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Parte 3 - Juan, l'arrivo



JUAN

Scosto le coperte di lino. La notte è stata umida, diversa dalle caldi e secche notti spagnole a cui ero abituato. Mi passo una mano sulla fronte, tra i capelli corvini, uguali a quelli di mio padre. Mi metto a sedere. Nonostante sia qui da un mese ancora non riesco ad abituarmi al clima, al rumore del mare che ruggisce sotto la scogliera sui cui è abbarbicata la fazenda di mio zio, il governatore.

Mi metto a sedere, ma non faccio in tempo a scendere dal baldacchino, adornato di broccato viola, che la porta si apre con un rumoroso cigolio. Il mio cameriere personale mi ha seguito fino a qui. È un buon uomo, di mezza età, che mi ha visto nascere e crescere. Mi piace pensare che mi abbia seguito su quest'isola, nel mezzo dell'Atlantico, perché mi era troppo affezionato per lasciarmi andare da solo. Realisticamente so che sono stati i miei genitori a spedirlo qui, perché non si fidano di me.

«Un nuovo giorno è arrivato», mi dice nella sua voce gioviale, mentre apre le tende e lascia che la luce di quest'isola inondi la mia stanza. È una luce diversa da quella della mia terra natia, più intensa e allo stesso tempo evanescente.

«È presto», bofonchio, ma ormai mi sono messo a sedere.

Carlos si mette le mani sui fianchi. «Ho molto da fare, signore, la prego di non rendermi le incombenze mattutine più pesanti del dovuto».

«E l'incombenza mattutina sarei io?» Lo vedo indicare con lo sguardo il catino che ha già provveduto a riempire di acqua fresca. Apre l'armadio e tira fori i vestiti puliti che indosserò durante il giorno.

Ormai rassegnato mi alzo, e mi domando perché un alfa come me, erede di una delle più nobili famiglie spagnole sia finito in questo posto dimenticato da Dio, alla mercé di mio zio Francisco.

Sullo scrittoio ho sistemato un ritratto dei miei genitori. Ho preso da mio padre l'espressione volitiva, le sopracciglia folte, gli occhi neri e profondi. Mia madre diceva sempre che le ricordavano il cielo di notte e il velluto dei suoi abiti più preziosi. Sfioro il suo volto con le dita, e sento la morsa che mi stringe lo stomaco, il senso di ingiustizia e di ribellione che brucia ogni volta che penso a come i miei abbiano deciso di mandarmi qui e liberarsi di me.

«Avete dato ai signori qualche grattacapo», mi riscuote Carlos. È sempre stato bravo a leggere i miei pensieri, ma immagino che avermi conosciuto fin da quando ero in fasce gli abbia facilitato il compito.

Non ha tutti i torti. Sono stato un giovane ribelle e adesso a ventisei anni i miei vogliono che metta la testa a posto, che impari da mio zio l'arte del governo, e magari che trovi anche il mio compagno.

«Se lo dici tu», mi limito a dire, mentre rinfresco il viso con l'acqua del catino.

Indosso un semplice paio di calzoni e una camicia. Non ho voglio di mettermi in ghingheri anche se sono sicuro che mio zio troverà da ridire su questa mia scelta.

«Vostro zio vi aspetta nello studio».

«Prima di colazione?», domando stupito.

Carlos annuisce e mi fa strada. In fondo non sono sorpreso, a mio zio piace essere crudele in modi più o meno sottili e questo include anche sottopormi alle sue prediche quando sono ancora a stomaco vuoto.

Scendo la grande scalinata in legno che porta nel salone, poi mi dirigo verso l'ala destra della casa, quella esposta verso la scogliera, a est. Mio zio ha lasciato la porta aperta. È seduto alla scrivania di legno massiccio, dietro di lui una libreria che arriva fino al soffitto gli conferisce l'aria di un saggio, ma io so bene che in lui c'è poco di saggio o di buono, e non capisco come è possibile che i miei genitori siano stati ingannati da lui.

«Nipote», dice con voce stentorea, facendomi appena un cenno di venire avanti. «Chiudi la porta», aggiunge, alzandosi.

È vestito di tutto punto: camicia, cravattino, rendigote, stivali. Si avvicina al tavolo dei liquori e mi serve un bicchiere di gin, liquore che fa arrivare in grandi casse direttamente dalla Gran Bretagna. Spingo il mio sguardo oltre la finestra, per non vedere la sua espressione soddisfatta, per non sentire la sua acqua di colonia, per non vedere la sua figura alta come la mia, il volto tondo, gli occhi castani, sempre mobili, sempre alla ricerca di un altro obiettivo su cui mettere le mani. Ai piedi della fazenda le onde si infrangono sulla scogliera tumultuose e non tengono fede, almeno oggi, al nome dell'isola a cui appartengono.

«Prendi», dice Francisco.

Gli offro un debole sorriso, faccio finta di bagnarmi le labbra, mentre lui beve avidamente dal suo bicchiere. «Perché volevate vedermi?», gli domando.

Un sorriso ironico increspa le sue labbra. «Devi essere più sveglio, nipote mio. I tuoi genitori ti hanno mandato qui affinché ti insegni a governare, se non un'isola almeno le tue proprietà di famiglia».

