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La differenza tra ciliegie e amarene (me l'hai insegnata tu)

NB: Sequel spirituale della shot Dimmi che cosa temi, in che cosa credi e finale alternativo della long La finestra senza sole. Consiglio di leggere almeno la shot per orientarsi meglio nelle vicende, anche se sono abbastanza intuibili così come sono.

          Quando fa cose che sa per certo essere stupide, Bruno cerca di non rifletterci troppo su. E, dato che ciò tende a capitare piuttosto spesso, tende a vivere ogni giornata un nun te ne fa' alla volta. Abbraccia quella tinta d'idiozia del proprio essere come abbraccerebbe una qualunque altra dottrina poco sensata. Di fatto, a parer suo, tutte eccetto quella medica, che almeno un poco di senso pratico lo tiene.

Per questo, quando bussa alla porta di Ricciardi quella domenica, non avverte alcun particolare senso d'allarme, se non la parte più sobria del proprio cervello, quella che di fatto ascolta di rado, che gli sibila un esasperato e bravo 'o fesso a tempo con le sue nocche che impattano sul legno.

I passi dall'altro lato non si fanno attendere e, pochi secondi dopo, Ricciardi apre la porta. Bene, esulta senza nemmeno volerlo Bruno, Nelide non c'è. Subito, quel pensiero è seguito da una tenue mestizia per l'assenza di Rosa, ma non lascia che intacchi il sorrisetto che gli rivolge, in risposta al suo sguardo perplesso.

«Bruno,» dice a mo' di saluto, e chiaramente si aspettava qualcun altro.

«Ohi, Riccia',» replica leggero lui, adocchiando la sua tenuta particolare.

Nota subito l'ombra appena intuibile di barba che gli scurisce il viso sempre ben rasato, e i capelli solo blandamente acconciati, senza brillantina e un poco umidi, come se li avesse lavati da poco. Pure in casa, indossa gilè gessato e camicia formale, anche se almeno la cravatta sembra essersela risparmiata e il colletto non lo strangola come al solito. Bruno è certo che, conciato così, ci dorma pure.

«Vai da qualche parte?»

Il sorriso con cui gli risponde è impacciato e, di conseguenza, spontaneo in una maniera insolita, per lui che di solito li barrica dietro un'artefatta compostezza. L'ha colto alla sprovvista, con quella visita domenicale.

«No, in realtà oggi non pensavo di uscire,» risponde solo dopo qualche istante, come ricordandosi di dover parlare. E aggiunge, con una minima contrazione delle sopracciglia: «Il viaggio m'ha stancato.»

Bruno smorza appena il sorriso, senza spegnerlo del tutto.

«Immaginavo. T'ho portato qualche provvista, infatti.»

Solleva il sacchetto di carta scura che ha in mano, suscitando un'inclinazione laterale del capo, l'espressione che ora vira sul perplesso.

«Bruno, non dovevi...»

«Dovevo, dovevo,» lo zittisce, con un cenno verso l'interno. «Mi fai entrare o stiamo qua in bilico per sempre?»

Non ha scelto con vera intenzione quelle parole, ma non si pente del sottotono un poco pungente che gli sfugge. Ricciardi tira le labbra, come avvertendone a sua volta il messaggio implicito.

Non si vedono da quella notte all'ospedale, quando non saprebbe ben dire neanche lui cosa sia successo. Se lo chiedesse a Ricciardi, è certo che non ne caverebbe nulla di più sensato dei pensieri fumosi che gli aleggiano in testa quando ci ripensa.

Quel che è certo, e su cui non nutre alcun dubbio, è che due uomini che si abbracciano e cercano a quel modo così fisico, a prescindere di qualunque pretesa di conforto da un lato e prostrazione dall'altra, dovrebbero o smettere di frequentarsi, oppure frequentarsi in tutt'altra maniera e sotto tutt'altra guisa. Preferibilmente, di nascosto.

Quel che è certo, è che se Ricciardi l'ha baciato, ormai mesi fa, e lui è adesso davanti alla sua porta con un sacchetto di sfogliatelle in mano, probabilmente ci sono molti punti fermi che dovrebbe rivalutare nella sua vita.

Si aspetta, o forse spera, che Ricciardi accampi qualche scusa per mandarlo via, adducendo una stanchezza che non troverebbe troppo forzata, considerando che è rientrato quella mattina da Fortino viaggiando nottetempo. Se non fosse che il suo viso, in confronto a come l'ha visto l'ultima volta, rigato dal pianto in quella notte infausta, è ora rilassato, sereno nei lineamenti, salvo per un lieve alone di mestizia che gli intristisce ancora gli occhi, ma che non li stinge del tutto.

