5. Fai La Brava
Ella
Peggio che aspettare un ragazzo che si stava facendo fare un pompino da un'altra donna c'era soltanto aspettarlo insieme ai propri fratelli.
Eravamo tutti affacciati al davanzale della finestra, in attesa che Scar venisse a prendermi per portarmi a scuola. A piedi sarei certamente già arrivata, ma Walt, come al solito, non si fidava a lasciarmi andare da sola e preferiva mandarmi con lui. Cosa alquanto imbarazzante, visto che sapevo quello che avevamo interrotto.
"Perché proprio quel caso umano?" Domandò Nick. "Perché non hai chiesto ad uno di noi di occuparsi di lei?" Walt si perse a guardare il prato trascurato che adornava il nostro isolato.
"Occuparsi di Ella è un lavoro a tempo pieno. Tu sei il mio braccio destro, Colt ha gli allenamenti, Liam ha la scuola." Si massaggiò il collo con aria distratta. "I miei ragazzi, invece, non hanno niente a parte me. Nessuna famiglia, nessun impegno... L'unico lavoro che svolgono è quello di eseguire tutto quello che gli dico di fare. Sono senza scrupoli, senza cuore e non si farebbero problemi a minacciare tutti quelli che le rompono le palle. Posso piegarli alla paura, con voi la resa non sarebbe la stessa." Avevo tremato al suono di quell'ultima frase? Perché piegarmi alla paura, negli ultimi anni, gli era riuscito piuttosto bene.
"Però Johnny mi sembrava più adatto." Walt scosse la testa, sulle labbra un sorriso affettato.
"Parli così perché non ci hai visto quello che ho intuito io." Sostenne con convinzione. "Scar ha una faccia spaventosa e un vissuto particolare, scatta senza pensare alle conseguenze quando si toccano le donne. Se ci pensi bene, potrebbe essere il più indicato per questo ruolo. Voglio che chiunque tremi al solo pensiero di avvicinarla, e se c'è lui dietro so che posso stare tranquillo."
"Pensi che sia affidabile come il Falco?" Fece spallucce, come se quella domanda non gli importasse affatto.
"Se dovesse deludermi non esiterei ad ucciderlo." Poi il suo sguardo si fece più intenso, come se il pensiero di avere quel potere sulla vita degli altri scatenasse in lui una sorta di soddisfazione personale. "E gli farei pure un favore, quello è morto già tre anni fa, insieme alla puttana che l'ha messo al mondo."
Sebbene mi irritasse il fatto che stessero parlando di una situazione che mi riguardava come se non fossi lì a sentirli, quelle parole mi avevano stimolato la curiosità di saperne di più.
Liam, però, interruppe l'onda di quei pensieri, posizionandosi alle mie spalle per avvolgermi in un abbraccio di conforto.
Doveva aver capito quanto mi pesasse ascoltare quelle parole e accettare il fatto che ormai avevo completamente perso il controllo sulla mia vita, strappato via con la forza dal mio stesso sangue.
Quando finimmo entrambi fasciati dalla coperta in pile che si trascinava dietro, usò quel divisorio improvvisato per sussurrarmi all'orecchio: "Ti ho portato una cosa che ho trovato ieri agli stand in centro."
Alzai il mento per lasciare che i nostri sguardi si incrociassero.
"È un altro disco?"
"Edizione limitata." Mi imposi di non mettermi a strillare per la felicità, mentre mi sporgevo sulle punte per scoccargli un bacio sulla guancia.
Lui sollevò la testa per rivolgersi a Walt: "Te la rubo per due minuti." Poi mi spinse su per le scale. Nella sua stanza aprì un cassetto da cui tirò fuori un CD musicale insieme a due piccoli pacchetti.
"Altri regali?" La sue labbra si aprirono in un sorriso compiaciuto.
"Quello che ogni donna dovrebbe avere nella propria borsetta: un rossetto rosso, la migliore annata dei Black Veil Brides e un coltellino a scatto."
"Sul serio?" Scartai i sacchetti e accarezzai l'impugnatura in legno dell'arma che mi aveva regalato, passando poi alla plastica nera che celava il rossetto.
"Questo magari non lo facciamo vedere a Walt. Penso che sarebbe d'accordo soltanto su CD e coltello."
Mi lanciai contro il suo petto per stringerlo in un abbraccio sincero. Liam era l'unico della famiglia a non essere uno stronzo totale: era dolce, permissivo e aveva deciso di spezzare la catena dell'analfabetismo dei Miller proseguendo gli studi.