Stringo il bicchiere fino a imprimere le mie impronte sul vetro. Quest'uomo riesce a innervosirmi, come se nascondesse un colpo mancino dietro il suo sorriso mellifluo. «So bene come si governano le terre, zio».

«Dici? Non credo. Da quando sei qui non ti ho mai visto fare un giro tra le nostre piantagioni né interessarti a chi ci lavora».

So bene chi ci lavora ed è per questo che ho preferito viaggiare lungo la costa fino ad arrivare ad angoli remoti dove il controllo di mio zio ancora non è arrivato.

«Bevi», mi ordina. Per lui è una prova di forza e io non sono ancora in grado di disobbedirgli. Non pienamente, almeno. Mando giù un sorso di gin. Mi brucia la gola e lo stomaco.

«Bravo». Poggia una mano sulla mia spalla. «Se non avessi nulla da imparare da me, caro Juan, i tuoi non ti avrebbero mandato qui, così lontano da loro». Gli occhi castani si illuminano, mi scrutano. Sa bene dove colpire per farmi male. È un abile manipolatore. Indica qualcosa oltre il vetro della finestra. «Oggi verrai con me a visitare le piantagioni e a vedere chi ci lavora».

«Omega?», domando. Carlos mi ha accennato qualcosa e quello che ho sentito non mi è piaciuto.

«Omega, certo. Gli alfa sono fatti per comandare e portare avanti i buoni valori della società, gli omega, invece, per soddisfare i nostri desideri e per mandare avanti la nostra stirpe, o, almeno, quelli degni di farlo».

«Cosa volete dire?»

«Prima che arrivassi io in quest'isola c'era il caos. Gli omega volevano occupare posti che non sono di loro competenza, la loro natura è mutevole, incostante e direi quasi isterica. Ho fatto in modo che gli omega lavorassero alle dipendenze degli alfa e che fossero obbedienti... sotto tutti i punti di vista». Un sorriso lascivo contorce il suo viso.

Poso il bicchiere sul tavolino, con troppa foga a giudicare dal movimento del gin al suo interno. «In Spagna gli alfa e gli omega si scelgono e si innamorano», replico.

«Ed è per questo che il nostro regno sta andando allo sbando! La mancanza di ruoli ben definiti manda tutti in confusione. Dimentica quello che facevi lì». Mi si avvicina fino a invadere il mio spazio personale.

Solo pochi centimetri di aria ci separano e i suoi occhi mobili come il mercurio mi fissano, mi deridono anche se la sua bocca rimane in silenzio. Arpiona entrambe le mie spalle, fino a quando le dita non affondano nella pelle. «Sei un alfa e devi prenderti quello che ti spetta. Se i tuoi genitori non ti hanno insegnato a farlo, lo farò io». Suona come una minaccia.

Mi sforzo di sorridere, e sembra che ci sia riuscito a giudicare dall'espressione soddisfatta che spiana le rughe del suo viso. Mi dice di andare a mangiare qualcosa e che mi aspetterà nel cortile.

Quando arrivo a tavola, però, mi è passata del tutto la fame. Lo zio è capace di farmi ribollire il sangue di rabbia, perché crede di essere il padrone del mondo e adesso anche della mia vita. Eppure io sono un alfa, non sono uno degli omega che lui crede di poter tanto facilmente dominare. Anche mia madre è un'omega, ma è sempre stata trattata con rispetto. Carlos si affanna a servire la crema di leche. Gli afferro il polso.

«Cosa c'è?», mi domanda, spalancando gli occhi.

«Fermati. Sei riuscito a parlare con qualcuno della servitù? So che tu hai la lingua lunga e che sei capace di sciogliere anche quelle degli altri».

Annuisce. Si guarda attorno sospettoso, timoroso che anche le mura ricoperte di arazzi e quadri abbiano orecchie.

«E allora?», lo incalzo.

«I servi hanno paura del padrone e del sorvegliante, Ramon».

«Sorveglia il lavoro nei campi?»

«I campi e chi ci lavora, ma qualche volta viene anche qui a controllare che tutto vada bene».

Inaccettabile, penso. I servi che lavorano in casa devono essere controllati da una governante che sappia cosa significa dedicarsi alle attività domestiche, non certo dal sorvegliante che sa di campi e di poco altro. «E i servi in casa sono contenti?»

Carlos muove ancora la testa a destra e a sinistra, poi abbassa la voce: «Non credo, il sole nei campi è cocente, ma una stanza fresca la si ottiene a un prezzo alto».

Sentiamo entrambi un tacchettio, Carlos si allontana portando via la brocca con la crema di leche, mentre un altro servo ci passa accanto come a controllare che tutto scorra secondo i comandi di zio Francisco. Io, intanto, rifletto sulle parole del mio fidato amico. Ho notato uno strano via vai di giovani uomini e donne in casa e subito ho pensato che fosse strano e che di solito i servi che gestiscono la casa sono sempre gli stessi. I sospetti che siano omega al servizio "privato" di mio zio crescono e non mi fanno piacere.

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