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4. Febbre

Ella

Scar se ne stava seduto in un angolo a squadrare tutti in malomodo, come un animale chiuso in gabbia che studiava i suoi nemici per capire come uscire.

Mentre gli medicavo il dito rotto non aveva smesso neanche per un secondo di agitare la gamba in lievi scatti nervosi e di masticare silenziosamente quello che doveva essere un piercing.

Su quella barra in acciaio che gli attraversava la lingua spiccava una pallina argentata che, di tanto in tanto, acchiappava tra i canini e mordicchiava assorto nei pensieri. Avevo notato che i suoi denti erano spezzati in quel punto, una caratteristica che doveva essersi procurato proprio a causa di quella malsana abitudine.

Quando presi il disinfettante dal mobiletto passò in rassegna l'etichetta come se non si fidasse del prodotto, ma si tranquillizzò quando sentì l'odore acre dell'alcol spargersi nell'aria. L'avevamo fatto accomodare in salotto per una questione di spazio e di controllo: Walt mi aveva praticamente imposto di curarlo, ma alle sue regole.

"Ho sempre usato il whiskey sulle ferite." Dichiarò, ed era la prima frase che sentivo pronunciargli da quando eravamo rientrati.
"Noi il whiskey lo usiamo come anestetico." Si intromise Colt, mentre gli passava uno shot di alcol dal colore ambrato. "Bevilo, ti servirà."

Colton avanzava due anni a Nick ed era più piccolo di uno rispetto a Walt. Era fissato con la lotta dai tempi in cui nostro padre addestrava i ragazzi del quartiere e aveva passato tutta la sua infanzia a guardarlo allenarsi nel nostro cortile con occhi sognanti.

L'obiettivo era non farsi mettere al tappeto, sul ring e nella vita, e lui aveva fatto di quel motto una filosofia imprescindibile.

Comunque la federazione che aveva scelto era una delle più spietate, di quelle in cui i giudici non ti squalificavano se provavi a cavare gli occhi all'avversario. E sebbene lui non fosse mai stato sconfitto, la smania di partecipare a quegli incontri gli aveva procurato il parziale distacco della retina e la condanna di dover portare gli occhiali per tutta la vita.

Era stata la necessità di prendermi cura dei miei fratelli a farmi diventare una specie di turnista tra un infortunio e l'altro, rattoppando qua e là quello che avrebbe dovuto coprire una banale assicurazione sanitaria.

A noi piaceva così, c'eravamo sempre presi cura l'uno dell'altro senza aver bisogno di contare su nessuno. Era la prima volta, però, che Walt mi permetteva di medicare un suo sottoposto. E forse dipendeva dal fatto che era stato lui a procurargli quella frattura.

Quando ci aveva visti tornare mi era sembrato piuttosto compiaciuto, ma poi si era defilato per contattare quello che lui chiamava Falco. Le grida provenienti dal piano di sopra non lasciavano buone speranze, ed era meglio se mi sbrigavo a sistemargli il dito prima che quella telefonata avesse fine.

Scar accettò l'offerta di Colt e inghiottì il liquore in un solo sorso. Sul collo teso, un pronunciato pomo d'adamo emergeva tra i fili della ragnatela che si era tatuato. Il ragno non c'era, perché nella storia che aveva scelto di disegnarsi addosso aveva vinto la mosca che era stata intrappolata.

Lo shot bevuto non gli aveva fatto neanche lacrimare gli occhi, nemmeno la minima traccia di una smorfia aveva mutato lo sguardo concentrato con cui stava esaminando il mio lavoro.

"Tre... Due... Uno." Con uno scatto deciso gli raddrizzai l'indice per riportarlo in sede, e lui sollevò la testa al soffitto mentre si lasciava sfuggire una bestemmia. Era sudato e continuava ad ansimare, così rigido contro la sedia che fui costretta a fermarmi un istante per farlo calmare.