Mentre tutti gli altri lo beffeggiavano per quella scelta di vita, io l'approvavo a pieno ed ero l'unica a condividere i suoi successi accademici.
Come me era il cucciolo di casa e, come me, doveva scontare la condanna quotidiana di soccombere alle volontà dei più grandi.
Avevo capito quanto fosse dispiaciuto per la situazione che ero costretta a vivere da quando cercava di sopperire alla mancanza di protezione ricoprendomi di regali che, comunque, non avrei mai potuto sfruttare.
Nel tempo avevo accumulato un mucchio di borse, gonne corte, maglie scollate, trucchi da donna... Che però dovevo tenere nascosti nell'angolo di un cassetto.
Era come se volesse farsi perdonare il fatto che non riusciva ad intervenire in quelle circostanze, non capendo che vedere tutti quei vestiti femminili gettati nell'armadio e non poterli indossare come una ragazza normale mi feriva ancora di più.
E alla fine andavo avanti tra la faccia pulita e le felpe larghe, continuando a rimandare il fatto che ormai ero abbastanza grande per decidere di smettere di sembrare una bambina e iniziare ad essere più donna.
"Ella!" Chiamò Walt dal piano inferiore. "Scar è qui." Sbuffai esasperata.
"Ora hai un nuovo bodyguard?" Sull'arco della porta, sventolai una mano per invitarlo a trascurare la questione. Solo che non era trascurabile, perché ogni volta che i miei supervisori cambiavano dovevo ricominciare da zero a riconquistare un pizzico di libertà alla volta. E se con gli altri ero riuscita a risolvere sfoderando gli occhi dolci, con Scar avevo l'impressione che non sarebbero bastati.
Percorrendo le scale, lasciai che la risata confortante di Liam venisse sostituita dal cipiglio cupo di Walt.
"Io vado." Dissi semplicemente, mentre aprivo la porta per imboccare il vialetto di casa.
La prima cosa che vidi fu la sua moto sprovvista di specchietto. Ovviamente, visto che si trattava di Scar e che il nero era una specie di colore guida per lui, era tutta verniciata di quella tonalità smorta.
Sul fianco era ricoperta di graffi che lasciavano in mostra il grigio del telaio sottostante, e in un attimo collegai tutte quelle caretteristiche a lui: scura come i capelli e gli occhi, sfregiata come il suo volto pieno di cicatrici. Lo rispecchiava completamente.
Lui non era neanche sceso dalla sella e si limitò ad attendermi con il motore ancora acceso.
Mi affrettai a raggiungerlo, prendendo posto dietro di lui. Mentre una sgommata ci faceva ripartire, commisi il grave errore di volgere un ultimo sguardo al vetro della finestra, finendo per incontrare quello di Walt.
I suoi denti stretti, il volto contratto di chi aveva affrontato un'infinita serie di brutte giornate. L'espressione severa contratta in una smorfia che gli altri scambiavano per cattiveria, mentre io sapevo che celava un dolore inestirpabile, un odio che riversava sugli altri, su me e non di meno su se stesso.
Quegli occhi, saturi di rabbia inespressa, restarono incatenati ai miei promettendo incubi. Prima che riuscissi a tagliarlo fuori dalla mia visuale, sollevò oltre il bordo dell'infisso un piccolo slip in pizzo, ed era esattamente l'intimo che mi aveva strappato via la sera precedente.
Non era un caso che avesse scelto di mostrarmelo così, senza alcun riguardo alla mia sensibilità, perché quel gesto aveva un significato chiaro: se volevo evitare che si incazzasse dovevo fare la brava e assecondare le sue regole.
Soltanto dopo qualche metro le mani avevano smesso di tremare a quel pensiero, quando l'irrigidirsi del corpo muscoloso di Scar mi aveva fatto capire che avevo iniziato a stringermi più forte a lui.
Lungo tutto il tragitto, il vento non era riuscito a disperdere il suo profumo delizioso. Era un odore tutto suo, di quelli inclassificabili. Avevo notato che si era ripulito e cambiato i vestiti, compresi quegli orrendi scarponi distrutti che gli avevo visto ai piedi la sera precedente.
Il suo corpo era così imponente che quasi mi dispiaque, un quarto d'ora più tardi, esser costretta ad abbandonare quella stretta sicura.