Bruno ha idea che il funerale sia stato catartico, per lui, così come il tornare nei luoghi in cui ha trascorso la propria infanzia e giovinezza proprio accanto a Rosa. Ha anche idea che voglia stare da solo e che l'ultimo dei suoi pensieri sia chiarire qualunque faccenda sia rimasta da chiarire tra loro. Di fatto, mandarlo via sarebbe di per sé un chiarimento più che netto, e Bruno si è preparato all'eventualità di doverlo accettare.

Ricciardi, però, lo sorprende. Lo sorprende spesso, in effetti, ma lui finisce sempre per sorprendersi nel rimaner sorpreso.

«Certo, entra pure.»

Parla spedito, quasi troppo, facendosi da parte e aprendo del tutto la porta.

È Bruno a esitare, stavolta. Forse, aveva davvero sperato di veder declinata quella sua intrusione. Varca comunque la soglia ostentando sicurezza, così come nel piazzare il sacchetto in mano sua.

«Toh, per una volta offro io.»

«Grazie,» dice lui, sbirciando curioso all'interno mentre chiude la porta. «Mi sa che non posso esentarmi dal mangiarne una, se le offri tu.»

«A sapere che per farti mangiare qualcosa dovevo scucire io i soldi, l'avrei fatto prima.»

Si scambiano un sorriso che, in altre circostanze, sarebbe del tutto normale, a corredo dei loro battibecchi bonari e sempre sul filo della presa in giro. Nell'intimità di una casa vuota occupata solo da loro due, però, assume una sfumatura bizzarra, quasi segreta, che rende elettrico quel contatto invisibile.

Bruno distoglie gli occhi dai suoi, sentendoli d'un tratto troppo pesanti addosso a sé. Potrebbe aver compiuto un atto più sciocco di quanto pensasse, a venire là. Fa per togliersi la giacca del completo, a smorzare la tensione, ma si riacutizza quando Ricciardi posa il sacchetto sulla madia e si affretta ad assisterlo, come ricordando le buone maniere, anche se non è certo compito del padrone di casa. Bruno non si sottrae in tempo. Forse, non vuole, ma di recente ha qualche difficoltà a capire cosa voglia e cosa no.

«Nelide non c'è,» dice Ricciardi, un po' in fretta, come a giustificarsi.

Gli sfila l'indumento dalle spalle, gli pare, tentando di toccarlo il meno possibile. Ha idea che ciò renda quel semplice gesto molto più complicato di quanto non sia.

«È ancora a Fortino?»

«No, è rientrata con me, vuol prendere il posto della zia... di Rosa,» si corregge, come se si fosse fatto forza a pronunciarne il nome, e lo fa attorno a un sorriso quasi impercettibile. «È andata alla stazione a ritirare i bagagli che s'è fatta inviare dal paese. Dovrebbe rientrare nel pomeriggio.»

Nel recepire quella che è un'informazione del tutto triviale, Bruno riesce solo a lanciare un'occhiata non troppo discreta all'orologio da polso, che segna appena le due, e a provare un sollievo irrazionale.

«Abbiamo tempo per un caffè, se ti va.»

La proposta di Ricciardi cade tra loro, spigolosa e storta, formulata con un fare bizzarro che sembra notare anche lui, sebbene in ritardo. Come se, d'improvviso, l'atto di bere un semplice caffè insieme dovesse rimanere privato. Bruno nota, e sarebbe impossibile non farlo, le mani nervose che si caccia nelle tasche dei pantaloni, schiarendosi sottovoce la gola.

«A me il caffè va sempre,» replica spigliato, offrendogli poi un'espressione pungente. «Sempre che il nobile barone di Malomonte sappia adoperare una cuccumella.»

Il volto di Ricciardi si distende, e si lascia scappare un piccolo sbuffo divertito. Recupera il sacchetto di dolci e gli fa cenno di seguirlo in cucina.

«So farmi un caffè da solo, Modo, ma grazie per la fiducia.»

«Eh, vediamo, allora. Son proprio curioso.»