L'impulso di sfogare il dolore lo aveva portato a stringermi il braccio con la mano sana, ma quando Colt se ne accorse lo inchiodò con uno sguardo ammonitore e disse: "ti consiglio di spostarla, se non vuoi ritrovarti anche l'altra rotta." Era un suggerimento sensato, eppure mi sentii vuota quando mi privò del calore che la sua pelle mi aveva procurato.

Non mi era mai capitato di assistere ad un simile infortunio: Walt aveva avuto una precisione chirurgica nel fratturargli il dito. Era spezzato esattamente nel punto che lo congiungeva alla mano, né un centimetro in più, né uno in meno. Chissà quanti ne aveva rotti in passato e chissà a quanti altri sarebbe capitato in futuro...

Quando Scar era venuto a prendermi al cimitero mi ero innervosita perché avevo capito che stava soltanto obbidendo all'ennesimo comando di mio fratello. Dopo averlo giudicato diversamente rispetto agli altri, era stato deludente scoprire che anche lui ne fosse assoggettato a tal punto da inseguirmi con un dito rotto.

Mentre tagliavo la garza azzardai un'occhiata verso l'alto per scrutargli il volto. Non mi sorprese trovarlo con la bocca schiusa e la fronte contratta in un'espressione assorta. I capelli erano lisci, più lunghi sul davanti e gli avevano coperto parte del viso sudato. Aveva le guance rosse, un lieve tremore diffuso agli arti e sembrava proprio si fosse beccato la febbre, cattivo presagio per la comparsa di infezioni.

"Tutto okay?" Bisbigliai quando Colt ci lasciò soli. Scar digrignò i denti.
"È proprio una domanda del cazzo." Sbottò irritato.
"Abbiamo quasi finito." Lo rassicurai. Toccarlo con delicatezza parve funzionare, perché mentre gli fasciavo il dito allargò le gambe per mettersi più comodo sulla sedia e il viso perse un po' della rigidità che aveva prima.

Quel movimento aveva attirato la mia attenzione sui suoi piedi. Il numeretto scritto sulla suola riportava un 41, che però sembrava un 45. Gli anfibi neri che indossava erano quasi interamente sfasciati: dalla suola pendevano pezzi di gomma che ormai sarebbe stato impossibile incollare e, mentre su quella destra non aveva neanche un laccio, sulla sinistra ne portava uno mollemente annodato. Chissà se tutto il disordine che traspariva dal suo aspetto ce l'aveva anche in testa.

"Tra poco potrai tornare a casa." Sussurrai mentre assicuravo la garza con un pezzo di scotch. A quell'affermazione, però, non ricevetti alcuna risposta e, quando alzai lo sguardo per capirne il motivo, vidi che si era addormentato.

Senza volerlo mi persi a guardare quel ventaglio di ciglia scure che creavano ombre sugli zigomi pronunciati, facendo sembrare i suoi occhi più infossati di quanto già non fossero.

Si vedeva che quella giornata lo aveva messo a dura prova, perché anche immerso in quel sonno profondo la sua gamba continuava a tremare senza sosta e ogni tanto sembrava sul punto di aprire gli occhi, come quei cani che di notte non dormivano bene per restare sempre sull'attenti.

Quell'istante di pace fu interrotto da Walt che, una volta scese le scale, si fermò contro lo stipite della porta e prese a fissarlo con occhi penetranti.
Era bastata una breve occhiata per convincerlo ad avvicinarsi, e così me lo ritrovai alle spalle, con il bisogno di sfuggirgli a sovrastare qualsiasi altra emozione.

"Sei andata a trovare di nuovo quella troia, stasera?" Resettare la paura e ricominciare era impossibile, finché sapevo che quelle parole erano il preludio di eventi spiacevoli.

"Walt... Sono stanca." Mi alzai dalla posizione in cui mi trovavo per evitare di dargli le spalle. Ogni volta che qualcuno mi stava dietro mi sentivo agitata e nervosa, perché sapevo che avere un pericolo lontano dagli occhi lo rendeva meno controllabile.

Scar, di fronte a noi, stava letteralmente russando e compresi che sarebbe rimasto fuori gioco per almeno qualche ora.

