Capitolo 24
Philly, 1998.
Il vento fruscia tra gli alberi, sibila e scuote le foglie assieme ai rami più piccoli, che sbattono e tremano sui vetri lucidi come il becco ritmico di un picchio. Bussano un paio di volte di troppo, accompagnano il grugnito scocciato della testa bruna che si gira e rigira sotto le coperte, poi smettono: per qualche istante, non per molto, e solo perché una folata li spinge dalla parte opposta; paiono quasi intrecciarsi tra loro, annodarsi lì in punta, trasognati, dove neppure le rondini e i passerotti osano sostare o mettere su famiglia.
Lui invece, la testa bruna, sbuffa. "Sono sveglio", si dice, ma non vuole aprire gli occhi e tantomeno alzarsi. Arrotolato come un burrito, continua a rimbalzare sul materasso a colpi di reni. Il cigolio gli penetra nelle orecchie, nel cervello, e lo fa rabbrividire fin dietro alla nuca. Lì gli si rizzano i capelli e sulle braccia i peli. Forse, chissà, a dirla tutta non lo ammetterebbe mai ad alta voce: "Ho paura". Solo in casa, senza nessuno a fargli compagnia, ricorda la bugia della sera precedente: "Ho la febbre", vale a dire "la scusa peggiore" per non fare il compito di biologia, per non sezionare l'innocente rana che la professoressa Dude gli ha promesso avrebbe trovato sul suo banco; perlomeno a detta di Nate, suo fratello, che biasimandolo con uno sguardo superiore ha detto: "È inutile che ti comporti così: non fare il bambino, Ezra...", e ancora, "... devi crescere". Ironico, se si pensa al fatto che abbia solo cinque anni più di lui, perché "Quanto mai Nate ha trovato il tempo di crescere?", si chiede giustamente Ezra. Il problema tuttavia, non è nello scatto d'età tra i quattordici e diciannove anni, bensì nel fatto che "Nate lo sa". Ed Ezra non fa che ripeterselo da ventiquattro ore. "Lui sa sempre tutto". Ancora uno sbuffo e si tira a sedere di scatto. Come riemerso da un torpore anestetico, Ezra posa la schiena contro il cuscino gonfio, affonda nella conca lasciata dalla sua testa e volta il capo
Sul comodino c'è ancora la tazza di tè che ha scolato la sera prima, la stessa che, quando ancora era piena è bollente, aveva usato per far salire il mercurio del termometro e fingere un bel febbrone da cavallo.
"Questa volta non la passerò liscia", pensa. Si passa una mano sul viso, cerca un sudore che non esiste e preme il palmo sugli occhi ancora stanchi, appannati dal sonno. "Nate lo dirà alla mamma, e lei odia le prese in giro". Mugola, le labbra storte in una smorfia, infine si allunga e tasta accanto all'abat-jour, raggiungendo a tentoni gli occhiali dalla montatura tonda. Li afferra, se li infila e, subito, raggiunta la sommità del naso, batte le palpebre un paio di volte. Messo a fuoco l'armadio, sbadiglia senza il minimo ritegno e si stiracchia come un gatto al sole. "Magari lo ha già fatto". Scivola fuori dalle coperte e appoggia i piedi in terra: le piante calde sul tappeto rado, sulle mattonelle; muove qualche passo attorno al letto e osserva dall'alto le lenzuola attorcigliate come a formare un tornado sul ferro battuto. «O magari no...», sussurra mentre si piega. Le raggiunge e, dopo averle raccolte, non riesce neppure a stenderle, che ode un:
«Devi sentirti davvero bene adesso», mormorato con ironia dall'uscio della porta.
Dunque sussulta e sgrana gli occhi. Con le sopracciglia arcuate, sollevate in spicchi di luna nuova, trattiene il fiato. In un singulto, aspira il nome: «Nate», che in realtà è solo il diminutivo di Nathan, suo fratello maggiore.