Bastava pestare l'asfalto consumato che delimitava la Paul Williams High School per iniziare a respirare aria di tragedia. Quell'istituto di infimo valore aveva ereditato il nome dal suo fondatore, un imprenditore che della nostra zona avrebbe raso al suolo ogni cosa per rimpiazzarla con edifici e residence per anziani.
Quella notizia era finita su tutti i quotidiani locali, suscitando l'ira di orde di protestanti muniti di striscioni e fumogeni. Facevi prima ad ammazzare la gente che a strapparla via dal quartiere in cui era cresciuta strisciando, e quello Paul l'aveva imparato a sue spese.
Comunque i sogni dell'imprenditore erano stati più grandi delle sue possibilità, perché la struttura era rimasta una scuola per pezzenti, squallida nell'aspetto e nel sistema di insegnamento che prevedeva e frequentata per lo più dai teppisti dei vari quartieri del nostro distretto.
La facciata esterna era tappezzata di graffiti di diversi colori, bestemmie incise col coltello e simboli di dubbio gusto. Le aiuole erano in via di estinzione e a darti il benvenuto la mattina non era il profumo delle brioche del bar adiacente all'istituto, bensì le grida dei vari bulli che estorcevano denaro ai ragazzini più deboli.
Il parcheggio anteriore era stato realizzato gettando al suolo una semplice colata di cemento grezzo, dove le enormi ruote degli autobus avevano fatto saltare qualche pezzo di asfalto qua e là, lasciando diversi fossi che, con il passare del tempo, erano diventati profondi come voragini.
Nonostante Scar avesse spento il motore piuttosto che ripartire all'istante, io avevo tutta l'intenzione di andarmene senza proferire parola. Ma quando gli voltai le spalle per raggiungere il cortile dell'istituto, lui mi circondò il polso per costringermi a voltarmi.
Nello scontro di sguardi che ne conseguì, mi ritrovai a notare che il taglio sulla fronte era stato ricucito e la mano che gli avevo curato era stata fasciata a dovere. Infilate nella pelle, una serie di graffette argentate rendevano il suo volto ancora più cupo e spaventoso.
Erano i tratti di uno che avresti seriamente dovuto evitare, eppure c'era qualcosa nella sua espressione che continuava ad attrarmi, come una falena che si ostinava a girare intorno al calore della fiamma, sottovalutando il pericolo di bruciarsi le ali.
"Ti sei fatto medicare." Osservai distrattamente. Lui sollevò un sopracciglio, e le spillette brillarono sotto la luce del sole.
"Niente di personale contro le tue doti da infermiera, anche se avrei preferito un camice bianco e... Niente sotto." Poi sorrise, e la cicatrice sulle labbra si separò per lasciare in mostra una fila di denti bianchi e perfettamente allineati, con l'unica imperfezione rappresentata da quei canini spezzati che io, però, trovavo attraenti da morire.
"Scherzo." Disse poi. "Non mi piacciono le bambine... Soprattutto se non sanno stare al gioco."
"La bambina ieri ti ha curato mentre ti lagnavi come un ragazzino, però..."
"E ha funzionato?"
"Cosa?"
"La tattica per farmi coccolare." Sembrava di buon umore, completamente diverso dalla sera precedente.
"Ti ho lasciato mezzo morto e ora ti ritrovo così... Ti basta un pompino per essere tanto felice?" Il suo sorriso si accentuò, formando una fossetta sulla guancia che lo faceva sembrare un bambino.
"Non lo so, lo vuoi scoprire?"
Il tono che aveva usato, più basso di qualche grado, mi portò inevitabilmente ad arrossire. Quando mi voltai per impedirgli di notare la mia reazione, lui scoppiò in una risata divertita.
"Cazzo, Ella... Stavo scherzando!" Se il suo intento era ridicolizzarmi ci stava riuscendo in pieno e, stabilito che non sarei riuscita a fronteggiare uno scontro diretto con il suo umorismo imbarazzante, feci per andarmene.
"Lo vedi che sei una bambina?" Urlò lui. "Non reggi il confronto."
Accelerai il passo quando lo sentii assicurare la moto al cavalletto. Ma perché non lasciava perdere?
Qualche istante dopo mi strattonò per il braccio.
"Non te ne andare mentre ti parlo." Mi rimbeccò. "Volevo chiederti il cellulare."