Mi voltai con l'intento di sorpassarlo e tornare in camera, ma riuscii a compiere un solo passo in avanti, perché Walt mi bloccò acciuffandomi per i capelli. Con uno scatto deciso mi tirò indietro la testa e, quando il mio collo esposto si tese fino a toccare la rotondità della sua spalla, ne approfittò per accostarmi la bocca all'orecchio.

"Essere più bella di lei non ti deve rendere anche più stupida. Lo sai che quando ci vai mi mandi fuori di testa." Già, perché per lui era inaccettabile che facessi visita a nostra madre, lo vedeva come un tradimento nei suoi confronti. Se solo avesse saputo quanto mi sarebbe piaciuto parlarle ancora una volta...

"Walt... Mi stai facendo male." Allentò la presa soltanto per costringermi a guardare Scar.
"L'hai medicato per bene?"
"Non dovevo?"
"Ti è piaciuto?" Cominciò.

Finalmente potevo dare una motivazione al fatto che mi aveva costretto a curarlo: mi obbligava a fare una cosa che lo faceva incazzare così poi mi avrebbe potuta punire.
"... Lasciami andare." Suppliche vane che servirono soltanto ad umiliarmi e a compiacerlo ulteriormente.

Un attimo dopo mi spinse verso le scale, invitandomi ad imboccare un sentiero che puzzava di morte.
"Prima voglio vedere in che modo l'hai toccato mentre lo curavi." Cantilenò mentre percorrevamo i gradini. Lui dietro, io avanti e i miei capelli ancora aggrovigliati nel suo pugno stretto.

Mi aggrappai al corrimano, barcollando fino alla mia stanza con la voglia di evadere da un destino già segnato. In un istante la porta si chiuse con un tonfo sordo, oppure ne avevo soltanto confuso il rumore con i rintocchi irregolari del mio battito frenetico.

E poi il buio, il dolore, il peccato... Il senso di colpa di una vita passata a soccombergli senza reagire. Il cuore che esplodeva in petto, gli occhi che guardavano ovunque tranne che i nostri corpi, quei capelli rossi così simili ai miei. La testa che si faceva assente per non dover ammettere che io ero lì, che io c'ero... Spettatrice di un film che si ripeteva quasi ogni notte. Tutto finì com'era iniziato, lasciando lui soddisfatto e me rannicchiata sotto strati di coperte sporche di sangue.

Mi alzai quando sentii la porta della sua stanza chiudersi e con l'animo inquieto tirai via le lenzuola per estirpare anche la più piccola particella di un odore che ormai, però, mi aveva impregnato la pelle.

Il bisogno di uscire da quella gabbia di cemento si intensificò con il passare dei minuti e, in un attimo, mi ritrovai a percorrere le scale per raggiungere il piano inferiore.

Volevo controllare Scar e sentire se la febbre fosse scesa. In caso contrario, avremmo dovuto portarlo al pronto soccorso.

Pensavo che l'avrei trovato ancora immerso nel sonno profondo in cui l'avevo lasciato, ma non fu ciò che accadde, perché giunta al salotto me lo trovai davanti nella sua stazza imponente. Dovetti tapparmi la bocca per evitare che lo spavento mi facesse urlare.

Il suo sguardo cupo non si illuminò neanche quando accesi la lampada.
Il rossore che gli aveva colorato le guance non si era ancora attenuato del tutto e il respiro corto mi fece capire che qualche linea di febbre ce l'aveva ancora. Gli occhi erano lucidi, appannati e più neri della notte.

Fu dopo qualche attimo che, immerso in uno stato di evidente malumore, me li fece scorrere addosso con lentezza snervante, seguendo le curve del mio corpo come se prima, intontito dal dolore, si fosse lasciato dietro troppi dettagli.

"Hai nuovi lividi." Commentò serio.
Sotto il suo sguardo analitico mi sentii a disagio, una sensazione che mi era sconosciuta, visto che tutti non facevano che ignorarmi. Colta dall'imbarazzo, stupii me stessa quando usai le mani per coprirmi le braccia.

Ma poi lui si voltò, spezzando quel breve attimo di magia che si era creato per dirigersi alla porta. Spinse giù la maniglia, aprendo una via di fuga che anche a me sarebbe tanto piaciuto imboccare.