E in un attimo, con una mano sullo stipite, lui lo canzona. Gli fa eco, dice: «Nate», con voce distorta, a naso arricciato, schiocca perfino la lingua sul palato, perché vede Ezra troppo sconvolto.
«Cosa ci fai qui?», azzarda ancora titubante, quasi balbettando, «Pensavo fossi uscito», dice; e il cuore inizia a galoppargli in petto, desidera schizzargli in gola per capitolare accanto al gatto acciambellato.
Nathan si passa le dita tra i capelli. «Pare che il mio fratellino avesse la febbre», inizia frustrato, «così mi è stato detto», e fa spallucce.
Di rimando Ezra pensa: "Mi viene da vomitare", e neppure sa il perché; dopotutto succede sempre, quando è nervoso, quando si sente con le spalle al muro, ed è diventata un'abitudine.
Allora Nathan cita: «"Resta a casa, Nate, e controllalo finché non si riprende, perché io devo andare a lavoro"». Abbandona la presa sul montante, si avvicina di un paio di passi e, mentre Ezra trema e abbandona lenzuola e coperte, si lascia scappare un suono divertito. «Qual è il problema?», chiede, «Hai forse paura che racconti a mamma di come l'hai presa in giro?».
"Sì, esatto": vorrebbe rispondere così, e sul suo viso si legge bene; tuttavia scuote la testa e abbozza un sorriso tirato. «Affatto», nega, «e perché dovrei aver mentito su una cosa del genere?». Si porta una mano alla fronte e finge di considerare la temperatura senza l'ausilio del termometro. «Ma hai ragione tu, Nate, sto meglio...». Tasta un paio di volte fino alle tempie, annuisce alle sue stesse parole, infine sospira e ritira il braccio sentendosi dire:
«Non ne dubito». Un lamento basso, uno sguardo intenso.
"È chiaro che non creda a nulla di ciò che ho detto". Ezra si sente a disagio, ma non vuole darlo a vedere e riprende a trafficare con le lenzuola. Nelle orecchie il miagolio del gatto tigrato appena sveglio, lo sbadiglio che ne consegue e il grattare degli artigli sul tappeto; poi la voce di Nathan:
«Vuoi che ti aiuti?», borbotta, «Ti sei alzato adesso».
Ma lui scuote la testa. «No, non preoccuparti». Tiene lo sguardo fisso sulle pieghe delle coperte, batte entrambi i palmi sul materasso per tirarle ai bordi e spaventa Romeo, che fugge via come una scheggia verso il corridoio. Ancora un miagolio, il tonfo del corpo grasso e peloso sul primo gradino, le unghie che arrancano verso il secondo e poi i passi svelti sugli altri. «Lo faccio sempre da solo, Nate», minimizza Ezra, «non mi piace lasciare la stanza in disordine».
«Precisino», lo apostrofa, prima di sentirgli sbuffare un suono divertito.
«Sono abitudinario», obietta in una risatina.
Eppure Nathan non sembra convinto: ha una sua teoria, quando si piega in terra, a un passo dal tappeto, per raccogliere il cuscino lanciato da Ezra durante la notte. «Non credo proprio», scandisce, «sei e sarai sempre un precisino».
"Colpito e affondato", si dice Ezra. Ha un grosso sorriso dipinto in faccia, quando scuote la testa. Di colpo si sente come un sottomarino di battaglia navale, ecco perché è certo di essere stato "Colpito e affondato" con il cuscino che gli batte addosso, sul fianco. Lo guarda dall'alto, mentre finisce in terra, e dopo averlo raggiunto lo sprimaccia, lo sistema accanto al gemello. «Se lo dici tu...», commenta, «... forse, chissà», posa una mano sulla testiera in bronzo, si sorregge. «Anche papà lo diceva sempre». Smette di parlare, perché non ha più il coraggio di nominarlo. La pelle gli si accappona, i peli si rizzano come piume d'oca in preda al panico. Ricorda la voce di Matt Harris che, tonante, rimbomba per tutta casa a partire dal salone: "Sei un precisino del cazzo, Ez", dice; "Smettila di sistemare i libri in ordine alfabetico"; oppure "Perché cazzo ti metti la cravatta per andare a scuola?".
