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I

L'aria asfittica del tetro ambiente industriale scende come un velo impalpabile sul piccolo reticolo di teste che avanza compatto verso i cancelli in ferro battuto della fabbrica.

Il cielo terso di maggio si pone come un'antitesi palese, quasi sfacciata, al grigiore delle mura corrose dalla ruggine e dalla fatica mal retribuita dei poveri disperati che vi finiscono inghiottiti.

Sul ruolo di sindacalista designato da questi stessi disperati, suoi colleghi, Manuel - Nunù come erano soliti chiamarlo - non ha avuto molto tempo di porsi domande.
Un attimo prima discuteva con Matteo dei problemi dello Stato e del divorzio finalmente legalizzato, quello dopo veniva spinto malamente verso un palchetto di fortuna imbastito fra vecchi bancali nel parcheggio dei datori di lavoro, dei padroni.

"Prendi il microfono Nunù... che cazzo fai li!" lo intima qualcuno dalle retrovie.
Non se lo fa ripetere due volte.

Fra le mani callose stringe il sottile dispositivo di metallo e, tergendo il sudore adrenalinico della fronte con un palmo, lo accosta alle labbra.
"Operai, compagni..." comincia risoluto "uno studente universitario all'ingresso ieri mi ha detto che noi entriamo qui dentro di giorno quando è buio, e usciamo di sera quando è buio... MA CHE VITA E' LA NOSTRA??!... questo- questo proforma... allora io ho pensato perché non implementarlo ancora di più questo cottimo?! Perché non trasferirci direttamente qui?!"

Le parole si susseguono una dietro l'altra, in una fila impilata che alla mente laboriosa di Nunù ricorda una schiera di soldatini perfettamente consci del loro posto, del loro ruolo: tutti utili, ma nessuno indispensabile.

Parole che quindi nascono dalla sua bocca agitata, dissidente, per trovare nuova collocazione nelle orecchie dei pochi astanti che lo ascoltano rapiti.
Ogni concetto di ribellione viene recepito come un sogno di speranza, di nuova vita, di dignità, come quella che manca nel loro lavoro d'inferno.

E lui in questo cambiamento ci crede mentre elabora proposte eversive del sistema padronale e servile nel quale si sente incastrato, alienato.
Ci crede ancora mentre torna a ragionare come un essere pensante e non come un anello - debole o meno che sia - di una terribile catena di montaggio che mangia la sua emotività ogni giorno un po' di più.
Ci crede pure mentre viene acclamato da cori che si innalzano sopra di lui travolgendolo e quasi trascinandolo in un delirio di onnipotenza in cui il suo nome viene intonato ripetutamente... Ferro, Ferro,-
"FERRO!"

La bolla di sovversione viene scoppiata da quattro cerchi in lega che rumorosi attraversano il tratto asfaltato per fermarsi esattamente ad un passo dalla protesta improvvisata.
Lo stridere di freni seguito da portiere che si aprono e chiudono distrae gli operai in un tempo così rapido che a Nunù quasi gira la testa, facendolo sentire spogliato di un'attenzione tanto voluta.

Stavate ascoltando me, tornate ad ascoltare me, implora mentalmente e forse un po' troppo drammatico.

Sul cofano della Berlina parcheggiata si riflette un sole che risulta alieno ai suoi occhi abituati soltanto al neon artificiale della luce della fabbrica.
Non occorre sollevare lo sguardo per sapere a chi appartiene la vettura nuova di zecca.

"Ferro... allora cosa hai deciso di fare? Ti sei svegliato anche oggi con il tuo solito spirito riottoso?"

Non occorre sollevare lo sguardo, certo, ma - difronte ad un richiamo così piacevole - pare non esservi altra scelta.

Gli occhi saettano in direzione della figura difronte a lui.
Torreggia alta e sicura nonostante sia sfavorita dal rialzo su cui Nunú svetta con convinzione.

I lineamenti dolci e coperti da poca peluria da cui traspare tutta la giovane età vengono contrastati dall'impegnativo completo scuro, inamidato fino al colletto, e dalla cravatta beige disgustosamente stretta a foggia di un cappio di tessuto.