"Non sei tu quella che si deve coprire per la vergogna." Fu tutto ciò che disse, prima di lasciarsi l'uscio alle spalle e fuggire da una realtà che forse gli stava stretta.

Ed io rimasi in attesa per qualche minuto, le mani ancora immobili sui lividi che mi coprivano le braccia, lo sguardo perso in cerca di chissà cosa, la bocca aperta per l'inaspettata sorpresa di esser stata, per una volta soltanto, considerata.

Il rombo del motore della sua moto fece tutto il resto, perché mi riscosse dallo stato di trance in cui ero entrata e mi portò a ripercorrere le scale che avevo sceso per raggiungerlo.

Quella sera avrei anche potuto convivere con l'odore che mi impregnava la stanza, perché quella sera mi sentivo un po' meno topo.

Perché quella sera non mi sarebbe servito sognare le ali per sentirmi un po' più libera.

Fu tutto ciò che accadde nel giorno in cui lo incontrai.

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Scar

Guidare fino a casa fu come fare un faccia a faccia con l'asfalto. Avevo rasentato la possibilità di fare un incidente ad ogni incrocio e quando ero arrivato mi sentivo così rincoglionito che non ero neanche riuscito a sistemare la moto sul cavalletto. L'avevo semplicemente sbattuta per terra, pregiudicando lo specchietto destro e un po' della vernice che decorava il fianco.

Una volta entrato infilai una mano in tasca per afferrare quel cazzo di telefono. Quando aprii la rubrica in cerca del numero di Jack, però, il pollice mi tremò così tanto che selezionai il contatto sbagliato.

"Scar? A quest'ora della notte?"
"Cazzo..." Farfugliai confuso. "Chi ho chiamato?"
"Sono Jade, non ti ricordi? Ciglia lunghissime e culo fantastico, me l'hai detto tu." Decisamente non ci voleva.
"Scusa, tesoro..." Stavo balbettando? "Devo aver sbagliato numero."
Ora sapevo che la J di Jack era dannatamente vicina a quella di Jade.

"È tutto okay? Ti sento strano."
"Non... Proprio." Forse mi era salita la febbre, perché avevo iniziato a confondere la voce dello sbirro con quella della ragazza, e non era piacevole attribuire un timbro da uomo alla tipa che avevo scopato nel bagno del Babilon. Ero certo che prima o poi avrei fatto un incubo su quella scena.

"Stai male? Cosa ti senti?" Arrivati a quel punto, tanto valeva farsi aiutare.
"Puoi passare a prendermi alla decima del Buco Nero? Devo andare in ospedale."

"Cazzo... Okay." Ci fu un fruscio di coperte che venivano spostate. "Dammi dieci minuti." Tra i deliri della febbre sorrisi compiaciuto, perché se una donna si trascinava giù dal letto alle cinque del mattino per venire a salvarti il culo era molto probabile che l'avessi scopata bene... E che avresti avuto un'altra occasione per sdebitarti in natura.
"Non scendere dall'auto e chiudi tutte le sicure finché non mi vedi uscire." Raccomandai prima di riattaccare.

Feci avanti e indietro per la stanza finchè non mi richiamò per dirmi che era arrivata. La sua Ford scassata sembrava messa peggio di me e forse era l'unica macchina rimasta in circolazione a non essere centralizzata.

Di certo non avrei sputato sul suo aiuto, visto che mi trovavo in condizioni pietose e che, probabilmente, non sarebbero bastati cinque arbre magique a coprire il mio cattivo odore. Volevo soltanto che mi ficcassero una flebo nel braccio e mi lasciassero morire ad una goccia di Toradol per volta.

"Stai da schifo." Commentò scrutandomi con la coda dell'occhio. "Se ti incontrassi stasera per la prima volta non te la darei." Con la testa abbandonata contro l'imbottitura del sedile, lasciai che un sorriso sincero mi coinvolgesse le labbra.

