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Parte 31 - Lev, speranza

LEV

Sogno un paio di occhi scuri, sono incastonati nel volto di Juan... no, adesso il volto si dissolve e viene sostituito da quello misterioso del collega del dottor Sal. Chi è veramente? Non mi ha detto neanche il suo nome.

Apro gli occhi. Francisco non è al mio fianco, da quando ha capito che la mia gravidanza è a rischio non ha voglia di dormire con me, sospetto che costringa altri a sopportare i suoi soprusi.

Mi metto seduto. Da quando ho rischiato di perdere mio figlio è passato qualche giorno. Oggi il collega del dottor Sal mi aspetta di sotto, nel giardino, per farmi trascorrere qualche ora all'aria aperta.

Il mio cuore è tormentato da emozioni contrastanti, da un lato questo bambino mi ricorda le violenze subite, dall'altro dopo il distacco da Angel e l'aborto causato dalla spinta di Francisco, non posso sopportare di perdere anche lui.

Un'altra stagione della pioggia scivola via. Dalla finestra entra l'odore del mare e il garrire dei gabbiani. L'assistente di Sal mi aspetta sul patio, dietro di lui le orchidee e i maracuja, davanti il vasto giardino. La luce del sole del mattino accarezza i suoi capelli scuri: non indossa il cappuccio, ma un maschera, che ricorda la benda dei pirati; unica differenza: la sua gli copre quasi tutto il volto.

«Come state?», mi domanda. Le sue labbra sono per metà coperte anche esse, sì che non ne intuisco la reale forma. Non so se siano sottili o carnose, come lo erano quelle di Juan.

«Mi sono rimesso in forze. Mi giudicate male, non è vero? Un omega che non si cura del figlio che porta in grembo e che se ne ricorda quando ormai può essere tardi».

«Non oserei mai, il dottor Sal mi ha raccontato un po' di voi e del governatore», un respiro più pesante rompe le sue parole, poi si riprende: «e della sua malvagità». Stringe le labbra in un moto di rabbia.

«Credevo di non volere il bambino, di non poter essere capace di amarlo, ma mi sbagliavo».

Lui mi porge il braccio, accetto il suo invito. «Non potrei mai giudicarvi, ammiro che abbiate trovato il coraggio di andare avanti, nonostante tutto».

Sollevo il volto verso di lui. «Non mi avete detto nulla di voi, dove avete studiato? Da dove venite? Il vostro accento è diverso da quelli che conosco».

«Sono olandese e a Rotterdam ho iniziato i miei studi, poi conclusi a Parigi».

La sua persona mi incuriosisce, è strano, è la prima volta da quando sono diventato nuovamente prigioniero di Francisco – ormai un anno fa – che il mio interesse si risveglia per qualcuno o qualcosa. «Non so neanche il vostro nome».

«Janus», mormora. Lo dice come se non gli appartenesse davvero.

Al suo fianco mi sento in grado di camminare più di quanto abbia fatto negli ultimi mesi, vedo mia madre che mi osserva preoccupata da una finestra. Qui non mi sento a mio agio. Le capanne, il giardino, la palma dove mi incontravo con Kal mi rendono succube dei cattivi ricordi. Cerco di preservare quelli belli, ma è difficile. Neanche mi guardo più allo specchio, perché so che il marchio di Juan è sbiadito, sostituito da quello del mio aguzzino.

«Vorrei portarvi fuori dalla proprietà», mi dice Janus, e indica un carro.

È come se mi avesse letto nel pensiero. Francisco è molto geloso e non mi permette di frequentare altre persone se non nei brevi intermezzi dei ricevimenti, dove in ogni caso mi espone come un suo trofeo. Janus mi aiuta a salire sul carro, sento il suo odore, un misto di salsedine e mistero, richiama alla mente un passato lontano, oscuro, di cui, se fossi più prudente, dovrei avere paura.

Invece è il primo volto amico che mi conduce fuori dalla mia prigione dorata.

Ci inoltriamo nella foresta, tra le piante selvagge e gli alberi millenari. Odo il mormorio di un ruscello prima ancora di vederlo. Da quanto tempo non immergevo le mani nell'acqua fresca e pura? Da quanto tempo la mia pelle non veniva scossa da brividi diversi dalla paura e dall'orrore?

