di un salario.

«Li pagate?», domando.

Zio Francisco mi rivolge uno sguardo di fuoco. «Sei un alfa, per amor del cielo», ringhia sotto voce. «Mio nipote deve ancora imparare come funziona il mondo», si giustifica con Ramon.

Sotto il peso del suo sguardo, sono costretto a dirgli: «Avete ragione». Ingoio le altre osservazioni a cui vorrei dare voce. Questo uomini e queste donne sono pallidi e l'abbronzatura non riesce a nasconderlo, lavorano troppo, hanno lo sguardo vuoto di chi ha perso la dignità e la libertà. Affondo i piedi nel terreno con decisione e spero che questa tortura finisca presto. Ma zio Francisco è bravo a capire le persone.

«Non farti ingannare, gli omega sono pericolosi e se non facciamo qualcosa adesso per controllarli ci metteranno in minoranza. Inoltre, non hanno la stoffa per governare». Trattiene un'altra delle sue risate odiose, e io sono costretto ad annuire a dissimulare il mio disaccordo. Capisco ogni giorno di più come funziona il governo di quest'isola, e ogni giorno quello che capisco non mi piace.

Ramon intanto ci ha condotto in uno spiazzo ombreggiato da file di palme disordinate. Su un masso è seduto un uomo, è a testa bassa e accanto a lui c'è una guardia.

«Ecco l'ultimo omega che abbiamo catturato», dice Ramon. Tira fuori la frusta e la sbatte sul terreno sollevando un nugolo di polvere. «Alzati. Alzati, mi hai sentito?», urla all'uomo. La guardia lo pungola con una pistola.

Quando l'omega si alza, realizzo che non è più di un ragazzo. E come lui dio solo sapeva quanti ce ne erano a gonfiare le tasche di mio zio. E le mie. Perché, in fondo, parte di questa proprietà mi appartiene e io ne sono l'unico erede. Zio Francisco non mi sopporta, ma ama sua sorella – mia madre – tanto da sopportare di dare al frutto del suo ventre tutto quello che possiede.

«Vediamo», dice mio zio. Nella sua voce imperiosa scorgo una nota diversa. Desiderio. Le sue mani aprono la camicia del giovane, gli occhi ne esplorano il petto. È a quel punto che l'omega solleva lo sguardo. Le sue iridi sono celesti come un'acquamarina preziosa.

Mio zio lo obbliga a sollevare il mento. Espone davanti ai nostri occhi il suo collo candido su cui affiora appena una vena violacea. Sono sicuro che il sangue di quest'omega stia correndo veloce. Il suo odore è forte, nonostante non sia in calore. È segno della sua buona costituzione, della sua predisposizione ad avere un'eccellente discendenza. Qualcosa nel mio stomaco si muove, ma non mi domando cosa sia: di certo è solo l'irritazione per la circostanza in cui mi trovo.

«Come ti chiami?», domanda zio Francisco.

Silenzio.

Ramon sbatte ancora la frusta per terra. Un nuovo nugolo di polvere si alza. Il giovane omega guarda un punto lontano davanti a sé.

«Rispondi al padrone», lo incalza Ramon.

«Lev», pronuncia il giovane con voce chiara, rabbiosa.

Non riesco a smettere di guardarlo. C'è qualcosa nella sua figura che attira l'attenzione e non è soltanto il fisico ben fatto e la pelle di luna.

«Peccato che tu non sia un nobile, ma sono sicuro che sarai ugualmente perfetto per alcune attività», dice mio zio, gli angoli della bocca sollevati in un sorriso di scherno.

Accade all'improvviso, tra il fragore delle onde e il vociare sommesso degli altri omega schiavizzati. Il rumore di un fiotto di saliva che colpisce in pieno il volto di mio zio. Lev ha raccolto le sue forze per dimostrargli il suo disprezzo. Zio Francisco si porta una mano guantata alla guancia, incredulo. Altrettanto velocemente si alza il braccio di Ramon, pronto a colpire con la frusta il giovane.

Afferro il suo polso. Ramon spalanca gli occhi e nello stesso momento le iridi di Lev si incastrano nelle mie. C'è stupore, incertezza, ma soprattutto disprezzo per quello che sono e che rappresento.

Zio Francisco mi fulmina con lo sguardo, ma io non lascerò che questo ragazzo venga frustato davanti ai miei occhi. Per un attimo Ramon tenta di liberarsi dalla mia presa, poi ci ripensa: io sono il padrone per lui.

«Domanda scusa», dico a Lev. Lo faccio perché so che altrimenti per lui la punizione sarà peggiore, so che mio zio non lascerà mai correre un'offesa del genere. Quando ero un bambino mi ha picchiato per molto meno, e quando ha lasciato la Spagna per fare carriera come governatore è stato uno dei giorni più felici della mia vita.

Il respiro di Lev si fa affannoso. Continua a fissarmi come un animale in gabbia, pronto ad aggredire chiunque pur di liberarsi. Le sue labbra si schiudono, sono belle come un bocciolo di un fiore di cui ancora non conosco il nome.

Zio Francisco fa un passo in avanti. Pretende vendetta.

«Domanda scusa», dico ancora una volta, la presa attorno al polso di Ramon si stringe.

Lev cede. «Scusatemi».

Zio Francisco si libera del guanto con il quale ha ripulito il suo volto. «Saprai farti perdonare meglio in futuro», dice.

È un uomo disgustoso, e non riesco a capire come lui e mia madre dividano anche solo una goccia di sangue.

«Va', lascialo lavorare con gli altri», ordina l'uomo a Ramon.

Li vedo allontanarsi. Lev ha distolto lo sguardo sprezzante e adesso si avvia verso una delle piantagioni che consumerà le sue forze e la sua giovinezza. Non so se riuscirò a consumare i prodotti della nostra terra ora che ho visto con i miei occhi cosa c'è dietro.

«Se lascio che gli omega vivano ancora nelle taverne lungo la costa è solo perché so che giovani alfa come te si sollazzano con loro», mi riscuote zio Francisco, «ma se mai mi accorgessi che tramano qualcosa contro il sistema e che vogliono sovvertire l'ordine della società, non avrei pietà con loro».

Rimango in silenzio. Non mi fido del suono della mia voce e non voglio che lui capisca quanto lo disprezzo.

«Tutto questo è tuo. Anche gli omega. Non farti scrupoli. Loro non sono niente, guardali: pronti a darsi al primo calore a chiunque e poi a lamentarsene. Sono oggetti: come quelli che abbiamo nel nostro salone, alcuni più pregiati, altri meno, ma pur sempre oggetti».

Faccio un passo in avanti. Affondo gli stivali nella terra resa umida dalle ultime piogge. «Vorrei vedere il resto», dico per sottrarmi al suo discorso.

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