"Cosa?" Farfugliai ancora imbarazzata.
"Ce l'hai il cellulare?"
"Certo che ho un cellulare."
Mi aprì il palmo davanti in un invito a darglielo. Quando lo feci digitò qualche numero sullo schermo e me lo restituì.
"Ti ho salvato il mio numero. Se qualcuno dovesse infastidirti o se uscissi ed io non fossi ancora qui, chiamami. Potrei dimenticare facilmente di avere una bambina che esce da scuola."
Gli sferrai un pugno sulla spalla che, però, non servì a spostarlo di un millimetro.
"Potevo lasciartelo rotto, il dito. Almeno non parlavi con nessuno e non dovevo sentire queste cazzate."
Poi fummo interrotti dal suono della campanella, e lui si voltò per tornare alla moto. Mentre accelerava a vuoto producendo un fracasso che fece girare tutti i presenti, io restai impalata come una cretina a chiedermi perché lo avessi seguito di nuovo.
"Entra...." Gli occhi avevano già preso ad ignorarmi, persi chissà dove tra un ricordo e l'orizzonte. "E vedi di fare la brava, mentre io faccio cose da grandi." Disse strafottente.
Forse ero un po' troppo permalosa, ma detestavo che mi si desse della mocciosa quando in realtà mi sentivo già avanti con gli anni rispetto ai miei coetanei.
Lo mollai lì senza neanche salutarlo, perché era quello che si meritava per avermi presa in giro.
Fu l'incontro con Sebastian a distrarmi da Scar. Stavo ancora percorrendo il cortile quando mi raggiunse per mettermi un braccio sulla spalla.
"Lo sai che pesi troppo?"
"Sono muscoli." Sorrisi, perché in realtà era parecchio magro.
"Certo."
Sebastian si era trasferito nella nostra scuola di recente e me lo avevano rifilato come compagno di banco perché il posto accanto al mio era l'unico rimasto vuoto. Veniva da un altro distretto, e non aveva mai voluto dirmi il motivo di quel trasferimento.
Facendo parte di un'altra zona non si era lasciato influenzare dal cognome che mi marchiava come una da evitare e aveva cercato, sin da subito, di stringere un'amicizia leale e sincera.
Se all'inizio avevo provato con ostinazione a chiuderlo fuori dalla mia vita, con il tempo mi ero abituata alla sua presenza e avevo iniziato ad accettarlo. Era un alleato, un complice e, stranamente, un amico.
Per me che ero sempre stata sola, la sua compagnia si era rivelata necessaria. Portava un taglio a spazzola di cui le punte erano tinte di un blu elettrico e aveva una pelle perfettamente liscia e dorata. Era oggettivamente molto bello, un po' meno muscoloso di Colt e decisamente più alto di Liam.
Stavamo per varcare il portone principale quando un presentimento mi fece voltare nuovamente verso il parcheggio.
Il cuore perse un battito quando notai che Scar non era ancora andato via e ci stava fissando da lontano con uno sguardo così penetrante da portarmi a rabbrividire contro il braccio di Seb.
Da lontano lo vidi ruotare il polso sull'acceleratore e ripartire a razzo, il corpo teso, le spalle rigide e la spensieratezza che gli avevo visto soltanto qualche minuto prima sparita dal suo volto.
Quando entrammo in classe iniziò l'incubo peggiore delle mie giornate scolastiche, perché se a casa avevo mio fratello lì c'era Wade ad impegnarsi nel tentativo di rovinarmi l'esistenza.
Non appena ci vide, infatti, si voltò verso il compagno di banco e commentò maligno: "Che differenza c'è tra una finta santa e una troia dichiarata?" Poi si rivolse a me. "Che una troia dichiarata non nasconde la sua vera natura, lo sai da subito che la darebbe pure ai cani."
Sebastian, passando accanto al suo banco, gli diede uno schiaffo sulla fronte.
"Puoi chiedere a tua mamma, secondo me ha una definizione migliore." Wade si alzò, i pugni serrati contro i fianchi e le guance rosse per la rabbia.
"Che cazzo hai detto?!" Owen si intromise per separarli.
"Che se tua mamma è una troia allora tu sei un figlio di puttana." Mi misi davanti a Seb per trascinarlo via.
"Dai, basta..." Sussurrai contro il suo petto. "Non ne vale la pena."
"Sì, portatelo via..." Continuò l'altro. "Tanto lo sanno tutti che ti difende perché gliela dai."
