Parte 17 - Lev, passione
Lev
Corro al piano di sopra, nella mia stanza. La chiudo a chiave perché temo che Juan venga stanotte a rivendicare il diritto di ripetere quello che è successo nella capanna, e temo di non essere capace di respingerlo.
Sulla mia pelle sento ancora l'umidità della pioggia, il tocco delle sue dita, il modo in cui è entrato dentro di me... Mi affloscio sullo sgabello di velluto davanti alla specchiera. Mi sfioro il volto con le dita alla ricerca di un segno che possa rivelare quanto è accaduto. Sul collo il segno è lieve e, sebbene mi abbia fatto piacere quando Juan vi ha affondato i denti, so bene che non è stato un marchio. Non sono legato a lui, non ancora, non irrimediabilmente.
Sento ancora il modo in cui i nostri corpi si sono avvicinati, una lieve fitta, poi le immagini di lui riaffollano la mia mente e rischiano di far esplodere ancora il desiderio nel mio stomaco.
Non può essere. Perché non sono stato in grado di respingerlo? Perché gli ho permesso di avermi in quel modo? Deve essere solo passione. Sì, lo diceva anche Nali che qualche volta era possibile che un alfa e un omega venissero travolti dal desiderio anche se l'omega non è in calore. In fondo, non è questo che fa Juan quando va alla locanda? Stringo un fazzoletto profumato, in preda alla gelosia.
Posso ancora porre rimedio a quanto accaduto: basterà non cedere più alle lusinghe di Juan, al suo sorriso, al modo in cui si burla di me... Non può essere il mio compagno. Quando la caccia agli omega è cominciata mi sono ripromesso che non avrei mai ceduto a chi è complice di questa ingiustizia, e Juan lo è. Non importa se non ha mai fatto del male a un omega personalmente, basta la sua omertà, il suo essere indifferente a quanto suo zio sta facendo.
La nostra stessa foresta verrà distrutta, e Juan non farà niente per evitarlo.
Un tocco sulla porta mi fa sussultare. «Chi è?», domando, incerto.
«Sono Carlos. Avete bisogno che prepari il bagno per voi? Il signor Juan mi ha detto che avete preso la pioggia».
«No», lo mando via. «Stasera cenerò in camera», aggiungo.
Il mattino seguente uso la scusa di un'infreddatura per fare colazione ancora nella mia stanza e lo stesso faccio per consumare gli altri pasti nei giorni successivi. Il temporale insolito nella stagione secca ha lasciato dietro di sé un'aria umida che a poco a poco viene spazzata via dalla brezza dell'oceano. Dalla finestra odo il mormorio del mare, vedo appena le capanne degli omega e il cancello oltre il quale essi si recano alle piantagioni. Alla maturazione dei frutti di cacao manca poco, cosa accadrà? Cosa accadrà a Juan?, la domanda mi coglie alla sprovvista.
Non faccio in tempo a rifletterci, perché la porta viene spalancata all'improvviso, non l'ho più richiusa dopo i primi giorni per facilitare Carlos nel suo compito di portarmi i pasti. Da allora ho anche preso regolarmente le erbe che bloccano il calore, lo faccio prima di pranzo. È quasi ora.
Juan si staglia sulla soglia, è vestito con gli abiti che usa per andare a cavallo, per scendere fino alla scogliera e alla locanda.
«Siete un villano. Non potevate bussare?»
«Credo che non mi avreste risposto».
«È un mio diritto».
«Un vostro diritto fingervi indisposto perché non sapete accettare quello che provate?» Nei suoi occhi scuri balugina un lampo di irritazione.
«Vi sopravvalutate», sibilo.
Juan si avvicina. Gli bastano solo tre passi per farmi sentire il suo odore e il suo fiato.
«Mio zio si chiede perché il mio futuro sposo diserta i pasti. C'è un ricevimento tra qualche giorno, credete di poter essere presente?»
Mi mordo le labbra. «Cosa credete che mi importi di ciò che dice vostro zio il governatore? Santo cielo Juan, siete più vile di quanto credessi».
