La Chiromante
Avevo sempre detestato i clown.
Eppure, la promessa di un'estasi saccarina riposta nelle candide nuvole rosa di zucchero filato che la mia testa continuava a evocare aveva fiaccato la mia determinazione. Poi, di fronte all'ingresso del Luna Park, decorato di luci colorate e nastri sfarzosi, essa era stata definitivamente sfinita dai versi di giubilo dei passanti e dal concerto gioioso delle giostre, che mi avevano ammaliata come sirene.
Carla e Stef continuavano a parlare delle nuove montagne russe che volevano assolutamente provare, ignorandomi del tutto – come avevano fatto quando avevano deciso di venire qui, pur sapendo della mia fobia per i tizi con le parrucche e un make-up esagerato. Seguii le mie amiche senza partecipare alla loro discussione e fingendo risentimento per il modo in cui mi avevano trattata, ma la verità era che non vedevo l'ora di sgranocchiare qualcosa di buono.
Il profumo delle arachidi appena tostate nell'aria afosa della serata estiva era irresistibile.
«Ehi, ragazze, vado a prendere da mangiare. Voi andate pure avanti, ci incontriamo di fronte all'ingresso della giostra» dissi alle mie amiche.
Loro non risposero, lanciandosi un'occhiata strana... quasi triste.
«Sarebbe bello passare la serata tutte e tre insieme, come abbiamo sempre fatto» rispose Stef, spostando il peso da un piede all'altro.
«Ci metto solo cinque minuti» feci io. «Non fare un melodramma.»
Carla la prese sotto braccio e disse, «Andiamo.» Poi si allontanarono insieme.
Guarda un po'... Prima decidono senza chiedermi niente dove passare il sabato sera, e poi pretendono che le segua passo passo come un cagnolino!
Lasciai quattro euro per il mio sacchetto di noccioline caramellate sul bancone e mi voltai verso la passerella rossa su cui erano già in fila parecchie persone per salire sulle montagne russe.
Di Carla e Stef però nessuna traccia.
Non ci posso credere, non mi hanno aspettata! Brutte... Incrociai le braccia, sbuffando e battendo un piede sul terreno erboso. Bene, me ne starò per conto mio allora, infami traditrici.
Mi voltai nuovamente verso il carretto dei dolci con l'intenzione di selezionare una bella varietà e fare una scorpacciata epica – anche a costo di star male!
Mentre infilavo in un sacchetto dei vermi di gelatina alla fragola – i miei preferiti – notai con la coda dell'occhio una piccola tenda di colore blu dalla quale la gente sembrava tenersi alla larga. Mi avvicinai, incuriosita: il primo impatto non era granché, la stoffa era scolorita e strappata in alcuni punti, lasciando trapelare la luce di una candela che bruciava all'interno, e le frange color oro che bordavano l'ingresso erano sfilacciate e opache; sulla piccola insegna luminosa appesa in cima si leggeva semplicemente "Madame Omida, chiromante."
Eppure... pensai, ed entrai.
All'interno della tenda l'aria era densa, umida e appiccicosa, tanto che temevo di restarvi intrappolata dentro come una mosca che ha la sfortuna di cadere nel barattolo del miele. L'ambiente stretto e buio non aiutava certo la mia leggera claustrofobia – d'accordo, forse più che leggera.
Non era certo colpa mia se ero un essere profondamente consapevole della propria effimerità con un'istintiva repulsione per tutto ciò che poteva nuocergli – luoghi angusti e clown rappresentavano solo la punta dell'iceberg.
Feci un respiro profondo, e osservai meglio le strane decorazioni costituite da asticelle di legno infilzate una sull'altra su fili di lenza trasparente che pendevano dal soffitto – ce n'erano parecchie. Il tocco inquietante era completato dai mucchietti di ossa di coniglio, o comunque di piccoli animali, disposti in cerchio lungo il bordo del tavolo rotondo a cui sedeva la chiromante.
Ero la figlia di un macellaio, e sapevo riconoscere delle ossa vere.
Quella donna doveva essere una persona curiosa, quantomeno.
