Parte 23 - Lev, fuga
LEV
La domestica mi rivolge uno sguardo perplesso. La brocca colma di leche è rimasta intatta così come la fetta di torta al cocco che ha servito sul vassoio. È la terza volta che rimando indietro il vassoio senza toccare nulla.
Con un gesto della mano le dico di congedarsi. Quando richiude la porta alle proprie spalle sento il rumore della chiave girare nella toppa. Francisco le ha dato ordine di non lasciare mai la porta aperta, e ho sentito al di là di essa lo scalpiccio di una guardia che sorveglia le mie azioni, se mai la domestica avesse l'ardire di disobbedirgli.
So che dovrei mangiare, se non per me per mio figlio, ma non ho appetito. Francisco mi ha detto che Juan è stato condannato a subire la condanna del marchio che spetta ai traditori, e poi probabilmente quella estrema che gli toglierà la vita. È un lento supplizio a cui ha pensato di condannare me e suo nipote.
Il giorno della condanna è stato ieri, e io non posso fare a meno di pensare a quanto ingiusto io sia stato con il mio alfa, a quanto poco l'abbia capito. Seduto sulla poltrona davanti alla finestra, scosto la tenda di velluto, tento di indovinare dove sia la fortezza. So che si trova dall'altro lato dell'isola, così lontano da me e da questa fazenda.
Accarezzo il mio ventre. Il bambino si è mosso solo una volta, poi la mia prostrazione deve essersi trasmessa anche a lui, creatura innocente. Dietro di me il letto, dove Francisco ha già riscosso più volte il il suo credito. Faccio tutto per mio figlio, il figlio mio e di Juan, ma non so fino a quando potrò resistere. Il pensiero che verrò separato da lui mi strazia.
Mi alzo, faccio due passi. Se voglio uscire a prendere un po' d'aria devo bussare due volte sulla porta, e la guardia mi scorta nel cortile e mi segue dovunque io vada a ogni passo, a ogni angolo.
I fiori che ammantano la facciata del palazzo sono ancora rigogliosi, ma nel cortile non c'è più il via vai di servi e omega che andava e veniva dalle piantagioni. Ho sentito Francisco lamentarsi a cena della mancanza di forza lavoro, del fatto che molti omega erano complici nella ribellione e che lui non può fidarsi di loro. Persino il sorvegliante che aveva assunto Juan era uno di loro, a riprova di quanto pericoloso fosse il piano di suo nipote. Da ieri non lo vedo e ne sono felice. Immagino che sia andato a reclutare altra forza lavoro, forse nella capitale, forse negli antri più remoti di quest'isola. L'ho pregato di lasciare in pace mia madre e lui in onore dei miei sforzi mi ha accontentato.
Cammino tra le palme, sento dietro di me i passi della guardia. Poi la coda dell'occhio intercetta una sorta di lampo, un movimento veloce. Istintivamente rallento il passo. Chiamo la domestica per far sì che chiunque sia stato ascolti la mia voce. Il mio cuore si concede di sperare.
«Fermatevi vi prego», mi dice la guardia, intanto, dopo aver udito uno scalpiccio. «Devo verificare che il cancello sia chiuso. Rimanete qui in modo che non possa perdervi di vista».
Annuisco, so che la guerra in atto tra i ribelli e le forze del governatore hanno ridotto il numero di uomini che Francisco impiega per la sorveglianza della casa.
Uno sparo, delle urla. Qualcuno mi tira per un braccio, e il mio istinto lo riconosce prima di vederlo in viso.
«Juan...», sussurro. Il suo volto reca i segni delle percosse e non oso immaginare in che condizioni sia il resto. Una ferita solca il suo zigomo alto, uno spacco taglia le sue labbra carnose. Attorno a noi per un momento il tumulto scompare.
«Sono venuto a prenderti, ce la fai a correre?», mi domanda. Risentire la sua voce è come tornare a casa.
Lo seguo lungo la strada che porta alle capanne. Mi volto solo un momento perché riconosco la voce di Kal che sta avendo la meglio su una guardia. «Tuo zio non c'è», dico affannato.