Bruno si appoggia coi palmi al piano della cucina con un mezzo sogghigno, ricambiato da un'alzata d'occhi al cielo non troppo credibile. Si riadagia, assieme a lui, in una fragile dimensione di normalità portata però avanti da gesti nuovi, da una vicinanza che non ha mai sperimentato. Si rende conto, con un fremito che non è né piacevole né il contrario, ma lo sorprende con un sorriso che gli tira le labbra, che Ricciardi è la prima persona al mondo con cui condivide la casalinga intimità di una cucina, nonché la prima a preparargli un caffè di mano propria.

Poi, inclina il capo all'indietro nell'osservare i suoi traffici con la caldaia e il filtro della cuccumella. Gli rifila un colpetto sul gomito.

«Ma che fai, ci metti l'acqua fredda?»

«Così viene su prima.»

«Viene su prima se la fai bollire a parte.»

«Rosa la metteva fredda, e così faccio io.»

«La maestria di Rosa ai fornelli era indiscussa; è sulla tua, che tengo dei dubbi.»

«Bru', te lo vuoi far da solo, 'sto caffè?»

«Per carità, Riccia', tua la casa, tua la cucina.»

«Grazie per la gentile concessione.»

Bruno ridacchia, contagiandolo a sua volta in un riso basso, appena udibile, di quelli che solo lui riesce a strappargli con facilità impensabile. Una volta caricata e messa sul fuoco basso la cuccumella, si scosta dalla stufa a gas e si poggia con la schiena contro la cucina, esattamente di fianco a lui. Senza più una parola, attendono che venga su il caffè; e quel silenzio tra loro, interrotto solo dal sibilo della fiamma, non è affatto scomodo, sebbene intriso d'attesa, di quieta trepidazione.

Bruno vorrebbe accostarsi di più a lui, ma rimane saldo al suo posto, le dita che tamburellano lievi sul bancone. Non sa più discernere con esattezza quale sia il nuovo confine tra loro. Un confine che, per quanto lo riguarda, non c'è mai stato, ma che si fa tangibile in quel loro modo sconosciuto di starsi più vicini e, al contempo, più lontani che mai.

Anche Ricciardi sembra muoversi con spavalderia e cautela al contempo. Circospetto in ogni sua mossa, ma audace nelle parole, negli sguardi. Forse non l'ha mai visto così, prima d'ora. Esposto in quel modo quasi folle, aperto a tutto, vulnerabile. Si sta muovendo guardingo in un territorio ignoto, un passo alla volta. Bruno sente di avere un bisturi in mano e di poter recidere inavvertitamente organi e arterie al primo movimento errato da parte di entrambi. E lo sa anche Ricciardi, questo.

Eppure, ancora si espone, ancora si affida a lui con cieca fiducia. Così come ha fatto quella notte, in ospedale, quando gli ha permesso di abbracciare il suo dolore e le sue lacrime senza la più pallida remora.

Bruno non si pente di non averlo baciato, allora. Sarebbe stato meschino, approfittarsi di quella sua fragilità solo per trovare una certezza per sé.

Ricciardi si muove appena accanto a lui, come se potesse avvertire il tramestio d'ingranaggi dei suoi pensieri.

«Volevo ringraziarti,» mormora poi, la voce quasi persa tra loro.

«Per cosa? Per scocciarti anche la domenica?»

«Anche,» replica lui, con un'occhiata fulminea, così rapido che sembra stupirsi lui stesso. Si schiarisce la voce. «Intendevo, per quanto hai fatto in ospedale.»

A Bruno non sfugge il modo ambiguo in cui articola quel ringraziamento, in modo fin troppo formale, ma gli dà il beneficio del dubbio. Gli offre una via di fuga, anche se forse non dovrebbe:

«Non avrei potuto fare altrimenti,» replica, senza scomporsi. «Sono un medico, dopotutto. Non avrei mai lasciato Rosa in mano a qualcun altro.»

«Certo, lo so,» annuisce lui, frettoloso. Sembra sulle spine e ondeggia un poco contro il piano della cucina, le mani strette a pugno sulle braccia incrociate. «Non... non mi riferivo a Rosa, però. Non solo.»

Ritrova i suoi occhi e Bruno vi legge dentro quel limbo in cui si sono cercati e trovati, nella penombra del suo ufficio, in cui ogni gesto era parso dissolversi. E gli è chiaro che, adesso, non stia più scappando come ha tentato di fare finora. Affatto, lo sta fronteggiando a viso aperto, con una ritrosa spavalderia che lo coglie di sorpresa. Ancora una volta.

Sorride in risposta, con un fremito a percorrergli le labbra che non è certo di nascondere del tutto.

«Non avrei potuto fare altrimenti,» ripete, con più intento. «Vale per tutto ciò che ho fatto.»

