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Parte 28 - Juan, vendetta


JUAN

Kal solleva il bicchiere di rum, acqua e limone e sfiora il mio. Al tramonto le nostre navi, che hanno iniziato a solcare insieme il mare dopo il primo accordo di alcuni mesi fa, si accostano fino a permettere a Kal e a chi vuole di salire a bordo.

Il sole è un disco rosso che insanguina il mare, i miei occhi lo seguono come attratti dal colore, uguale a quello che domina i miei sogni.

«Deve essere così che diventa il cielo durante un'esplosione», dico, mentre seduti sul ponte fisso l'orizzonte.

Kal manda giù un sorso di liquore. Il suo volto mi è famigliare e allo stesso tempo mi lascia addosso un senso di inquietudine che non riesco a spiegarmi.

«Così», conferma lui. «Conoscete l'isola Pacifica?»

Tento di ripescare qualche sbiadito ricordo dalla mia mente, ma come al solito non trovo nulla, sebbene nei miei sogni siano affiorate nuove immagini, nuovi volti a cui non so dare un nome. Scuoto la testa. «È la vostra terra?»

«Lo era».

Con lui mi sento sotto esame, è come se cercasse qualcosa nei miei occhi, nel mio comportamento, persino nelle espressioni del mio volto. Credevo, il giorno in cui ci siamo conosciuti, che osservasse la ferita, la bruciatura sulla guancia destra, ma adesso ho capito che la sua è una curiosità per tutta la mia persona, e non si tratta di attrazione fisica, non vuole avermi come suo alfa.

«Mi hanno detto che non ricordate nulla della vostra vita precedente, come mai avete scelto il nome Lev?»

Scrollo le spalle. Tra le nostre parole si insinuano il garrire dei gabbiani e i canti dei compagni. «Lev... è l'unico nome che mi martellava nella testa quando ho aperto gli occhi su questo veliero».

Thai ci raggiunge. Ha buone notizie: il carico che abbiamo rubato all'ultima nave mercantile, stoffe e legname, è ricco e pregiato, e lo andremo a vendere sulla costa del continente. In Brasile, per la precisione.

«Non è lontano dall'isola Pacifica», commenta Kal con la fronte aggrottata. Le sue labbra si serrano e butta giù quello che rimane del suo bicchiere.

La costa di questo nuovo paese è bassa e sabbiosa. Il porto dove attracchiamo con una barca più piccola, lasciando ancorato il veliero qualche lega più in là, mi pare famigliare, è come se lo avessi visto in qualche incisione o dipinto di veduta. È caotico, attraccano navi che devono scaricare merce e altre che partono cariche di prodotti che l'Europa cerca. So che qui ci sono miniere d'oro e questo deve aver attirato tanti europei.

Mercanteggiamo con chi di dovere, e poi la notte è una libera uscita per alfa e omega. Io e Kal entriamo in una locanda dove domina l'odore di pesce fritto e alcol. Kal attira gli sguardi, ma il fatto che stia con me, un alfa, scoraggia molti dall'avvicinarsi a lui. Entrambi lasciamo presto questo posto e preferiamo confonderci nei vicoli della città.

«Tieni gli occhi aperti», mi avvisa Kal.

Non capisco a cosa si riferisca fino a quando un'ombra non ci sfreccia vicino. Sento le mani sfiorare i miei calzoni, ma se i miei sensi non fossero stati all'erta non me ne sarei neanche accorto. Istintivamente corro, acciuffo il ladruncolo per la collottola.

Non è che un bambino. Quanti anni può avere? Qualche anno, al massimo otto. Alla luce tremula delle fiaccole, i suoi occhi neri sono attraversati da un lampo.

«Mi lasci, signore, non ho fatto nulla».

Infilo le mani nelle sue tasche, vi trovo le monete con cui volevo pagarmi ancora da bere. «Esigo di parlare con i vostri genitori».

Kal ride. «Non siate ridicolo, è solo un teppistello, che volete che vi dicano i suoi genitori?»

Il bambino si fa rosso. «Non ne ho genitori, ho solo un fratello». Fischia. Dall'ombra trotterella verso di noi un bambino più piccolo, non gli do più di due anni.

Mi si stringe il cuore. Il vociare di altri uomini arriva nel vicolo, insieme al fetore di urina. Non immaginavo che certi angoli della città potessero essere così sporchi. Trattengo il bambino per un braccio. È una barbarie che questa creatura debba vivere di furti. «Spiegatevi».

Lui fa il broncio, ma serra le mascelle. «Mi ospitano dei signori giù al porto, ospitano bambini che non hanno nessuno come me e lui».

«Vi ospitano a patto che rubiate per loro».

Il ragazzino è punto nel vivo. «Lasciatemi».

«Lasciatelo», gli fa eco Kal. «Non possiamo salvare il mondo». Poi un baluginio attira la sua attenzione.

«Cosa fate?», domanda il piccolo.

Kal solleva la catenina che porta al collo. Vi è appeso un anello di smeraldo. «Lo avete rubato questo?»

«Mio», dice il bimbo più piccolo con la sua voce sottile.

Istintivamente lo prendo in braccio, e lui mi sorride. Ha i capelli scuri, ma gli occhi chiari. Avverto una nostalgia lontana, l'ennesima immagine che devo afferrare ma che fugge via evanescente prima che ci riesca. «Vorrei aiutarlo», dico tra me e me.