Ci sediamo sulla riva, osserviamo i rivoli schiumosi rincorrersi, i tucani dai becchi colorati uscire allo scoperto, udiamo il gracidare delle rane, lontane.

«Mi ridate la vita», dico senza pensare. Io stesso sono sorpreso dal modo in cui le parole sono rotolate via sulla lingua e, soprattutto, dal modo in cui esse corrispondano a verità.

Janus avvolge le mie mani in un fazzoletto, me le riscalda a contatto con la sua pelle, poi inaspettatamente le solleva, come se volesse portarsele alla bocca per baciarle. Rimango immobile, il respiro accelera. Come è possibile che provi attrazione per questo sconosciuto di cui anche il volto mi è oscuro? Il senso di colpa verso Juan mi fa ritirare le mani, ma le nostre iridi rimangono ancora incastrate. Possibile che basti così poco a un omega vedovo per innamorarsi di nuovo? Possibile che la nostra natura ci spinga a trovare un nuovo compagno, basta che ci interessi un minimo?

No, so che non è così. Piuttosto io e Janus abbiamo sofferto e ci siamo riconosciuti. Le nostre anime dilaniate potrebbero trovare insieme l'alito di una nuova speranza, non per dimenticare, ma per vivere una nuova serenità.

«Avete perso anche voi il vostro compagno?», gli domando.

«Aveva gli occhi del colore del cielo, come i vostri».

Arrossisco, anche i suoi occhi mi ricordano quelli di Juan, sono solo più profondi, come se la sofferenza invece di spegnerli li avesse regalato nuova luce.

«È una foresta magnifica», mi riscuote.

Le immagini di me e Juan si accavallano davanti ai miei occhi, noi sotto l'ebano, noi nella capanna, noi a correre sotto la pioggia.

«Dovreste vedere la parte più interna». Un fremito di rabbia mi scuote. «Francisco, il governatore, sta per distruggere tutto. Tra qualche giorno inaugurerà l'inizio dei lavori per la costruzione della sua maledetta ferrovia».

«Venite, non voglio che vi stanchiate troppo». Mi prende le mani.

Mentre mi alzo il mio corpo si avvicina a lui, come se seguisse un istinto difficile da mettere a tacere. Il cuore martella nel petto, nello stomaco un tremito. Il suo odore mi libera da quello odioso di Francisco. Vorrei affondare il naso nella sua pelle, poi mi vergogno dei miei pensieri. Anche se riuscissi a superare il senso di colpa verso Juan, quale alfa accetterebbe un omega che è stato marchiato due volte da due alfa diversi e che aspetta il figlio di uno di questi? Nessuno.

Janus mi solleva il mento con le dita. «Cosa avete? Niente pensieri tristi, questa è la medicina che vi prescrivo oggi».

Sorrido. Torniamo alla villa, e lui mi accompagna fino all'ingresso, poi lo vedo correre via oltre il cancello e avverto una morsa di gelosia, simile a quelle che mi rendevano furioso quando Juan andava alla locanda.

Trovo mia madre in salotto, è sollevata che io abbia lasciato la mia stanza e che abbia ricominciato a mangiare con regolarità, ma una ruga corruga la sua fronte e so che non è a causa del ricamo che ha sulle ginocchia.

«Madre...»

«È tardi, sei fortunato che lui non sia ancora tornato». Non riesce neanche a pronunciare il nome del nostro carceriere.

Mi siedo sul divano di fronte alla sua poltrona. «Mi ha dato il permesso, si fida ciecamente del dottor Sal e di Janus».

Lei abbandona il ricamo. «Janus? E da quando lo chiami per nome? Ascolta, figlio mio, non sai quanto desideri per te un compagno vero, ma bada a non far diventare geloso lui, e poi...» Abbassa gli occhi. «Non voglio che ti lasci ingannare da un altro alfa, questo olandese non lo conosciamo, non ci sono molti alfa disposti a stare con un omega che...»Si morde le labbra.

Mi alzo di scatto. «Lo so bene. Conosco il mio destino e non ho bisogno che me lo ricordiate. Buona notte, madre».

Fuggo di sopra, nascondendo le lacrime.

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