Nel dirlo, si accosta di un soffio a lui, in un fruscio di vestiti così tenue da essere a malapena percettibile. Ricciardi si irrigidisce, per poi rilassare le spalle, le mani che scivolano via dalla posizione tesa in cui si era costretto, giungendosi in grembo. Si inclina di un millimetro verso di lui, preme il braccio contro il suo in un'orma di calore delicato.

Sono troppo vicini, adesso, per mantener su la pantomima che hanno recitato finora. Bruno si maledice nel lasciarsi sfuggire una smorfia microscopica, a quello spostamento: le costole gli dolgono ancora e non sa mai quando lo coglieranno le fitte. A mascherarlo, in un impeto che non frena per tempo, posa la tempia contro la sua. Lo fa lentamente, dandogli ogni opportunità per scansarsi, ma lui non si muove. Al contrario, ricambia quella lieve pressione, sebbene a occhi bassi. Sospira pianissimo, un refolo d'aria gentile che gli discende lungo il collo.

Bruno inspira il suo profumo che, così vicino, gli inebria il naso, accentuato dai capelli e dalla pelle appena lavati: è un'orma boschiva, di tiglio e pini, ma anche di mare e salsedine, come se si portasse sempre la sua terra addosso. Si sorprende nel riconoscerla.

Non sa, di preciso, quando ha iniziato a notare quella fragranza. Forse, è iniziato da un pensiero fugace su quale acqua di colonia usasse, poiché gli piaceva particolarmente. Non gliel'ha mai chiesto, poiché, in ogni caso, stava bene addosso a lui e non erano comunque domande da farsi a un uomo.

Non si è mai soffermato troppo su quel pensiero. Così come non si è mai soffermato troppo su altri pensieri altrettanto poco eclatanti ma, a ripensarci, così casuali e sconclusionati da fargli dubitare del proprio acume medico nel diagnosticarsi una qualunque devianza.

Difatti ha rivolto, più e più volte, un apprezzamento mentale ai suoi capelli di quel corvino intenso, sempre così ordinati, attribuendo la considerazione al fatto di possedere, invece, ricci indomabili che ben poco contribuivano al suo mantenere un aspetto decoroso, come se gli fosse mai fregato qualcosa di farlo.

O del notare come le sue iridi cangiassero colore a seconda della luce, passando dal ceruleo intenso, a un tenue verde acquamarina, al grigio stinto: un fenomeno medico dall'astruso nome di matiallomenes. Una nozione che aveva ripescato da un qualche seminario d'oculistica, branca che non gli era mai interessata troppo, e che, d'un tratto, gli era balenata in testa nel vedere quel fenomeno peculiare da vicino.

O, ancora, dell'invidiargli un poco le mani ben curate, dall'incarnato pallido, che non avevano conosciuto un singolo giorno di fatica. Facevano apparire le proprie come ben più sgraziate, segnate com'erano dai calletti dei ferri chirurgici e dal sole, che gli appiccicava addosso il proprio nome in modo visibile, marchiandolo di una sfumatura brunita.

Mentre su di lui, al contrario, dipingeva solo aloni rosei sulle guance che, quando si attardavano troppo sul lungomare nelle domeniche estive, si accendevano a volte di un rosso intenso, portando alla luce qualche rara efelide rimasta sepolta dall'inverno.

Bruno, da quando Ricciardi l'ha baciato di nascosto, ha iniziato a chiedersi sempre più spesso quanti di quei pensieri fossero indirizzati a lui per il puro fatto di desiderare per sé una sua data caratteristica, o mosso da triviale curiosità, e quanti fossero dettati da un qualcosa di più profondo e sfuggente, riferito al suo intero modo d'essere. Di desiderare per sé lui in quanto persona composta da tutti quei minuscoli dettagli, non in senso di tangibile possesso, ma nella certezza di averlo accanto, vicino, come costante presenza.

E non l'ha mai avuto così vicino come ora. Né quando lui stesso era febbricitante, annientato dalle percosse, e aveva conosciuto le sue labbra oltre un velo offuscato dal delirio; né pochi giorni fa, nello stringerlo a sé. Quando con le sue, di labbra, aveva tracciato ed esplorato le linee del suo volto come in sogno. Si sente in un limbo onirico anche adesso, con la tempia premuta contro la sua, le guance accostate, i capelli che si mescolano in ciocche nere e castane.