Kal spalanca gli occhi, eppure non è avido. Cosa lo attrae di quella pietra? «È davvero l'anello del tuo fratellino?», domanda con tono minaccioso. «Non mentire».

Il bambino annuisce. «Non è davvero mio fratello».

Freneticamente Kal avvicina la torcia tanto quanto basta al volto del bambino per illuminarlo, sul collo scorge qualcosa, proprio sulla clavicola.

«Cos'ha?», domando preoccupato.

«Dobbiamo portarlo con noi. Mi occuperò io di parlare con la famiglia. Torna al veliero», si limita a dirmi in un tono che non ammette repliche.

Esigo una spiegazione, mentre del bambino si prende cura la compagna di Thai, ma per il momento Kal non sembra volermela dare, e per qualche strana ragione Thai è d'accordo con lui.

«La famiglia è d'accordo con questo?», gli domando a bordo, coprendo a grandi passi il ponte. Le tavole cigolano sotto il mio passo deciso. Il resto della ciurma, con qualche eccezione, è ancora a divertirsi nei locali della terraferma. Pare che Kal e Thai abbiano avuto una lunga conversazione.

«Una famiglia che usa dei bambini, presi chissà dove, e per farli elemosinare non merita di averne».

«Giudicate con troppa durezza di cuore».

La notte si è ammantata di stelle, la torcia di Kal illumina i nostri volti. I suoi occhi e quelli di quel bambino sono simili, possibile che...

«È vostro parente?», domando.

Kal scuote la testa, ha un'aria greve che non gli avevo mai visto. «Vi dice qualcosa il nome Juan?»

«Juan...», ripeto. Mi viene in mente una donna, una nobile alla corte di Spagna, poi un uomo dai lineamenti più duri che manda via il figlio, lo manda lontano affinché impari a gestire le proprietà di famiglia. Mi riscuoto, possibile che il figlio di quella nobile coppia, affacciatasi nei miei ricordi, sia io?

Kal rompe il silenzio: «Siete voi Juan. Juan è il vostro vero nome, e il bambino di là è vostro figlio».

Rimango fermo contro la balaustra, sotto di me l'oceano si infrange in onde tumultuose come quelle che agitano il mio cuore.

«Cosa dite, e voi.. chi siete voi? Come fate a sapere queste cose?»

Kal guarda un punto lontano, poi incrocia ancora il mio sguardo. «Ci conoscevamo voi e io. Veniamo dall'isola Pacifica, anche se voi siete spagnolo. I vostri genitori vi hanno mandato lì per imparare a gestire gli affari. Vi siete trasformato da giovane viziato in un vero nobile, pronto a rischiare la vita per la giusta causa e il vostro compagno».

Stringo la balausta, le informazioni mi travolgono. Avevo ragione, quindi. Avevo un compagno. «Chi è il mio omega?»

«Ha i miei stessi occhi, ho visto come li avete fissati da quando ci siamo conosciuti, ci siamo sempre somigliati io e lui. Il suo nome è Lev, temo che sia finito nelle grinfie di vostro zio, il governatore dell'isola contro cui ci siamo battuti».

È come essere attraversati da una lama rovente. Davanti ai miei occhi compaiono le immagini di una guerra, una fortezza, una condanna, un volto che mi guarda pesto tra le sbarre. «Non vi credo». La mia testa si rifiuta di ammettere tanto orrore.

«Dovete! Sul vostro petto avete un marchio riservato ai traditori, un serpente. Vi ho liberato io stesso dalla prigione. Lev è il discendente della più nobile dinastia dell'isola, la dinastia Vieln. Aveva sul petto un...»

«Una spirale dal colore di rubino», dico d'istinto. Ora la ricordo, ricordo il segno sulla sua pelle candida, ricordo le mie dita che lo tracciavano, ricordo la sua bocca, le labbra dal colore dell'Abutilon, rosse e succose. E gli occhi. Mi accascio a terra, le tavole di legno sono umide ed esalano odore di salsedine. «Il bambino ha lo stesso segno?»

Kal si inginocchia davanti a me. Annuisce. «Anche l'anello di smeraldo era il vostro, lo avevate donato a Lev come pegno di amore. Il bambino si chiama Angel».

Stringo i pugni. Sento il dolore del mio compagno, anche se è lontano, anche se non ne ricordo ancora i tratti del volto. Comincio a ricordare, poi la rabbia mi invade.

Mi scaglio contro Kal. «Perché non me lo avete detto?»

«Aspettavo il momento, dopo il vostro trauma non sapevo come rivelarvi tutto questo, e una parte di me, lo ammetto, voleva dimenticare tutto. Sono sfuggito alla morte per un soffio durante la battaglia finale e ho trovato rifugio su una nave di pirati. Ma ora che so che vostro figlio è vivo e che Francisco non lo ha ucciso non posso più tacere. Se volete il mio aiuto, vi dirò tutto quello che so e rischierò ancora per liberare l'isola e Lev».

Liberarla... No, non basta. Le notti seguenti le immagini in sogno si accavallano. Ricordo frammenti, ricordo l'amore, ricordo il dolore. Ricordo qualcosa fino a quando non ricordo tutto. E allora so che la libertà non basta.

Voglio vendetta.

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