E a Nathan basta questo accenno per cambiare espressione: sentirlo nominare gli tende i muscoli del viso, lo tramuta pietra. «Matt». Una parola, un nome. Gli occhi si restringono: sono lame, fuoco fatuo. Retrocede di un passo e raggiunge l'armadio solo per avere le spalle al sicuro e non sentirsi il suo fiato sul collo. Con le braccia intrecciate al petto, mormora: «L'opinione di Matt Harris vale meno di zero». È un ringhio, è una frase masticata, che sa di rancore.
"Matt Harris", si ripete Ezra, con le guance rosse. «Lo so». Annuisce e serra le dita attorno al bronzo, perché detesta il nome completo di suo padre almeno quanto detesta non riuscire a pronunciarlo per abitudine. E con la schiena tesa, che brucia, ode i passi di Nathan farsi nuovamente vicini. Solleva il mento, si accorge di averlo tenuto basso e deglutisce, mentre le dita di affusolate di Nathan gli s'infilano tra i riccioli. Non dice niente, anche se vorrebbe. "Mi dispiace": inizierebbe così, sì. "Io non sono come lui", gli assicurerebbe, "Non è colpa mia se ha picchiato la mamma, se lei ha dovuto cacciarlo e lui è tornato indietro". Sì, questo direbbe. "Non è colpa mia se siamo dovuti scappare in piena notte, se abbiamo dovuto lasciare la città"; eppure, forse per vigliaccheria, morde il labbro inferiore e tace.
«Mi sarebbe piaciuto farti conoscere mio padre, sai?».
A quelle parole, Ezra batte le palpebre. «Sarebbe piaciuto anche a me», ammette in un mormorio, le labbra piegate all'insù.
Nathan ritira le dita e si vede puntato dalla curiosità nuda e cruda, perché "Non gli ho mai parlato di lui". Muove qualche passo attorno al letto e lo ammette sottovoce, con un: «Non è colpa tua, Ezra», infine si siede alla scrivania, «sono io a non nominare mai mio padre, a non raccontare mai nulla di ciò che facevamo insieme», dice, «Forse tengo troppo a quei momenti...».
Di rimando, Ezra rilassa le spalle. «Calvin», lo nomina per la prima volta e ha quasi paura di vedergli perdere la testa; ma non succede: ecco perché sospira, quando gli vede fare un sorriso morbido. «Ma se fosse ancora vivo, Nate, io non sarei nato». E subito, appena lo dice, si dà dello stupido. Deglutisce, sente un groppo di saliva pesare in gola e pensa: "Sembra che io sia felice che Calvin sia morto".
Gli occhi di Nathan brillano di un velo lucido, nelle lacrime che trattiene. Non si arrabbia, però, perché conosce la sincerità cronica, quasi patologica, di suo fratello. «E chi lo sa», dice. Si stringe nelle spalle, emette una risatina ironica. «Magari saresti nato lo stesso». Vede Ezra storcere le labbra e si chiede: "Si sentirà in colpa?". «È tutta questione di fato: dopotutto io chiedevo sempre un fratellino alla mamma».
Ezra mordicchia ancora il labbro inferiore, lo tormenta con i denti e tira gli angoli all'insù in quello che pare un sorriso forzato. "Io non credo nel fato": vorrebbe dirlo, "Ma perché rovinare tutto?". «In un universo parallelo...», azzarda ironico, lo asseconda. Poco convinto, o forse per niente convinto, apre un cassetto del comodino e recupera la biancheria pulita. «Perché no», continua, ridacchia, dice, «Ezra Walker suona bene».