Non riuscivo a capire che età potesse avere con quel mantello logoro gettato sulle spalle ricurve e il cappuccio calato sul viso. Solo le mani, prive di rughe ma vissute, erano visibili chiaramente, poggiate a palmi in giù sul tavolo e illuminate dalla candela di cera verdastra che rappresentava l'unica fonte di luce.
«Vieni avanti, siediti pure» sussurrò con una voce che non era né vecchia né giovane.
Io feci come mi suggeriva, prendendo posto sullo sgabello scomodo di fronte a lei. La chiromante mi afferrò il polso destro con una velocità sbalorditiva e tirò a sé il mio braccio, poi si portò la mia mano alla bocca e la leccò.
Cercai istintivamente di ritrarmi al tocco ruvido della sua lingua biancastra, ma la donna aveva una tenaglia al posto delle dita. Emise una risata gutturale e gracchiante allo stesso tempo, solleticandomi il palmo con la punta della lingua. Fu allora che notai con orrore qualcosa di strano sul suo viso – i suoi occhi.
Erano sigillati, come se le palpebre si fossero fuse insieme.
Tirai nuovamente il braccio, nuovamente senza risultato.
«Che mano gelida» sibilò la chiromante.
«Ho qualche problema di circolazione» bofonchiai io.
Lei mi ignorò e cominciò a tracciare con il pollice le linee che si dipanavano sul mio palmo scivoloso di saliva. «Non sei molto fortunata in amore, eh?»
«Lei dice?»
La chiromante replicò la sua risata da brivido, per fortuna senza leccarmi stavolta. «Cuore, testa, fortuna, vita...» continuò cantilenando.
Ero inquietata e allo stesso tempo affascinata dal quel rituale dal sapore antico, eppure nuovo, un rituale a metà tra il sacro e il profano. Era come se varcando la soglia di quella capanna fossi entrata in un limbo dove le regole che governavano sui comuni mortali non avevano valore e dove non esisteva alcun confine netto tra verità e finzione, giusto e sbagliato. Persino le mie sensazioni più intime rifiutavano di prendere forma.
«Oh, ragazza. Ti sei smarrita.» L'espressione della donna si era fatta strana – più strana, cioè.
«Non direi...»
«Sì, sì che lo sei. Ma non lo sai ancora.» Allora mi lasciò la mano all'improvviso.
«Non capisco, che vuole dire?» chiesi io con ansia crescente. Una stretta alla bocca dello stomaco mi diceva che c'era un fondo di verità in quelle parole criptiche, solo non capivo come. Come potevo essere smarrita? Sapevo perfettamente dove mi trovavo, e cioè al Luna Park con le mie amiche. Quindi la chiromante parlava di uno stato metaforico, giusto?
«Il sole è sorto, e già tramontato. Non hai visto i suoi raggi tingere di sangue l'orizzonte?» disse la donna avvicinandosi a me, come per scrutarmi meglio, come se potesse vedermi da dietro la pelle avvizzita delle sue palpebre.
«Sì, in effetti sono le dieci di sera passate...»
«Ascolta il tuo cuore!» gridò la chiromante infervorata, spaventandomi a morte. «Il cuore non mente mai.»
Il cuore non mente mai. Che vorrebbe dire? Certo, il cuore è... è... No. Non è possibile.
All'improvviso, con mano tremante poggiata sul petto, l'intera serata mi passò davanti in un flash psichedelico da acidi: le mie amiche che parlavano di uscire, io che le punzecchiavo senza ricevere risposta, il viaggio in vespa fino al Luna Park... la vespa aveva soltanto due posti.
E il mio cuore era immobile, muto, sordo, indifferente a ogni stimolo. Era un pugno di carne avvizzita nel mio petto, e non mi ero resa conto che a un certo punto aveva smesso di battere.
Ora tutto aveva senso: il ricordo delle luci abbaglianti dei fari di un'auto in faccia, lo schiocco delle tavole di legno del ponte che andavano in frantumi, la pace ovattata tutto intorno a me mentre i polmoni andavano in combustione spontanea.
Ero morta.
No – ero smarrita. Un'ombra che continuava a esistere solo nutrendosi della luce altrui.
Come avrei fatto a trovare la mia strada?
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