Poi, in un gesto così cauto che sembra appesantito da una zavorra inamovibile, Ricciardi si scosta da lui e solleva la mano libera a sfiorargli il volto, nel punto esatto in cui Bruno sente ancora tirare la cicatrice che gli spacca il labbro superiore. Non si è ancora rimarginata del tutto.

Rilascia un respiro appena udibile, ma Bruno lo avverte con chiarezza, tiepido contro la pelle. La sua voce gli sfiora l'orecchio, bassa, leggermente roca:

«Quanto ti ricordi, di quello che ho fatto quella notte?»

Non ha bisogno di specificare quale: basta il suo tocco preciso su quel segno roseo che gli incide il volto in una sottile linea priva di barba.

«Più o meno tutto.» Bruno si fa un poco più serio e deve trattenere l'impulso, scaturito da non sa dove, di premere le labbra contro le sue dita. «Non ero certo di non essermelo immaginato, però. Poi, tu ti sei fatto un po' troppo sfuggente per riuscire a capirlo.»

Una smorfia incrina il sorriso di Ricciardi.

«Lo so,» non nega, lasciando scivolar via le dita in una carezza fuggevole. «Puoi darmi torto?»

«Non del tutto. Non ho fatto nulla di diverso, in fondo.»

Stavolta, il suo sorriso si torce del tutto in una piega amara.

«Di certo, non sei scappato.»

«Non mi pare che adesso tu stia scappando.»

Prima che possa ribattere, Bruno posa una mano sul suo viso, avvertendone il fremito a fior di pelle. Percorre lieve il profilo del suo zigomo con la punta del pollice, a collegare in linee invisibili i minuscoli nei scuri che gli picchiettano la pelle. Ricciardi socchiude le ciglia al contratto, schermando del tutto lo sguardo.

Dopo secondi che sembrano dilatarsi in eterno, si muove appena. Non per scansarsi, ma per cercargli la mano, in punta di dita, sfiorandogli appena il dorso. Senza un respiro, interseca le falangi alle sue, mezza alla volta.

Inclina il capo, vicinissimo, il naso che sfiora il suo. Poi si scosta un poco, riguadagnando distanza e aria. Bruno trattiene l'impulso repentino di annullarla, facendosi a sua volta indietro. Non si ritrae del tutto, però, né dal suo tocco, né dal suo sguardo.

Fa invece scorrere il pollice sulle linee del suo palmo, causandogli forse una lieve ondata di solletico, che si infrange nel sussulto più accentuato che lo attraversa, poi sulle nocche e sul dorso liscio, seguendone le vene e la raggiera d'ossa e tendini come stesse portando avanti un esame anatomico. Un esame piacevole e affatto accurato, che gli fa tremare appena le dita.

Le labbra di Ricciardi si inclinano in un sorriso, uno di quelli più segreti, spontanei, che gli disegnano una singola fossetta sulla guancia e gli illuminano gli occhi chiari.

«Bruno, che stiamo facendo?»

Lo dice a mezza voce e, alle sue orecchie, suona ancora una volta sia incredibilmente imbarazzato che audace. Audace in un modo nuovo, di chi si è stancato di scappare.

«E che stiamo facendo, Riccia'?» replica lui, altrettanto piano e con un sorrisetto che gli sfugge, forse troppo impertinente, commisurato al tremolio di pensieri e sentimenti che gli affastellano dentro. «Dimmelo tu.»

Lui abbassa lo sguardo, tirando un sorriso ora sottile, di nuovo nervoso. Stringe le dita tra le sue. Tra loro scorrono secondi di silenzio che, stavolta, sembrano essere leggeri, quasi incorporei.

Finché, come ubbidendo a un impulso segreto, Ricciardi non rialza gli occhi nei suoi. Bruno vi legge dentro una determinazione che gli ha visto, forse, solo nell'affrontare i casi più delicati e impegnativi, nel lanciarsi a testa bassa contro un pericolo. Stavolta, però, è ammorbidita da una luce più chiara, che mette in risalto la sfumatura più azzurra delle sue iridi.

In un battito di ciglia, prima che Bruno possa anche solo anticiparlo, preme le labbra sulle sue. Un tocco morbido, fugace, che gli spezza e ricompone ogni pensiero. Lo riconosce come se gli fosse sempre appartenuto: lo ha già accolto una volta senza nemmeno capire che gli sarebbe mancato.

Ricciardi si ritrae di un singolo millimetro, il volto ora bollente sotto il suo palmo, il respiro erratico quanto il suo. Non gli stacca le pupille di dosso, come attendendo una replica, una protesta, una qualunque reazione.