«Decisamente bene», lo incalza.
Allora delinea una dimensione inesistente, dove Matt Harris non esiste e non deve preoccuparsi del suo: "Vi sgozzerò come maiali". «Magari saremmo andati tutti insieme a giocare a baseball».
«Mio padre era più un tipo da rugby». Nathan, seguito da Ezra, s'incammina fuori dalla stanza. Raggiunto il corridoio, dice: «Da qualche parte ho ancora la prima palla che mi ha regalato...».
«E io che t'immaginavo bassino, spettinato e con il guantone gigante!».
«Perché bassino?».
«Per l'età, ovvio».
«Sono sempre stato alto, spiacente».
«Che peccato». Una risata, l'ennesima, e lo strusciare delle ciabatte sul pavimento, il colpo di qualcosa, contro il divano che li raggiunge dal piano di sotto. Ezra impallidisce, e come lui perfino Nathan, che raddrizza le spalle e stringe la presa sulla balaustra di legno. "Romeo si sarà fatto male?". Aggrotta le sopracciglia, mentre la porta di casa cigola e i piedini di legno tornano nella posizione iniziale. "Romeo non ha il pollice opponibile", lo sa. Deglutisce e, cereo, spalanca gli occhi di fronte a Nathan. Apre la bocca, prova a dire qualcosa, ma viene fermato dall'indice che gli si pone sulle labbra con uno shhh. Allora rabbrividisce, perché "È entrato qualcuno", e perché "La mamma dice sempre 'Sono a casa'...".
Si ode un miagolio, poi il tonfo di un calcio e a seguire uno: «Stupido gatto».
Ezra raggela, mentre Romeo soffia al piano inferiore. Si porta una mano alla bocca e trattiene un urlo, un'imprecazione, rimanendo con lo sguardo fisso e gli occhi velati di lacrime. "Matt Harris": lo chiama così, come non riesce a fare a voce; e Nathan allarga le narici, respira con i polmoni spugnosi e gonfi d'ossigeno.
«Che palle», sbuffa Matt sedendo sul divano. Posa la pistola che ha in tasca e la guarda per qualche istante, afferrando al suo posto il telecomando che le è accanto, sul tavolino in mogano. «Quanto cazzo dura il turno di quella cagna?». In verità l'ha spiata a lungo, sa bene del suo lavoro full time come apprendista parrucchiera, ma detesta aspettare e spera di vederla rientrare almeno per un boccone all'ora di pranzo, quando è certo rientreranno anche i figli.
Romeo si avvicina di nuovo, gonfia la schiena e, arcuato, si mostra furioso, con il naso arricciato e gli artigli affilati. Soffia: è sul piede di guerra, sta quasi per attaccare Matt; eppure lui si alza e lo sormonta, lo coglie a metà. Prima del salto felino, lo colpisce di nuovo con un calcio e lo fa finire a un paio di metri di distanza. Impreca, grugnisce, accende la televisione e sbotta con un: «Cazzo, perché hanno preso un animale del genere?».
Nathan serra le mani in due pugni chiusi e si domanda: "Posso fare qualcosa?". Non sa se scendere sia la cosa giusta, se chiamare la polizia sia più saggio che pensarci da solo; tuttavia ricorda i giorni in cui i controlli bussavano alla porta dopo una chiamata al 911 e la faccia da triglia di un agente faceva domande come "Tutto bene signora?", "Cosa succede in questa casa?", "Possiamo andare, allora?". Sporge la testa in avanti, spia dalla balaustra e vede quella maledetta pistola di servizio, perché Matt Harris è una piaga, è uno di loro. Non sospeso, mai denunciato, sempre trattato con i guanti. Reprime un suono ironico, si strizza il naso tra indice e pollice e deglutisce un groppo di saliva, sentendo il palmo di Ezra sulle spalle. "Posso fare qualcosa", pensa: e non è più una domanda. Sente le guance che pizzicano, che sono punte come da una squadra di formiche rosse, infine si ritira e, ritto come un palo, si volta. «Andiamo», bisbiglia.