Juan stringe i pugni, le sue nocche diventano bianche, le mascelle si serrano. «Mio zio governa quest'isola per il momento, e se non l'avete capito voi siete uno dei rampolli più ambiti per proseguire la dinastia dei nobili alfa. Se non sarete mio, sarete di qualcun altro».
«Lo preferisco», gli sputo in faccia. Non posso credere che sia qui a ricordarmi la mia condizione come se io potessi mai scordare come e perché sono arrivato in questa casa.
«Siete uno stupido e orgoglioso».
«Immagino che per voi l'orgoglio non sia una qualità da preservare. Avete tutto, eppure non siete che un damerino viziato».
Juan rivolge uno sguardo alla finestra, anche lui ha visto Kal che sta lavorando.
«Diversamente dai vostri vecchi amici, non è così?», mi domanda rabbioso.
So bene a chi si riferisce. Sostengo il suo sguardo, penso a Kal che sta rischiando la vita per liberare noi tutti dalle grinfie di Francisco.
Juan mi prende per le spalle. «Rispondete! Vi ho visto confabulare con il vostro amico Kal, credete che non lo sappia? Lo amate?», ringhia al colmo dell'esasperazione.
«Non amo voi, di questo sono sicuro», replico. Perché pronunciare queste parole mi stringe lo stomaco? Perché? Non è forse la verità? «Siete un codardo», aggiungo, «Kal è mille volte meglio di voi che preferite andare in giro per bordelli, lo sapevano anche i vostri genitori, ecco perché vi hanno mandato qui».
Nei suoi occhi balugina un luccichio. La presa sulle mie spalle si allenta tanto repentinamente da farmi quasi perdere l'equilibrio. Le sue labbra, che tanto spesso ho visto incresparsi in un sorriso, si torcono in una smorfia di dolore. Lo sento nel mio petto prima di vederlo apparire sul suo viso.
Si volta e si precipita fuori dalla stanza. «Aspettate», mormoro, ma la mia voce è troppo flebile perché lui mi possa sentire. Lo seguo, ma Juan è veloce.
«Dove andate?», gli domanda Carlos.
Lui non lo degna di una risposta. Arrivo fino al cortile e dopo qualche minuto lo vedo galoppare sul suo cavallo, sul quale non ha neanche sistemato una sella. Esce dal cancello, non sente ragioni, né quelle di Carlos né quelle dello stalliere che lo rincorre con la sella in mano.
Rimango in mezzo al cortile, senza sapere cosa fare.
«Non si preoccupi, fa sempre così quando deve sbollire la rabbia, tornerà presto», mi rassicura Carlos, ma lui non ha visto i suoi occhi prima di andare via, non conosce le parole con cui l'ho colpito come dardi infuocati.
Tornerà, mi dico per tranquillizzarmi. Mi sposto nel salone e copro la distanza che va dalla porta al divano con i miei passi. L'orologio muove lentamente le sue lancette e scandisce la mia attesa. Quando sento lo scalpiccio di un cavallo mi precipito alla porta, ma il mio istinto già sa che non si tratta di Juan. Suo zio Francisco entra con il passo del padrone che non ha a cuore altro che i suoi interessi.
«Finalmente ci degnate della vostra presenza, giovane Lev», dice, rivolgendomi uno sguardo di rimprovero. «Il pranzo è già pronto?», urla a una domestica che ha la sfortuna di passare di lì.
La donna annuisce e Francisco torna a rivolgersi a me: «Spero che mi farete l'onore di sedervi a tavola con me. Vi vedo bene, la vostra infreddatura è passata».
L'idea di mangiare da solo con quest'uomo mi disgusta. «Vorrei aspettare Juan, è uscito a cavallo».
Una risata riecheggia per la stanza. «A quest'ora? Ne avrà per molto, allora. Probabilmente gradisce più le fritture di pesce della locanda che non i raffinati piatti della nostra casa».
Stringo i pugni. «Non è così», gli sputo addosso. Il bisogno di difendere Juan mi fa perdere ogni prudenza.