"Ma tu non mi hai incontrato stasera per la prima volta."
"E infatti è andata diversamente." Poggiai la fronte contro il vetro e mi lasciai cullare dalla sua guida tranquilla, per quanto fosse possibile godersi il viaggio su un auto sprovvista di ammortizzatori.
"Grazie, Jade..." Sussurrai subito dopo.
"Per avertela data?" Scossi la testa.
"Smettila di fare la scema."

Mi posò una mano sulla coscia e la strinse leggermente. Era fredda, mancava il tepore che avevo sentito poche ore prima, mentre la mocciosa si occupava della mia frattura.

Comunque la strinsi, visto che con lei potevo farlo.

Jade aveva iridi e capelli scuri, occhiaie pronunciate e una bocca piena e sensuale di cui avevo già sperimentato la morbidezza. Portava la frangia anche se era passata di moda da un pezzo e al naso indossava un anellino della stessa circonferenza di quello che avevo visto marchiarle il clitoride.

La classica tipa indipendente che sapeva cosa voleva dalla vita e aveva ben chiaro il modo in cui prenderselo. Era una da scarpetta da tennis, più che scarpetta di cristallo, e sfoggiava sempre degli enormi occhiali da sole perché diceva che le notti passate ai rave le invecchiavano il volto.

Dormiva di giorno e viveva di notte, e non aveva mai paura di esprimere un pensiero che andava contro la massa. L'avevo incontrata una sera al Babilon e avevamo condiviso qualche giro in pista e qualche giro di shot, poi avevamo finito per condividere anche il bagno del locale. Di certo non era la tipa da presentare alla propria madre, ma aveva un gran cuore e sapeva aiutare un amico in difficoltà.

Mentre viaggiavamo in silenzio fino all'ospedale più vicino mi venne difficile evitare il vivido ricordo delle braccia di Ella ricoperte di lividi.
Era stato lui, ne ero certo, e mio malgrado non ero proprio riuscito ad evitare di farmene una colpa. Ogni secondo che passava era una botta in più che lei prendeva, su un corpo da scricciolo che forse non aveva mai ricevuto altro se non quello.

Quel tempo indefinito serviva a ricordarmi che l'avevo lasciata lì, così come avevo lasciato la mamma a casa quella stramaledetta sera in cui io, invece, avrei dovuto esserci.

Forse era la febbre ad aggravare la sensazione di nausea che quel pensiero mi stava provocando.

"Spero che non te lo sia medicato da solo." Disse Jade indicandomi il dito fasciato. Di lei mi piaceva il fatto che sapeva quando chiudere il becco ed evitava le domande scomode. Perché io ero esattamente quel tipo di uomo che non aveva mai le risposte adatte.
"Certi vizi sono duri a morire, eh?"
"Eviti ancora gli ospedali?"
"Come la peste."

Se potevo scegliere scansavo sempre le cure mediche e, se invece ero obbligato ad andarci, sfruttavo la cosa per farmi iniettare un antidolorifico che mi stendesse finché non mi dimettevano.

Non avevo niente di personale contro gli ospedali, almeno fino a quando non ero stato costretto ad andarci grazie agli assistenti sociali. Odiavo in particolare i loro camici bianchi e il fatto che ogni fottuto membro del personale indossasse gli occhiali da vista.

Sembravano fatti con lo stampino, creati solo per esaminare i pazienti come topi da laboratorio e assoggettarli a psicofarmaci con cui riuscivano a renderli manipolabili. Non c'era molto da dire su quella merda che ti davano, se non che ti toglieva l'ultimo brandello di emozioni per rendertene schiavo.

Ai tempi in cui la mamma stava male non avevano fatto altro che trasformarla in uno zombie senza cervello e avevo odiato ognuna di quelle minuscole pillole che buttava giù la mattina, insieme al dannato bicchiere di succo che dovevo versarle io perché, ovviamente, una delle controindicazioni era un tremore invalidante alle mani.

Io mi sentivo diverso da quegli impasticcati: prendevo a stento roba per alleviare il dolore e, se volevo rincoglionirmi, mi facevo una botta, non un ansiolitico.