«Lo so, abbiamo le nostre spie tra i suoi».
Giungiamo fino alla palma dove tante volte ho incontrato Kal, c'è un cancello nascosto tra la vegetazione che non avevo mai notato. Usciamo da lì, saliamo su un carro. Mi tremano le ginocchia e il cuore corre veloce. Anche Juan è affannato, ancora dolorante per la sua prigionia. Sul carro c'è un altro volto amico, Carlos, e con lui la domestica che era solita portarmi i pasti. Capisco che hanno una storia e che anche loro adesso sono due amanti che il destino ha fatto ricongiungere. Presto anche Kal sale sul carro. Ci scambiamo un lungo sguardo di intesa, prima che lui stesso si metta al comando del mezzo.
Ci inoltriamo lungo i tornanti della scogliera, ma non scendiamo fino alla costa. Ci spingiamo nella foresta. Riconosco il mormorio della cascata, è uno dei posti più interni dell'isola dove spesso io e Kal andavamo a giocare. Juan mi stringe, come se avesse paura di vedermi scivolare via. Kal mi spiega che stiamo andando in una fortezza temporanea, ma che le nostre forze sono in netta minoranza. La nostra unica speranza è che i nobili di Spagna, amici di Juan, raccolgano il suo appello e ci raggiungano. Dovrebbero essersi già messi in viaggio da settimane, mi dice.
Quando arriviamo Juan mi aiuta a scendere, e mi conduce nella tenda che condivide con il dottor Sal.
«Ci sono feriti?», domanda l'uomo.
«No, io e Kal siamo stati bravi e veloci», replica Juan, poi si accascia su una stuoia.
«Cos'hai?», domando preoccupato.
Il dottor Sal mi stringe una spalla. «Avete entrambi ferite che non si rimarginano presto. Riposatevi».
Mi inginocchio accanto al mio compagno, prendo un fazzoletto e lo immergo nell'acqua fresca, con quello tampono la sua fronte. Lui mi stringe il polso tra le dita, si mette piano a sedere. «Sono io che devo prendermi cura di te».
Il mio sguardo cade sulla pelle arrossata del petto che si intravede dalla camicia aperta. Delicatamente la apro. Il serpente marchiato a fuoco sulla sua pelle mi fa tremare di dolore.
Juan mi prende il volto tra le mani. «So che le tue ferite sono più gravi, anche se non si vedono». Sposta una mano nella tasca dei suoi pantaloni, prende lo smeraldo. «Vorrei che lo avessi ancora tu».
Poso la fronte sulla sua. «Credevo di morire con lui», gli confesso. «Perdonami per le parole cattive che ti ho detto in passato, perché non mi hai rivelato niente dei tuoi piani?»
«Non volevo metterti in pericolo, e avevo questa stupida e romantica idea che tu dovessi amarmi anche se non fossi stato un eroe. Volevo che tu mi amassi solo perché ero Juan, un giovane a cui avevi insegnato quanto è bello correre sotto la pioggia tra la foresta».
Sento le lacrime scorrere sul mio viso. «Ti amo». Le nostre labbra si uniscono in un bacio profondo, ma tenero. Lascio che Juan mi infili al dito l'anello.
Non voglio essere che suo. Dormiamo abbracciati, fin quando l'alba non si fa strada nella tenda. Fuori un brusio, che mette Juan in allarme.
Quando usciamo rimango senza fiato: Nali e mia madre sono con Kal. Nali è riuscita a scappare prima che la retata la condannasse a morte certa nella locanda, mia madre, invece, cercava di raggiungermi ed è stata trovata da Kal, su indicazione di Juan, che conosceva il suo nascondiglio. Ci stringiamo in un abbraccio incredulo, ma sono le parole di Kal a riscuoterci.
«La barca è pronta», dice.
Juan annuisce come se sapesse. «Cosa significa?», domando.
«Ascolta, qui non è più sicuro per te. Voglio mettere in salvo te e il bambino. Con la barca puoi arrivare in modo sicuro fino all'isola dell'arcipelago più vicino, e da lì imbarcarti per il continente».