Tutto ciò di coerente che riesce a offrirgli Bruno è un altro bacio a fior di labbra, quasi più incerto del primo, stentando persino a non incespicare nei respiri.

Nel perdersi in quella pressione morbida, pensa ancora che venire fin lì sia stata una decisione sciocca, imprudente, dettata da impulsi che avrebbe dovuto sopprimere; e non riesce a pentirsene nemmeno per sbaglio.

Qualunque cosa sia accaduta tra loro, adesso è diverso. Sono entrambi lucidi, nel pieno controllo delle loro emozioni, ben radicati nel presente, padroni dei propri atti. Ogni gesto è pensato, intenzionale, voluto. Ogni gesto fa rumore, esplode, è innascondibile.

E non sono più compiuti in segreto o evitati, ma cercati nuovamente da entrambi, quasi nello stesso istante, in un contatto più lungo che fonde le loro bocche ed è elettrico, bollente.

A Bruno sembra di non aver mai baciato nessuno in vita sua, fino a quel momento. Non perché non vi abbia mai riversato alcun sentimento, o perché non abbia mai amato in vita sua; l'ha fatto eccome, spesso in modo frivolo e superficiale, a volte con troppa foga, forse confondendo l'amore col sesso e viceversa.

Innamorandosi di un bel corpo, di carezze dolci, di occhi scuri o azzurri o verdi, per una notte in cui i baci a volte non erano concessi e a volte nemmeno si contavano. Erano atti banali, quasi dovuti, senza dubbio piacevoli, ma meramente fisici, incontri di corpi che si cercano per non stare troppo da soli o per un guadagno venale.

Si era sempre rifiutato di legarsi a qualcuno, lui: quando di libertà ne aveva già così poche, voleva almeno rivendicare quella di non lasciarsi incastrare in qualche quadretto di rappresentanza ufficializzato.

Non aveva mai provato quell'estrema, quasi dolorosa consapevolezza di ogni millimetro delle proprie labbra premute contro quelle di qualcun altro. Di un uomo. Non si era mai soffermato a saggiarne appieno la morbidezza, a solcarne il profilo, a rimodellare le proprie fino a conoscerle in ogni loro curva e screpolatura.

Non si era mai sentito sopraffatto da un gesto così triviale che, adesso, racchiude tutto ciò che di giusto e sbagliato esista al mondo in quella nicchia tiepida tra loro.

Quando si scosta, solo di un soffio per riprendere fiato, non ha l'impressione di aver solo baciato Ricciardi, ma di averlo urlato al mondo intero. Di avergli preso l'anima dal petto per vederla davvero e di aver esposto la propria in pieno sole. Non è stato un bacio quello, ma un atto irrevocabile che pone entrambi nella stessa, fragile bolla che finora hanno cercato di evadere.

Sente le sue dita che affondano nei suoi ricci, delicate, e incontra i suoi occhi leggermente lucidi, limpidi, ma traditi da un'ombra repentina. Un'ala nera che batte rapida e oscura il sole. Lo sanno entrambi, che non c'è un ritorno, adesso. Finora sono riusciti a fingere, a prendersi in giro. Ad aggirare in punta di piedi quel bacio rifuggito e, poi, carezze troppo sentite, nascoste solo in parte dal buio e da una cecità concordata.

In quella frazione di secondo, sa che i suoi occhi portano impresso il marchio di quella medesima consapevolezza. Ed è d'un tratto spaventoso, pensare di portarla là fuori alla mercé di un mondo così ostile da poterli spezzare. Bruno la sente, la morsa gelida della paura in fondo allo stomaco: li sente, i calci e i pugni che gli hanno spaccato le ossa e il volto, sente il sapore del sangue e il rimbombo del proprio cuore impazzito che pareva volergli scappare dal corpo e fuggire da lì, abbandonandolo a un oblio che non arrivava mai.

Era arrivato Ricciardi, però, con quella sua caparbia temerarietà che gli aveva fatto rischiare tutto per salvarlo. Il pensiero che possa ricapitare gli fa venir voglia di non essere mai venuto lì e, al contempo, di non lasciarlo più andare.

Il bacio che imprime ora contro le sue labbra, sospinto da quel respiro d'angoscia opprimente, è più breve, più scomposto, più perentorio. E viene accolto con la medesima fermezza, senza alcuna ritrosia. Di chi diviene inamovibile contro qualunque forza contraria, ancorato al fondale con ogni oncia del proprio essere per resistere alle intemperie.