L'arrivo dell'insegnante mise un po' di pace a quella situazione disastrosa.
Era un po' di tempo che andava avanti così. Wade aveva preso ad odiarmi da quando al primo anno avevo rifiutato le sue avances. Lui e i suoi tirapiedi erano gli unici che in classe si azzardavano a mancarmi di rispetto in quel modo. Tutti gli altri, semplicemente, non facevano che ignorarmi.
Non avevo raccontato a Walt di quegli episodi perché non volevo finire al centro dell'attenzione per altre situazioni spiacevoli. Avevo già abbastanza problemi a causa di mio fratello e non volevo che le persone mi etichettassero ancora di più.
Il fatto che mi ignorassero, tutto sommato, avevo imparato ad apprezzarlo: io non avevo bisogno di loro e loro non avevano bisogno di me.
Non cucire alcun rapporto implicava l'assenza di delusioni, allontanare tutti era sempre stato il metodo più efficace per difendersi.
Erano le pugnalate degli affetti a demolirti completamente, mentre se a farlo era uno di cui non ti importava nulla non subivi neanche il colpo. Ti sfiorava e basta, perché tu non gli avevi dato il potere di ferirti.
Sebastian era stato l'unico ad intervenire in quelle circostanze, inimicandosi già dai primi mesi tutto il gruppo maschile della nostra sezione.
Lui diceva che andava bene così, perché preferiva essermi leale piuttosto che circondarsi di feccia inutile. Ci definiva alleati. Non compagni, non amici. Semplicemente alleati. Forse aveva capito che la parola amicizia mi spaventava o, più probabilmente, che non sapevo neanche attribuire un significato a quel termine.
Prima di conoscere lui riuscivo soltanto a distinguere le persone in due categorie, quelli che ti rompevano le palle e quelli a cui non dovevi mai rompere le palle.
I primi erano quelli che ti rendevano la vita impossibile pur di vederti strisciare, i secondi erano quelli che se quando li incontrati ti facevi i fatti tuoi era meglio. Nel mio ecosistema non c'era mai stato spazio per gli amici, semplicemente perché avevo completamente estirpato ogni possibilità di averne.
Poi quei capelli blu erano piombati nel mio cerchio e l'avevano allargato. Quel piccolo posto che gli avevo liberato, con il tempo, era diventato sempre più prezioso. Ci accomodammo in fondo alla fila e per tutto il resto delle lezioni mi isolai nel mio mondo, uno status mentale che Seb aveva scherzosamente definito bolla.
La bolla mi portò a rivalutare il discorso fatto da Walt. Di Scar aveva usato parole in grado di spiazzarmi, sostenendo che avesse una faccia spaventosa e un vissuto particolare mi aveva fatto capire che le due caratteristiche fossero correlate tra loro, e il fatto che odiasse vedere determinati atti di violenza sicuramente aveva a che fare con una donna che amava molto.
Non riuscivo a pensare a tutte le cicatrici che portava sulla pelle senza chiedermi quante altre ne nascondesse dentro. Anche se lo sguardo che si trascivana dietro poteva sembrare simile a quello di mio fratello, vedendolo sorridere quella mattina avevo scorto una luce.
Quella sottile apertura mi aveva fatto notare la parte di lui che conservava ancora il lato umano, quello più infantile. Un tratto che svelava soltanto per brevi istanti, prima di relegarlo in qualche angolo per non lasciare che gli si ritorcesse contro.
L'avevo intuito perché eravamo simili, per un certo verso. Io chiudevo il mondo fuori e lui non apriva il suo a nessuno.
Restava soltanto da capire chi dei due tendesse di più al declino.
Le ore scolastiche finirono così com'erano iniziate, tra il turbamento per la mia situazione e l'assurda curiosità che si presentava ogni volta che ripercorrevo nella mente i pochi minuti che avevo passato con Scar.
Mentre ci avviavamo all'uscita, Seb mi osservò con un sorriso furbo.
"Allora potremmo vederci fuori da scuola, un giorno di questi?" Mi massaggiai il collo teso.
"Ecco, io..."
"Ho molto da studiare, questo weekend." Mi imitò lui.
"Dai, la mia voce non fa così schifo."
Eravamo appena usciti dall'istituto quando il fresco dell'aria esterna fu spazzato via dal calore della sua mano.