Ezra batte le palpebre, trema sul posto e mantiene il suo stesso tono. «Di cosa stai parlando?», chiede preoccupato.
"Posso fare qualcosa": è ancora l'eco dei pensieri di Nathan mentre cammina piano, silenzioso, e raggiunge camera sua; "Posso fare qualcosa", si ripete come un mantra, fin quando non si china in terra e sposta l'asse mobile sotto il tappeto. "Devo fare qualcosa". Sorride soddisfatto, nostalgico, con la Colt di Calvin finalmente stretta tra le mani e il coraggio che gli scorre nelle vene. «Ci avresti protetto tutti, pa'», sussurra, il ferro che quasi gli batte sulla punta del naso; e si alza con il cuore che pare uscirgli dal petto, mentre Ezra prova a scomparire in corridoio: seduto sul fondo, un'ombra divorata dal senso di colpa, distrutto per il solo cognome che porta e per metà dei suoi geni infami.
Serra le braccia attorno alle ginocchia, trema, pensa ancora: "Matt Harris è mio padre", e di nuovo "Matt Harris vuole uccidere mia madre". Non riesce a muovere un muscolo, perché vede Nathan scendere pallido e serio, con i muscoli tesi e la Colt in mano. Poi ode uno sparo e le lacrime gli scendono libere sulle guance. Trattiene il respiro, emette solo un singhiozzo, perché non riesce a trattenerlo in fondo alla gola. "Chi ha sparato?". Non lo sa. "Chi ha sparato? Chi diavolo ha sparato?".
«Ezra, ho bisogno che tu scenda ad aiutarmi».
A quelle parole, lui rilassa i muscoli della schiena e si scioglie contro il muro. Gelato fuso al sole, o qualcosa di simile, magari una marionetta: non saprebbe definirsi. Gira gli occhi, convinto di poter perdere i sensi da un momento all'altro. "Devo aiutarlo?", si chiede, "Devo scendere davvero?", e ancora, "Se mi ha venduto? Se Matt Harris, mio padre, vuole risparmiare solo lui?". Una sequenza di folli pensieri gli si accumulano tra gli occhi e il naso, mentre la montatura scende appena verso la punta; tuttavia, con una mano al suolo, si spinge in piedi e mugola un: «Okay». Barcolla lungo le scale, raggiunge il piano inferiore e vede Romeo in un angolo. Il cuore gli si stringe, le lacrime si affollano, si moltiplicano.
«Sbrigati», emette Nathan lapidario, asciutto.
Così Ezra solleva il viso e lo vede: uno scenario strano, simile a quello di un film, dove schizzi rossi sporcano il divano e la televisione, mentre suo padre ha il cervello spappolato sul tavolino in mogano. "Non è altro che...", e finalmente lo dice: «Matt Harris».
Note: Oggi fa fresco. Strano, ma vero. Martedì 18 agosto, temperatura mattutina da maglietta a maniche a tre quarti. In compagnia di una vespetta mi accingo a pubblicare l'aggiornamento. Non posso non farlo, dopotutto questo è uno dei miei capitoli preferiti.
Ah, si vede che siamo vicini al 21 agosto... di solito (da che ne ho memoria) piove sempre quel giorno.
Comunque sto faticando a trovare un'immagine per la cover della mia nuova storia: sono ossessionata dalle ali delle api, ma so anche che in molti hanno paura e non posso fare una cosa simile. Uff.
NB. Immagine "IRONY" by HD41117 ( https://www.flickr.com/photos/71745913@N00 ) is licensed under CC ( non per fini commerciali: https://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.0/?ref=ccsearch&atype=rich ) LINK ACCESSIBILI NEL COMMENTO
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