Le cuciture S.B. che compaiono fiere dallo spacco della giacca marrone in doppio petto gli urlano in faccia.
Lo prendono proprio a sberle le due letteracce trapuntate in nero mentre gli ricordano che lui indumenti del genere potrà solo osservarli addosso a persone così, i figli di, o in questo caso del patron della fabbrica.

Su di loro e mai su di sé, povero operaio a cottimo - il cui stipendio viene speso per un mutuo che pare infinito - potrà vedere queste camicie di pregiata fattura.

Che comunque Nunù non ha nulla contro Simone Balestra nello specifico.
Anzi, a volte pensa pure che in un'altra vita, una in cui le differenze sociali non sono così marcate, avrebbero potuto addirittura essere amici.

Lo trova persino bello, molto bello e - se avesse almeno un minimo di istinto di conservazione - ora non guarderebbe solo il suo vicedirettore, ma anche le due ombre cupe e ingombranti che seguono il giovane ad ogni movimento.
Fosse solo per ricordarsi che in realtà le posizioni attuali dove lui si innalza su di loro, altro non sono che una crudele inversione della realtà sociale.

Però Nunù queste ombre non le guarda affatto e l'istinto di conservazione non crede nemmeno di averlo mai avuto.
Si limita a studiare solo per un altro attimo il viso difronte a sè e, dopo aver immaginato - in un pensiero intrusivo e sorprendente - le sue mani chiazzate di olio di motore a premervi sopra, porta nuovamente il microfono alla bocca.

Si lecca lentamente le labbra e senza mai perdere il contatto visivo "Direttò" sorride contro il trasduttore che propaga il suono nello spiazzo dove tutti sembrano essersi ammutoliti "e tu cos'hai deciso di fare? Te sei svegliato anche oggi col solito palo piantato in culo?"

L'inflessione interrogativa ancora sospesa nello spazio di distanza che li separa viene cancellata da un gesto repentino e violento.
Sono spinte intrise di servilismo e rabbia quelle con cui infatti un membro della scorta si scaraventa sulla tuta sdrucita del giovane, il quale, senza scomporsi, arpiona le mani strette al suo petto e le restituisce al legittimo proprietario.

"Dì ai tuoi gorilla di stare boni" il ghigno si apre sempre più ampio "che sta tuta l'ha pagata il padrone... non vorranno mica rovinarmela!" insiste aggiustando con movenze teatrali il tessuto spiegazzato e sporco.

I fischi della decina di operai a pochi passi da loro iniziano a riempire l'aria, a caricarla di quella che Nunù, ma probabilmente anche Simone Balestra che stringe ora i pugni, sanno potrebbe di li a breve trasformarsi in una piccola rappresaglia.

"Non c'è bisogno di agitarsi Ferro" ma il tono lievemente teso pare essere il suo "l'azienda ci tiene... io ci tengo... al benessere dei lavoratori. Se Fausto qui le ha rovinato la divisa, sarà mia premura fargliene realizzare una nuova" un breve momento di pausa precede la testa incurvata in avanti, quasi a confessare un segreto "a mie spese, sia chiaro."

Ed eccolo il frangente violento e deciso che ricorda a Nunù il perché del suo odio di classe, di questa rabbia viscerale verso un modo di fare che mai gli potrebbe appartenere.

Maledetti borghesi e il loro risolvere tutto con i soldi.

La risata che gli affiora dalla bocca è amareggiata, vuota.

"Avete sentito?" incita osservando la platea davanti a sé "Il vicedirettore è così magnanimo! Lui mi degnerà di una nuova divisa! Oh, come sono allietato da questa notizia!" sghignazza sempre più provocatorio "ed io che temevo di dover rinunciare ad una tuta lurida che mi avvolge da capo a piede! Che mi cancella, rendendomi pari a tutti voi" un braccio scorre ad indicare i colleghi strepitanti "ma non una parità intesa come equa, bensì come annullamento di me. Un'esistenza solo come forza lavoro, senza alcuna personalità. Dico bene, compagni?"

Non sorprende il vociare confuso e feroce che si leva in risposta.
Nelle frasi di assenso, urlate a squarciagola, si agita tutta la repressione, il mal di vivere, di cui Nunù ha chiara conoscenza.
La rabbia mostrata come ultimo baluardo di una percezione umana delle cose, ultimo sintomo di resistenza fiera da quel processo di meccanizzazione che sembra ormai sempre più reale.