Mi teneva lievemente per il polso, negli occhi lo sguardo sincero di chi voleva capirmi, eppure non riusciva a superare la superficie gelida dei miei occhi.
"Ella, io..."
"Ella!" La voce di Scar mi fece voltare. Era a qualche metro da noi, con la gamba ripiegata contro il fianco della moto e la mano sana stretta sulla manopola. Parecchio stretta. Ai piedi gli pendevano di nuovo quegli scarponi orrendi.
"Seb, devo andare."
"Lui chi è?" Era mai stato tanto invadente?
"È una storia lunga." La sua presa si strinse ulteriormente.
"Ho capito che vivi una situazione strana da quando i tipi che ti accompagnano cambiano di mese in mese." Arricciai le labbra, improvvisamente irritata. "Ma ora non riesco proprio a capire cosa ci faccia tu con uno come lui. È raccapricciante." Perché il suo tono mi stava innervosendo?
E quando vidi Scar avvicinarsi mi agitai ancora di più.
In poche falcate mi fu affianco per schiacciarmi sotto il peso del suo braccio. Il bicipite mi costeggiò la nuca, la mano tatuata il petto. Bastò un briciolo della sua forza per spingermi contro il suo corpo muscoloso. Un gesto sgraziato e privo di tatto, l'arto così greve da tirarmi giù a causa della pressione.
I due si affrontarono con lo sguardo, Scar fu il primo a proferire parola: "Che succede?" Chiese freddo.
"Succede che stavo accompagnando Ella all'uscita." Poi strinse i denti. "Ci sono problemi?"
"Non lo so. Tu che dici, Ella? Ci sono problemi?"
"È tutto a posto." Soffiai. "Sarei venuta tra un secondo."
"Allora andiamo."
Guardai Seb in modo che capisse che ero dispiaciuta per la situazione.
"Ci vediamo domani, allora." Poi Scar mi spinse via, sotto un braccio muscoloso che pesava come un macigno.
"Non devi parlare con lui." Disse mentre raggiungevamo il cancello.
"Cosa?"
"È un tossico."
"E tu che ne sai?"
"Ha gli occhi incerchiati e puzza come i tossici." Sentenziò.
"E anche se fosse? Vorrebbe soltanto dire che avete qualcosa in comune."
Lui si irrigidì, costringendomi a bloccarmi sul posto. Poi, con espressione severa, mi fece risalire lo sguardo lungo il corpo per inchiodarmi gli occhi. Nei suoi si accese una scintilla di rabbia.
"Io non ho niente a che fare con nessuno."
"E nemmeno con me." Sbottai riprendendo a camminare. "Quindi non dirmi cosa devo o non devo fare."
Eravamo appena arrivati al parcheggio quando aggiunse: "L'ho detto a tuo fratello." E stavolta fui io a fermarmi.
"Tu... Cosa?!"
"Ti ho vista con lui stamattina e l'ho detto a Walt." In un attimo il nervosismo divampò in rabbia, pompando sangue dal cuore alle arterie ad una tale velocità da farmi venire l'affanno.
"Che cazzo hai fatto!?" Ripetei, spingendolo via.
"Sto solo eseguendo gli ordini."
"Tu sei pazzo!" Cercare di prenderlo a pugni servì soltanto a ferirmi la mano. Lui me la bloccò contro il suo petto.
"Calmati, colpirmi ti farà solo male."
"Lui mi farà male, quando tornerò a casa mi distruggerà!"
Scar mi sollevò sulla moto come se pesassi due chili, trattandomi ancora una volta come una bambina senza cervello.
Quando prese posto davanti a me, sbottai di nuovo: "Soltanto quando nevicherà all'inferno ti perdonerò per quello che hai fatto. Fino ad allora ti odierò come non ho mai odiato nessuno."
"Non saresti la prima." Asserì mentre metteva in moto. "Non sarai l'ultima."
Il rombo della moto accompagnò il caos che mi aleggiava in testa fino a casa.
Arrivati al portone la mia rabbia vacillò di fronte alla paura, e fui costretta a sorreggermi contro il bicipite di Scar per impedirmi di crollare. Fu umiliante servirmi di quello che era stato il mio carnefice. Ancor di più quando mi nascosti dietro il suo braccio nel momento in cui Walt apparve sulla soglia.
Con uno strattone mi tirò dentro, chiudendo Scar fuori e strappandomi via dall'unico scudo che pensavo di avere.
Poi scoppiò il caos.
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