Quando l'avevo detto allo psicologo avevano cercato di rinchiudermi in un centro per tossicodipendenti. Comunque il loro sistema prevedeva una prigione per ogni problema e, per me che ero un problema vivente, quella situazione era un problema.

Insomma, una fottuta matassa di problemi dalla quale era meglio tenersi alla larga.

Jade interruppe i miei pensieri, tirando il freno a mano nel parcheggio del Meridion Hospital.
"Siamo arrivati." Annunciò assonnata.
E se avevo pensato di sentirmi meglio mi sbagliavo di grosso, perché quando misi un piede a terra la gamba mi cedette e fui costretto a sorreggermi contro il tettuccio.

Lei mi fu subito accanto e mi sostenne finché non entrammo. Quelle piastrelle immacolate non mi erano mancate per niente, né la visuale della classica tipa grassoccia che prendeva le prenotazioni all'entrata.

"Ho un dito rotto che mi ha fatto venire la febbre." Le dissi diretto.
Lei - che, naturalmente, doveva essere miope per omologarsi al resto del personale - si abbassò gli occhiali sulla punta del naso e mi guardò con aria annoiata.
"In fondo a quel corridoio, sulla destra." Indicò frettolosa. "Sala d'attesa per traumi minori."

Fu lì che andammo, restando ad aspettare su quella maledetta sediolina di plastica che a stento riusciva a reggere il mio peso.
"Pensavo che il posto più brutto che ho visto stasera fosse la tua macchina, e invece è questo ospedale per poveri." Nelle cliniche private ti davano anche il succo di frutta per il calo di zuccheri, mentre lì avevano soltanto un distributore automatico che risultava guasto.
"Non insultarla, se non vuoi fartela a piedi al ritorno."

Il dottore ci chiamò poco dopo, facendoci accomodare all'interno di una piccola stanza dedicata alle visite.
Quando mi misi a sedere sul lettino mi esaminò il dito, corrucciando la fronte mentre disfaceva la fasciatura di fortuna che aveva realizzato Ella.

"Questo l'ha medicato un bambino?" Commentò serio. Feci spallucce.
"Più o meno è quello che è successo."
"Beh... Dobbiamo rifarlo, con questa ferita rischia l'infezione. Ha sintomi strani? Febbre, brividi di freddo?"
"Ho tutti i sintomi."
"Come si è verificato il trauma?"
"Sono caduto."

"E si è fatto male anche alla fronte?"
"Sono caduto di faccia."
Il dottore sospirò, mentre procedeva a disinfettare entrambe le ferite.
"Sulla fronte ci vogliono dei punti, non sanerà mai se non suturiamo il taglio."
"Posso avere un antidolorifico?" Cosa volevo ammazzare, precisamente? Il dolore fisico o la stanchezza mentale?

Il dottore acconsentì alla richiesta e mi fece indossare una specie di maschera con un tubo attaccato all'estremità inferiore. Di lì a poco, partì una leggera nebbia che mi fece calmare all'istante.

Poi iniziò a sistemarmi il taglio sulla fronte, attuando una leggera pressione verso il basso per far aderire le graffette alla pelle. Jade mi osservò preoccupata, storcendo il naso ogni volta che il clic della macchinetta suggeriva il corretto attecchimento della spilletta.

Finita l'operazione più delicata iniziò a dedicarsi al dito che, a detta sua, richiedeva qualche attenzione in più.

Dopo aver disinfettato e fasciato nuovamente la zona, mi fece una puntura di Rocefin per contrastare il progredire dell'infiammazione e la comparsa di ogni possibile infezione.

Poi mi mandò a casa, con la promessa di tornare a fare altre punture per i prossimi sei giorni. Nel frattempo, quel gas che avevo inalato mi aveva calmato anche i nervi, oltre che la febbre e, quando fummo di ritorno al quartiere, mi sembrò di aver perso pure la spina dorsale. Il tremore aveva smesso di invadermi le mani e non sentivo più quel sonno invalidante che mi aveva pervaso a casa di Ella, facendomi rischiare molto più di un semplice osso rotto.