Come spazzata via, la tempesta che l'ha scosso si dirada, lasciando il posto a una bonaccia quieta nel petto che, ne ha contezza solo ora, è sempre stato lui a infondergli. Senza lui a frenarlo, a instillargli quella calma con la sola forza di uno sguardo o di un sorriso celato, Bruno sa che si sarebbe fatto ammazzare o arrestare già da anni, con le sue idee eversive e colpi di testa e cinismo inopportuno.

Senza quel commissario silenzioso ma irremovibile che, in qualche modo, gli aveva placato lo spirito, rendendogli più sopportabile un mondo che gli andava troppo stretto e cercava e cerca ancora di piegarlo e zittirlo.

Glielo spinge contro le labbra, nell'anima, quel grazie che gli preme dentro forse da anni, e che non ha mai trovato la maniera per dimostrargli appieno. Non crede che basti nemmeno questo. Ma vuole provarci, come quando s'incaponisce sulle sue questioni di principio impossibili. E questo, questo gli sembra infinitamente più semplice che continuare a sopravvivere in un mondo che vuole schiacciarlo a ogni passo.

Quando si separano, Bruno lo stringe a sé con energia non più trattenuta. Gli preme un palmo contro la nuca, ad accostarlo ancor di più al petto dolente. Non gli importa delle costole non ancora saldate, né di qualunque altro affanno.

Lo stringe adesso, perché forse non potrà rifarlo per molto tempo e, sebbene gli sia sempre bastata la sua vicinanza discreta, vuole riempirsi le braccia del suo calore fino a farsi male, finché può. Trova con sicurezza istintiva la cicatrice che gli segna la nuca. Ricciardi respira contro di lui, gli stringe le dita tra le ciocche come a trattenerlo vicino.

Forse non lo sanno nemmeno ora con esattezza, ciò che stanno facendo. Qualunque cosa sia, basta a entrambi, per ora, almeno per quell'angolo di tempo e spazio custodito tra quelle quattro mura.

In quel mentre, invadente ma anche puntuale nella sua mondanità, la cuccumella sfiata con improvvisa verve, mandando un rivolo d'acqua a sfrigolare sul fornello. Gli occhi di entrambi scattano verso la stufa. Sciolgono la stretta quasi in sincrono, con un lieve sbuffo che sa di imbarazzo, cose non dette e altre gridate con troppa forza.

Bruno allunga in automatico una mano a spegnere il gas e a capovolgere poi la cuccumella sul tagliere lì vicino con un gesto svelto. Poi, poggia di nuovo la fronte contro la sua, senza nemmeno doverci pensare, come se fosse l'unico posto dove può posarla.

«Non sia mai che si bruci,» commenta con un occhiata all'aggeggio gorgogliante.

Lo dice con un sorriso rapido e, se lo riconosce, a sproposito, tentando di riempire il silenzio anche se non ve n'è alcun bisogno. Ricciardi non replica, ma sembra di nuovo incerto su come procedere. Come sempre, però, è svelto a riprendere in mano le redini della situazione, con una spigliatezza che, per lui, sarebbe insospettabile:

«Quindi, lo vuoi ancora, questo caffè?»

Ricciardi lo chiede senza scostarsi di un millimetro dal suo volto, giocherellando con le sue ciocche ondulate. Una rara serenità grazia i suoi occhi sempre un poco nebulosi. Bruno sogghigna di rimando, incastrando le pupille nelle sue.

«Chi sono io per rifiutarne uno fatto da te? Magari, t'è pure venuto bene, nonostante tutto.»

«Guarda che, se non ti fidi, ce ne possiamo andare al Gambrinus.»

Allenta la presa su di lui e Bruno ride del suo tono un po' piccato e di quanto si dimostri permaloso, a volte.

«Vabbuò, prima di decidere, fammelo almeno bere.»

Ricciardi soffia via dal naso una risata appena sonora, colto in fallo. Recupera poi un piattino e le tazzine, mentre il caffè scende nella cuccumella. Bruno piazza tra loro le sfogliatelle, sul piano della cucina, invitando l'idea di non sedersi, così da rimanere vicini.

Ricciardi la accoglie senza una parola, suggellando quell'intenzione nell'addentare per primo la sua e lasciando freddare un poco il caffè, da bravo eretico, come fa sempre. Dal canto suo, Bruno si ustiona come sempre le labbra nel voler prendere il primo sorso troppo presto, quando è ancora ustionante, suscitando uno scuotere del capo rassegnato da parte dell'altro.