"Tu pensi che basti mettere mano al portafogli per risolvere tutto" si rivolge sdegnoso all'interlocutore "prendi le tue belle banconote perfettamente stirate, appena ricevute da una banca dove quando entri ti sorridono e ti chiedono del lavoro per saperlo davvero e non per capire se devono sospenderti il mutuo, e credi di avere la soluzione. E' l'atto di spendere che definisce la tua esistenza" insiste con tono sempre più incalzante "che la delimita e caratterizza. Tu esci e compri e dunque esisti. Sei esattamente quello che hai, niente di più. E' vero o no?"

Se le affermazioni appena vomitategli addosso scompongo il giovane vicedirettore, lui comunque non dà a vederlo.
Granitica la sua faccia mentre "Ferro" replica immettendo la parola nella bocca come fosse qualcosa verso cui si prova ribrezzo "io sono venuto qua per parlare civilmente... sempre che tu conosca il significato di questa espressione... cerchiamo di trovare un compromesso. Tanto oggi siamo pure allo stesso livello, no?"

E il sorriso canzonatorio con cui accenna al rialzo sotto i piedi di Nunù, è sufficiente a far scattare qualcosa nella testa dell'operaio.

"Noi non siamo allo stesso livello" ringhia infatti rabbioso "non lo saremo mai" gli occhi infuocati mentre osserva la figura difronte "se fossi venuto per un dialogo civile te saresti presentato da solo, senza le tue guardie del cazzo a proteggerti. Allora si, che potevo vederti al pari mio." sputa velenoso "io qua vengo perché sono costretto... ma tu perché lo fai? Per comportarti da dispotico con i tuoi dipendenti? Pensa se lo viene a scoprire tu padre-"
"Mio padre è-"
"Tuo padre è l'unico motivo per cui occupi sta posizione di cui te vanti come se l'avessi meritata" rimbecca gelandolo "se nun ce stava il professore-"
"Se nun ce stavo io?"

Nessuna entrata in scena d'effetto, meno che mai vetture fiammanti ad annunciarla o scorte a circondare la figura alta e fiera che raggiunge a passi cadenzati il centro del parcheggio.
"Allora Manuel, se nun ce stavo io?"

Nunù non è uno scemo.
Vedere il direttore come una specie di padre, non significa che davvero lo sia.
Lui un padre non l'ha mai avuto e Dante Balestra, insegnante di filosofia che si è trovato a gestire questa fabbrica e che lo ha accolto qui quando aveva appena 17 anni senza mai farlo sentire inferiore, è solo il suo direttore generale.
Lui non è un figlio di e deve ricordarselo sempre.

"Se nun ce stava lei Professò" la voce è ora più dolce, accogliente "io forse me risparmiavo la conoscenza con sto stronzo de su figlio."

Ecco - pensa quando le mani di Simone lo afferrano dalle spalle e lo trascinano giù dal bancale - forse stavolta m'o so scordato.

Il "vaffanculo" urlatogli addosso è l'unico avvertimento che riceve prima di essere scaraventato a terra con foga.
Simone è sopra di lui in un attimo, ma ostacolato dalla giacca imbottita compie dei movimenti che quasi fanno ridere Nunù per la loro goffaggine.

Nessuno tenta di separarli mentre si azzuffano, nemmeno gli scimmioni ammaestrati che vengono prontamente bloccati da Dante il quale "so che sembra strano... ma stanno cercando di comunicare" dice con totale serenità "lasciateli fare."

E pure la piccola folla è troppo concentrata ad ascoltare le sue parole, con le quali pacatamente offre nuove soluzioni con orari lavorativi più flessibili e retribuzione più dignitosa.
Nunù si distrae, richiamato da un riferimento a dei filosofi di cui sempre in quell'altra vita sulla quale spesso fantastica gli sarebbe piaciuto studiare, o perché no insegnare.
E questa disattenzione si rivela decisiva.

L'ultima cosa che vede sono due occhi enormi che lo fissano con astio e una bocca schiusa dalla quale una sequela di offese si fanno strada.
Non fa in tempo Nunù a pensare che forse vorrebbe azzittirla premendola sulla sua quella bocca lì perché, la testata che arriva completamente inattesa a travolgerlo, lo stende al suolo.
Di colpo tutto diventa nero.

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