Come avevo potuto addormentarmi in una situazione così pericolosa? Sarebbe bastato spogliarmi per trovare il microfono nascosto.

Il pericolo che avevo corso mi fece capire che avrei dovuto riposare un po', prima di tornare operativo. Non potevo proprio rischiare altri colpi di sonno in presenza del Secco. Preso da quella convinzione, guardai l'orologio nella speranza di riuscire a ritagliarmi un po' di tempo per riposare.

Fu per quello che decisi di congedarmi. Tuttavia, proprio quando stavo per salutare Jade, lei si allungò verso il mio corpo per bloccare la sicura dello sportello.

"È già passata l'alba, quindi siamo appena in tempo per il buongiorno." Non avevo dimenticato la promessa che si celava dietro i suoi sorrisi maliziosi, però non avevo abbastanza tempo per farmi una doccia e andare a prendere Ella per portarla a scuola, se mi fossi fatto fare un pompino proprio in quel momento.

"Non sono sicuro che mi si alzerà in queste condizioni." Protestai debolmente, perché lei mi aveva già spostato la maglietta quel tanto che bastava per cominciare a scendere, lasciando una scia di baci umidi lungo il tragitto che portava all'ombelico. Ricapitolando, di lì a qualche minuto avrei ritrovato la spina dorsale insieme ad una gigantesca erezione che mi avrebbe ristabilito completamente.

In un attimo mi slacciò i pantaloni per tirarmi fuori il cazzo, ed io non riuscii a fare altro se non aprire un po' di più le gambe per permetterle di insinuarsi in mezzo. Perché le donne riuscivano sempre a tenermi in pugno?
Forse perché mi piaceva metterci l'uccello, in quel pugno.

"Figurati se non ti si alzava." Disse a filo della punta. Adoravo quella sensazione, soprattutto considerando che era passato un po' dall'ultima volta che ero affondato nel calore umido della bocca di una donna.

Abbandonai la testa contro il sedile e usai la mano fasciata per spingerle giù la testa e lasciarle assaporare il mio desiderio.

Jack, aspetta che ti do un altro piccolo assaggio di realtà, pensai in un sorriso compiaciuto, consapevole del fatto che lo sbirro avrebbe sentito tutti quei risucchi.

In fondo me lo meritavo un piccolo premio per il mio primo giorno da spia... E concedermi un po' di relax dopo quelle ore infernali mi avrebbe aiutato a concentrarmi meglio nelle prossime mosse.

Dopo qualche colpo di lingua, però, quel maledetto telefono iniziò a vibrare. Digrignai i denti, assalito dalla voglia di fracassarlo definitivamente.
"Devo rispondere." Dissi con voce roca.
"Rispondi, io non mi distraggo."
Vedere il numero 10 sul display sembrò quasi una condanna.

"Si?" Risposi scocciato.
"Cristo... Stai scopando?" Era cambiata così tanto la mia voce?
"No."
"Cazzate, posso sentire i rumori." Esasperato dalla sua invadenza, alzai gli occhi al cielo irritato.

"Che c'è?" Sbottai.
"Ella è qui, pronta per la scuola. Quando hai finito di farti succhiare il cazzo passa a prenderla." E riattaccò.

Sbuffai dal nervosismo, frustrato per la consapevolezza che non sarei mai riuscito a venire con quella pressione addosso. A malincuore, usai il pollice per sollevarle il mento e costringerla a smettere.

"Mi spiace, piccola, sarà per un'altra volta." Lei mise il broncio.
"Mi hai tirata giù dal letto alle cinque del mattino e ora che hai fatto i tuoi comodi mi cacci senza alcun riguardo."
Sbloccai la sicura.
"Ti chiamo più tardi." Oppure no.

Aprii lo sportello e uscii dall'auto. Lei ripartì poco dopo, con una sgommata che esprimeva tutto il suo disappunto.

Una volta in casa mi spogliai per farmi una doccia veloce e rendermi presentabile, poi mi vestii frettolosamente e uscii per prendere la moto.

Era proprio vero che ad occuparti dei bambini finivi per perdere i diritti civili.

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