«Non voglio». Stringo i pugni, come fa Juan a credere davvero che possa abbandonarlo dopo averlo appena ritrovato?
«Devi», replica lui, paziente. «La barca ce l'ha procurata un amico pescatore di Nali, non c'è tempo».
Mia madre si avvicina. «È la scelta più giusta, verrò con te».
«No. Juan, non posso lasciarti qui».
«Sono io che non posso lasciarti qui. Quanti mesi mancano al parto? Poco meno di cinque, non puoi rimanere qui con noi, e inoltre...»
Se dovessimo perdere, è sulla punta della sua lingua, ma le parole rimangono mute.
A malincuore salgo sul carro guidato da Juan. Il viaggio fino al porto va bene fino a quando, a pochi metri dalla locanda dove lavorava Nali, un cavallo parte al galoppo. Con il cuore in gola riconosciamo le guardie del governatore, presto spuntano altri cavalli, fino a quando è la voce di Francisco in persona a gelare il sangue nelle nostre vene.
Il carro accelera. «Tieniti forte», urla Juan, che prende il fucile e inizia a sparare colpi agli inseguitori.
Abbasso la testa, spaventato per la mia sorte e quella del bambino, se finissi ancora tra le grinfie di Francisco non lo sopporterei. Juan trattiene un gemito, forse l'hanno ferito. Raggiungiamo la spiaggia vicino al porto tramite una scorciatoia, Juan mi aiuta a scendere dal carro, mentre gli inseguitori, a giudicare dallo scalpiccio dei cavalli e dalle loro urla, ci sono di nuovo addosso.
La piccola barca su cui devo salire è ormeggiata placidamente a qualche metro dalla riva.
«Ce la fai a nuotare?», mi domanda Juan, sulla sua pelle percepisco l'odore dell'alfa pronto a tutto pur di difendere il suo omega.
«Non lo so».
«Andiamo», mi incoraggia mia madre.
Juan entra in acqua con me, il mare è caldo, ma i brividi mi scuotono perché so che ogni bracciata mi sta per separare dall'uomo che amo. Sulle mie labbra sento il sale, sulla pelle i vestiti pesanti. Il pescatore mi porge la mano, ma io esito.
Intanto le guardie sono arrivate sulla spiaggia.
«Dove credete di andare?», urla Francisco.
«Juan», mormoro. Se torna sulla spiaggia è spacciato. «Vieni con me».
Un sorriso amaro increspa le sue labbra. «Non posso, il mio onore non mi permette di lasciare i miei compagni e so che me lo hai chiesto solo perché sei sconvolto».
«Non posso andare senza di te».
Juan mi accarezza il viso. Il mio smeraldo, pegno del nostro amore, brilla più che mai alla luce del sole tropicale. Le nostre labbra si schiantano, il bacio sa di sale e dolore. Sa di addio e amore.
«Vai». Sta per dire qualche altra cosa, ma la sua attenzione è attirata dalle navi che stanno entrando in porto. Navi spagnole, navi con lo stendardo della famiglia del padre di Juan. Le sue iridi scure si illuminano. «Vedi? Non hai di che preoccuparti, sono arrivati i rinforzi. Ti raggiungerò presto». Mi aiuta a salire sulla barca, insieme a mia madre. Poi da un colpo sul peschereccio. «Andate», dice.
Lo vedo nuotare verso i vascelli, vedo i loro cannoni brillare. Le mie speranze, però si spengono, quando noto che il governatore ha un suo vascello ormeggiato. La barca si allontana placida, come se fosse un normale giorno di pesca, indifferente al destino dell'uomo che amo. Vorrei buttarmi ancora in acqua, ed è solo l'idea di portare in salvo mio figlio a impedirmelo. Poi, violenta, un'esplosione tinge di rosso l'aria e l'acqua.
Urlo il nome di Juan, mia madre mi trattiene per un braccio e mi costringe a sedermi, in cielo una nuvola di fumo, l'odore acre dell'esplosivo. Dai vascelli volano frammenti di legno e vele bruciate. Non vedo più Juan.
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