Per almeno un pomeriggio, è bello dimenticarsi di dover uscire da quella cucina, prima o poi. Là dentro ha un sapore diverso, quel piccolo rituale tra loro; il sapore di un qualcosa che ha finalmente trovato il suo posto per esistere appieno.

«Allora? Com'è?» gli chiede Ricciardi dopo un po', mezzo ironico, mezzo col tono di chi è davvero in pensiero.

Bruno non risponde subito, deglutendo e poi trattenendo un risolino strozzato nel vedere che lui s'è inzuccherato la punta del naso. Ricciardi lo fissa interrogativo, ma Bruno scrolla le spalle e non dice niente, ritenendo molto più divertente lasciarlo ignaro di quel dettaglio per suo personale intrattenimento.

Invece, gli stampa un breve bacio sulla guancia, con abbastanza pressione da pizzicarlo con la barba e fargli strizzare gli occhi in un sorriso che gli tende gli zigomi.

«È una chiavica, 'sto caffè,» gli dice senza sforzarsi di suonare convincente.

Ricciardi sorride di più, con una lieve risata che gli rimbalza chiusa nel petto e dietro le labbra. Poi, sta al gioco, guardandolo fisso in volto e risultando solo esilarante, con quella tinta maliziosa nello sguardo, un sopracciglio appena inarcato con saccenza e uno sbaffo di zucchero sul naso.

«Dici che te ne devo fare altri, per migliorare?»

«Direi proprio di sì. Molti altri.»

A quelle parole, Ricciardi lo bacia di nuovo, con impeto inatteso e una mano che gli affonda tra i capelli, rischiando di fargli rovesciare la tazzina per la sorpresa. E Bruno capisce in quell'istante che non si abituerà mai a lui, a quel suo modo d'essere quieto e insieme imprevedibile, come acque apparentemente calme ma profonde, scosse da gorghi invisibili. Non vuole abituarsi.

«Almeno cento?»

Ricciardi glielo chiede staccandosi appena dalle sue labbra, con scintille che non ha mai visto prima danzargli sul volto. Giocose, intense, audaci come lui, come ogni singolo gesto che ha osato donargli e ogni lembo di se stesso che ha osato esporgli. Bruno lo bacia di rimando, sulla lingua l'aroma di uno dei caffè migliori che abbia mai bevuto, e risponde in un soffio:

«Almeno mille.»

Nota dell'Autrice:

Cari Lettori,
ormai, il mio brainrot totale lo conoscere. Questa shot l'ho scritta in tipo... un pomeriggio?
E si vede, è piena di difetti, andrebbe revisionata da capo a piedi e pecca d'inventiva but I don't care!

Volevo togliermi lo sfizio di scrivere questo finale alternativo per La finestra senza sole (che, in realtà, ne avrebbe anche un altro molto più angst, ma quello me lo tengo per i giorni bui). Dopo aver affrontato Bruno in un momento cupo, volevo provare a gestirlo in un contesto più frivolo, sebbene con la sua buona dose di pare mentali. Non riesco ancora a scriverlo come vorrei, ma un po' alla volta lo sto inquadrando :')

Piccola nota al titolo: al solito, l'ho rubato da una canzone dei Pinguini Tattici Nucleari. Il riferimento è alla canzone "Pastello Bianco", in cui si fa riferimento a questa differenza tra ciliegie e amarene. Per farla molto breve, questa differenza non ha una vera valenza letterale di per sé, ma simboleggia tutte quelle piccole cose insensate e frivole che vengono a costruirsi all'interno di una coppia e che risultano incomprensibili a occhi esterni. Quelle fisse, quelle battute ricorrenti, quelle routine inconoscibili a tutti, se non al proprio compagno di vita.
Ecco, per me le ciliegie e le amarene di Ricciardi e Bruno sono i caffè e le sfogliatelle al bar Gambrinus, loro luogo di ritrovo prediletto. Volendo prendere il titolo più letteralmente, questa differenza potete intenderla come la differenza tra l'avere qualcuno nella propria vita e nel volerlo attivamente accanto a sé. Conclusione alla quale Bruno arriva dopo 5k di parole ma, oh, è stato sempre più rapido di Ricciardi che ci ha messo 8 capitoli di long!

Grazie a chiunque abbia sopportato questa mia ennesima follia e a chiunque vorrà lasciare una stellina o un commento ♥

-Light-

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