Francisco si limita a stringere le palpebre fino a far scomparire le sue iridi castane. «Io non ho tempo di aspettarlo, e vi consiglio di farvi trovare a tavola quando sarò sceso. Adesso vado a rinfrescarmi». Mi passa accanto, lasciandomi addosso il suo odore. Mi sfiora con la spalla di proposito, come se per lui fosse indifferente il mio status di promesso sposo di Juan. Adocchio il soprammobile a forma di cigno che ho afferrato una volta per difendermi da lui. Senza Juan qui non mi sento al sicuro.
Intanto le lancette dell'orologio dorato camminano. Per ingannare il tempo lascio che il mio sguardo corra sui decori dorati, sugli angeli che reggono una lira, sormontata dal quadrante con le lancette, ma non serve a nulla. Presto dalla sala da pranzo giunge l'odore delle succulente pietanze preparate dalla cuoca. E Juan non è qui.
Carlos tira indietro la sedia del tavolo per farmi sedere. Il suo volto è scuro e non mi offre più rassicurazioni su dove Juan sia.
«Aveva un impegno subito dopo pranzo, e so che non lo avrebbe disertato», borbotta preoccupato.
Nella mia mente si affollano immagini che sanno di tragedia: Juan disarcionato dal suo cavallo, Juan che cade dalla scogliera, Juan che è stato attaccato dai briganti che infestano l'isola fin da quando il governatore ha infranto l'equilibrio della distribuzione delle risorse.
«Mangiate qualcosa, siete così pallido», mi riscuote Francisco, che si è seduto a capotavola. Lo vedo rivolgere uno sguardo al suo orologio da taschino. «Capisco... siete preoccupato per il vostro promesso sposo. Non vi angustiate, non vi rimanderò nelle piantagioni se lui dovesse abbandonarvi. Siete troppo nobile per questo, inoltre, potrei prendervi io come sposo. In fin dei conti, io e Juan abbiamo lo stesso sangue nobile». Le sue labbra si deformano in un ghigno, poi comincia a mangiare con gusto.
Le sue parole mi rivoltano così come tutto il suo essere. Non immagino di essere toccato da qualcun altro che non sia Juan, neanche da Kal... il pensiero mi colpisce come una stilettata. Il mio cuore batte per il giovane alfa che mi ha costretto a rimanere in questa casa, anche se la mia testa non accetta il suo responso.
«Come fate», comincio pieno di disprezzo, ma un tramestio nel cortile mi interrompe. Prima ancora di vedere la scena che si presenta davanti ai miei occhi, il mio istinto sa che non sono buone notizie.
Juan è portato in braccio da un domestico che lavora nelle piantagioni. Carlos e le altre domestiche si affollano attorno a lui. Juan è privo di sensi, un filo di sangue macchia la pelle del suo viso e la gamba destra.
«Chiamate il medico!», urlo.
Juan viene adagiato sul suo letto, gli prendo una mano, mi sembra troppo calda. Poi con un fazzoletto imbevuto di acqua tiepida tampono la sua ferita. Ci vorrebbe Nali che conosceva i rimedi a tutti i problemi.
«Juan», sussurro.
I suoi occhi rimangono chiusi, mentre il mio cuore si stringe in una morsa. È colpa mia, penso. Colpa delle parole che gli ho riversato addosso, senza ascoltare il suo punto di vista. In questo momento non mi importa che non abbia coraggio, che sia vile, che abbia paura di affrontare suo zio. Mi importa solo che stia bene, che ritorni a fissarmi con le sue iridi scure, illuminate dalla sua impertinenza, che torni a sfiorarmi con le sue mani.
Non mi accorgo neanche che il dottor Sal è entrato nella stanza.
«Sarebbe meglio che usciate», mi dice.
«No», mi oppongo, ma Carlos mi guida fuori dalla stanza.
Un'altra attesa, un altro lento scorrere di lancette. Quando il dottor Sal esce il cielo si è macchiato di pennellate cremisi e rosate.
«Ha bisogno di riposo. È stata una brutta caduta da cavallo dovuta alla distrazione. Ho fasciato la gamba e applicato un unguento sulla ferita alla fronte». Mi sorride bonario. È uno degli alfa più gentili che abbia mai conosciuto. «Potete entrare», mi incoraggia, sollevandomi dal peso di domandarglielo.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro