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2. L'incontro

Quando uscii dalla caserma cercai di incamerare più aria possibile e quasi gemetti di piacere sentendo i polmoni gonfiarsi.

Il cielo era parzialmente coperto e la foschia che aleggiava nell'aria rese nuovamente umido il sangue incrostato sulla ferita.

La pelle era rimasta aperta e tirava da morire, lì dove ci sarebbero voluti dei punti io avevo ricevuto soltanto un po' di disinfettante e un cerotto che si era staccato con le prime gocce di pioggia. Avevo ringraziato Jack per il trattamento d'onore che mi aveva riservato e mi ero defilato con la promessa di rispondere ad ogni sua telefonata.

Quanto tempo ero stato lì dentro? Un'ora? Mi era sembrata un'eternità.

Le manette mi avevano graffiato i polsi e mi prudeva tutto il corpo. Era da quando avevo accettato quel compito da infame che le dita avevano preso a tremarmi, la pelle d'oca a farmi formicolare le braccia e il cervello a scoppiarmi tra le tempie. O forse era stata la botta in testa a farmi sentire una merda.

Ogni volta che uscivo da quel maledetto stanzino finivo per sentirmi più sporco di quando c'ero entrato. Io, che di pulito non avevo conservato nè il sangue nè la coscienza.

Oltre la recinzione esterna trovai una volante incaricata di riportarmi a casa e, in poco tempo, raggiungemmo l'indirizzo che gli avevo fornito.

Mentre ci avvicinavamo al mio isolato, attraverso il vetro del finestrino, osservai scorrere distrattamente i sudici marciapiedi che delimitavano la corsia.

Il quartiere di merda in cui abitavo mi sembrò quasi un posto immacolato in confronto alla stanza di prima.

Quelli che ci vivevano lo chiamavano Buco Nero, poiché la luce non sembrava riuscire a penetrare attraverso quegli spessi mattoni grezzi di cui erano composte le case dei condomini. L'oscurità causata dalla mala vita risucchiava ogni cosa e non lasciava altro che morte.

Tutti sapevano che non era saggio uscire di casa oltre le undici di sera e chi lo faceva era uno spacciatore oppure un ladro. Io ero sempre stato entrambe le cose e, anche quando in faccia avevo ancora gli occhi innocenti di un bambino, non mi spaventava varcare quelle strade oltre il coprifuoco.

In quel momento la via era deserta e, di tanto in tanto, si vedeva soltanto qualche zingaro vestito di stracci dormire sull'asfalto umido, parzialmente nascosto sotto strati di coperte che qualche passante impietosito dalla scena doveva avergli donato.

Ricordavo quel posto per come un tempo era stato, quando ancora il frastuono dei proiettili non sovrastava il cinguettio degli uccelli che volavano in cielo, quando le aiuole delle abitazioni mantenevano vivo il proprio verde, prima di esser sostituite da quell'ammasso di fango che, negli ultimi anni, aveva finito per insudiciare ogni cosa.

Mentre le ruote slittavano veloci sull'asfalto bagnato riflettei sul patto che avevo appena stretto: dovevo entrare nella casa e nel cuore del Secco, diventargli amico e alleato, un fratello. Dovevo respirare la sua stessa aria e frequentare gli stessi ambienti. Le sue orecchie e i suoi occhi. E nel frattempo sarei stato anche le orecchie e gli occhi degli sbirri.

Quel compito mi rendeva confuso e agitato, perché sapevo che guadagnarsi la sua totale fiducia sarebbe stata un'impresa quasi impossibile. E poi non tolleravo l'idea di tradire il giuramento di fedeltà assoluta che avevo fatto davanti a tutto il gruppo quando ero stato selezionato per diventare uno dei suoi.

Era successo perché lui mi aveva risollevato dalla strada e mi aveva ridato uno scopo. Aveva fatto delle mie cicatrici un punto di forza da sfruttare contro gli altri. Quando mi aveva visto per la prima volta la sua espressione non mi era sembrata disgustata, ma estasiata.

Facevo paura agli altri e a lui andava bene così, mi aveva assegnato un incrocio ed io gli avevo sempre portato soldi e rispetto... E poi era successo, improvvisamente ero salito di grado: da classico spacciatore a porzionatore.

Per meritarmi quella promozione non avevo fatto altro che far quadrare i conti, calcolando la grana che i pusher gli portavano in relazione alle dosi spacciate. Walter mi aveva messo alla prova e si era accorto che ero il più veloce del gruppo e che, quando non ero strafatto, riuscivo anche a contare con lucidità i pezzi pronti per lo smistamento.

I miei pacchetti non avevano mai neanche un millesimo di grammo in meno, né uno in più. Preciso come una bilancia, il tempo che impiegavo a dosare quella sottile polverina bianca era l'unico, oltre a quello che passavo a scopare, in cui non pensavo a nient'altro. C'eravamo soltanto io e i numeri, senza i ricordi dei drammi.

Mi ero disintossicato dalla coca e dall'alcol allo scopo di rendermi utile e quindi, in un certo senso, da quando ero un suo sottoposto avevo acquisito un valore che non avevo mai avuto.

Ero diventato ciò che avevo sempre voluto essere: una specie di macchina fredda e calcolatrice. Sopportavo la percezione del dolore e rifiutavo ogni rapporto umano che implicasse un sentimento: due fattori che mi avevano reso più simile a lui. Soldi, sesso e nessun posto per le emozioni.

Potevo dire che ci capivamo? Io non avevo mai ucciso nessuno, ma non potevo negare il fatto che se mi fossi trovato davanti alla possibilità di farlo forse sarebbe successo. Lui invece aveva ucciso, usando quella verità come un'arma per minacciare gli altri.

Quando la volante si fermò davanti al mio vialetto di casa, scesi e richiusi lo sportello con poca grazia. Non mi stupì notare che l'auto mi mollò lì e schizzò via alla velocità della luce. Persino gli sbirri evitavano di baccagliare quelle strade e, quando proprio si trovavano costretti ad imboccarle, cercavano di abbandonarle quanto prima.

La mia casa era l'unica recintata del quartiere e si poteva classificare a metà tra il luogo degli orrori e il posto che non avresti mai voluto visitare quando andavi a trovare un amico.

All'entrata avevo sistemato la vecchia rete di un materasso nel tentativo di simulare un cancello, mentre ad isolare il perimetro c'era ancora la stessa recinzione arrugginita che scavalcavo sempre da piccolo, quando gli assistenti sociali si presentavano alla nostra porta e dovevo sfuggirgli.

Non era il massimo, era vero, e non avevo mai sprecato tempo nell'intento di sistemarla. Era quella la mia casa, e se dentro c'era del marcio non avrei fatto nulla per aggiustare la situazione, che era un po' lo stesso modus operandi che avevo adottato su me stesso: se ero nato per errore e cresciuto come disastro, di certo non sarei morto da angelo.

Infilai le chiavi nella toppa ed entrai. L'odore che respirai all'interno non era paragonabile a quello di una casa pulita e sistemata. Al contrario: era l'aria stantia di erba e tabacco quella che inalai quando affondai nell'imbottitura sdrucita del mio vecchio divano.

Mi sarebbe piaciuto soltanto rilassarmi e farmi una canna in santa pace, ma sapevo che non avrei potuto rimandare l'inevitabile ed ero già stato via per troppe ore. Il Secco, ne ero certo, si sarebbe innervosito se non mi fossi fatto sentire al più presto.

Accesi il cellulare e scorsi la rubrica. L'avevo salvato semplicemente come 10, perché Walt era fissato con i numeri e non voleva che il suo nome comparisse sui nostri cellulari.

Roba da schizzati, se consideravi il fatto che ad ognuno veniva assegnato un numero diverso in base all'ordine in cui eravamo stati presi da lui.

Io ero stato il decimo, il Falco era il quarto, Logan rappresentava l'ottavo e i mocciosi che spacciavano... Beh, loro non avevano neanche il diritto di conoscerlo, il suo recapito telefonico.

All'appello mancavano altri sette numeri, ed era meglio non chiedersi che fine avessero fatto.

Quando avviai la chiamata il cuore prese a martellarmi nel petto. Poi cercai di regolarizzare il respiro e schiarirmi la voce, maledicendomi per aver scartato l'idea di stonarmi con l'erba prima di contattarlo.

"Walt?" Dissi dopo qualche squillo.

"Ma che fine hai fatto? L'appartamento era vuoto e sembrava ci fosse scoppiata una guerra. Johnny è scappato dopo aver avvistato una volante, poi ha perso ogni contatto con voi."

Nella speranza di riuscire a strappargli una dichiarazione incriminante, attivai il vivavoce e accostai il telefono al piccolo microfono che il collega di Jack mi aveva sistemato sotto la maglietta.

"Ho avuto un piccolo problema con Logan."

"Un problema?" Ci fu del rumore in sottofondo. "Ella, merda, ti ho detto di stare più attenta quando cammini!"

Era con una donna?

"Comunque non voglio sentire un cazzo per telefono, devi venire qui."

La sua voce si fece più lontana e dalla cornetta lo sentii sbraitare con un'altra persona.

"Ehi, Nick! Passa a prendere Scar." Un fruscio di contanti che venivano sfogliati. "Tieni, prenditi pure quella birra scadente che ti piace tanto." Ci fu qualche rumore di sottofondo, prima che riprendesse a parlare: "Sì, anche una stecca di Pall Mall... E muoviti."

Poi si rivolse nuovamente a me: "Tieniti pronto per le 19:15."

Riattaccò senza aggiungere altro.

Mi buttai sotto il getto bollente della doccia per darmi una sciacquata veloce e schiarirmi le idee. Avevo solo quindici minuti per rendermi presentabile e preparare un discorso convincente sulla fine di Logan e il livido che avevo in testa.

Una volta finito di pulire il taglio, riservai qualche minuto alla scelta degli abiti. Optai per una semplice maglietta grigia che avrebbe avuto una maggior coprenza sul microfono.

Era un po' sporca di sangue, come la metà degli abiti presenti nel mio armadio, ma quello ormai era diventato una specie di tratto contraddistintivo.

Un rapido sguardo allo specchio fu in grado di disgustarmi completamente, e non a causa della ferita.

Un semplice bugiardo poteva diventare un infame così in fretta?

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Ella

Mi ero ritrovata spesso ad analizzare quei documentari in cui mostravano animali che sbranavano altri animali, giustificando quegli atti dietro la vecchia teoria del più forte che schiacciava il più debole. Senza distruzione non ci sarebbe stato alcun progresso.

Non esisterebbe l'evoluzione in esseri più forti, se prima non ci fosse alla base un motivo per diventarlo, più forti. Ma il più debole poteva anche fuggire e sottrarsi alle fauci del più forte. E le scene che preferivo erano proprio quelle in cui si dava per spacciata la vittima, e invece poi riusciva a dileguarsi stupendo tutti gli spettatori.

Se era vero che in natura ci fosse quella rara possibilità di sovvertire un destino già segnato, era anche vero che nella razza umana non si poteva evadere dal proprio, se quello dipendeva dalla famiglia di appartenenza. Dove scappavi se il nemico ce l'avevi dentro casa?

Era come dare un topo vivo ad un serpente rinchiuso in una teca e giustificarsi per quella crudeltà sostenendo che la natura doveva fare il suo corso, una scusa da cazzoni e da infami.

Il topo non sarebbe mai potuto uscire dalla teca e avrebbe finito per soccombere al proprio destino senza avere alcuna possibilità di scelta.

Anche se alla fine facevo sempre ritorno al nido, dovevo ammettere che ero diventata piuttosto brava a scappare. Potevo essere paragonata ad un topo, mentre Walt era il mio serpente.

Facevamo quel gioco del topo e del serpente da qualche anno, e avevo dimenticato la data d'inizio da quando avevo smesso di contare i giorni. Giorni che per me si susseguivano tutti uguali, statici e intransitori come le lancette di un orologio rotto.

La cosa peggiore in quella situazione di merda era aver perso la rabbia, sostituita inesorabilmente dall'apatia della rassegnazione.

C'era stato un tempo in cui io e Walt eravamo inseparabili: lui faceva il serpente con quelli che cercavano di schiacciarmi e a me piaceva comportarmi da topo perché mi faceva sentire amata e protetta.

La mia campana di vetro era andata in frantumi dopo la morte della mamma, quando mio fratello aveva smesso di amarmi e di proteggermi, ed era diventato un nemico da cui scappare.

Non avevo accettato da subito quel destino crudele, un po' perché rifiutavo di pensare che potesse accadere proprio a me, un po' perché nella vita mi era sempre stato insegnato il valore della libertà.

Il passaggio da topo a farfalla l'avevo agognato notte dopo notte, qualche volta avevo addirittura sognato che mi erano cresciute le ali ed ero riuscita a volare via da quel posto di merda.

Poi mi aveva svegliata la mano di Walt che si infilava sotto le lenzuola e le ali erano diventate catene da cui era stato impossibile sottrarsi.

"Perché hai sempre quell'espressione da rincoglionita?" Nick mi si parò davanti per mollarmi uno schiaffetto sulla fronte.

Walt comparve sulla porta, perché avere una sola disgrazia in casa non bastava, dovevano viaggiare in coppia come gli sbirri.

"Ella, ti ho detto di andare sopra, cazzo!" Scrutai di sbieco lo stronzo numero uno. "E non mi sfidare con quello sguardo."

Era mio fratello che dettava legge in quel posto di merda ed io per tutti ero soltanto Ella Miller. Non solo Ella, non solo Miller: il mio nome non veniva mai pronunciato senza essere accompagnato dal mio cognome.

Far parte della famiglia peggiore di tutto il South Side di Chicago era uno schifo. Uno dei motivi in cima alla lista era che ogni giorno, affacciata alla finestra della mia squallida stanza tinta di giallo, dovevo assistere al via vai di gente dai costumi discutibili e gli accenti più bizzarri.

Walt prendeva i bulgari, gli albanesi e i rumeni perché poteva dargli quattro soldi in mano e rimandarli a casa con la minaccia di farli fuori se non gli avessero portato indietro almeno il doppio di quei contanti.

Loro non si lamentavano affatto, perché non avevano beni da mantenere e gli bastavano una tendopoli e una bicicletta per sopravvivere. Se io ero uno stupido topo, loro si trovavano in fondo alla catena alimentare della razza umana e potevano essere classificati insieme al plancton, quei fantastici pescetti che venivano divorati dalle foche.

Comunque il plancton aveva permesso a mio fratello di comprare un gioiellino da cinquanta pollici e, grazie a quello, potevamo assistere ogni sera agli arresti di gente come Walt. A lui divertiva moltissimo commentare il notiziario come un opinionista esperto per sentirsi più furbo degli altri.

Di recente, tuttavia, era diventato così paranoico che aveva smesso di ricevere quei rifiuti umani a casa, e da quel momento avevo guadagnato un piccola ma significativa libertà: potevo uscire dalla mia stanza ogni volta che volevo e senza dovergli chiedere il permesso.

Walt era così protettivo nei miei confronti che sceglieva tra i suoi ragazzi il più degno di fiducia e lo costringeva a farmi da balia. Venivo accompagnata ovunque tranne che al bagno e non potevo mai uscire se con me non c'era lui.

Mio fratello dava disposizione di allontanare chiunque mi si avvicinasse e tutti quelli che a primo impatto non sembravano tipi affidabili. Cosa che mi faceva ridere, considerando che i meno affidabili erano proprio i ragazzi che spediva a seguirmi.

Comunque, nessuno durava a lungo in quel ruolo: bastava una sola occhiata sospetta al mio corpo e Walt li rimetteva al mondo, prima di scegliere qualcun altro e lasciare che il gioco ricominciasse. La mia opinione non contava nulla e, come sempre, venivo trattata come un oggetto da scaricare qua e là.

A me piaceva pensare che quella paura che gli altri potessero distruggermi derivasse dal bisogno che sentiva di distruggermi per primo.

Perché, ritornando alla faccenda dei documentari, la storia del leone che mangiava prima del branco e si beccava la gazzella migliore gli calzava alla perfezione.

Comunque preferivo essere seguita da uno di quegli sfigati che comandava a bacchetta, piuttosto che da lui dentro quella prigione che chiamavamo casa.

La parte più bella della mia giornata, nonostante odiassi studiare, era andare a scuola: erano le uniche ore in cui mi era concesso di vedere un po' di luce, un pezzetto di mondo esterno.

"Fa' come ti ha detto, se non vuoi un'altra punizione." Era stato lo stronzo numero due a parlare: l'altro mio fratello.

Nick era un po' troppo stupido per continuare gli studi e abbastanza intelligente per capire come far soldi. Aveva abbandonato la scuola poco dopo il terzo superiore ed era diventato il primo discepolo di Walt. Lui parlava e l'altro eseguiva, erano inseparabili e intoccabili. Non potevi criticarne uno se davanti avevi l'altro e, ciò che ne era derivato, era stato farmi scappare da entrambi.

Non sapevo proprio che geni malati avesse avuto, la mamma, per mettere al mondo quattro diavoli e una sola bambina.

A volte mi chiedevo se non fossi stata adottata, e se non avessimo avuto tutti i suoi stessi occhi verdi e i capelli rossi l'avrei pensato sul serio.

La punizione a cui si riferiva, ovviamente, faceva parte di tutta una serie di abusi corporali che ricevevo sin da quando le ciglia avevano iniziato ad allungarsi sulle guance e il seno era cresciuto sotto le magliette.

A far male più delle botte era stato il tradimento subito. Difficile riuscire ad accettarlo, quando gli affetti che cuciono diventano lame che lacerano inizi a sentirti sola e incompresa in un mondo che gira al contrario.

Un giorno in più per me non era un regalo da onorare, ma un altro mattone da aggiungere al muro che mi ero costruita attorno. L'isolamento sociale era arrivato con i primi lividi, precisamente quando le persone avevano iniziato a fingere che non esistessero. Avevo le braccia viola e loro non azzardavano neanche una domanda.

Nessuno mi chiedeva come stavo, oppure se avessi voglia di una spalla su cui piangere. Cazzate così le avevo viste accadere in sei film su dieci: la protagonista veniva picchiata e quello che poi sarebbe diventato il suo uomo correva a salvarla. Il mio film, invece, non avrebbe avuto alcun lieto fine, semplicemente perché non aveva eroi.

Allora mi ero costruita da sola uno scudo di indifferenza e avevo iniziato a smettere di guardare quelle fiction.
Se è migliore della tua fai finta che non esista, era diventato il mio mantra.

"Muoviti, cazzo, sparisci!" Walt aveva parlato, e così era arrivato il momento di obbedire.

Senza tradire alcuna emozione imboccai le scale e, ancora una volta, mi isolai nella mia stanza.

Passò una manciata di minuti in cui Nick uscì e rientrò a casa, prima che iniziassi a sentire diverse grida provenire dal piano di sotto.

Era risaputo che la curiosità fosse tipica di tutte le donne e, purtroppo, era sempre stata la caratteristica principale di tutti i componenti della famiglia Miller. Una sorta di marchio di fabbrica che, negli anni, mi aveva garantito una dose infinita di guai.

Lentamente aprii la porta e mi affacciai sul corridoio buio.

Con il passare del tempo avevo allenato i miei passi a diventare sempre più leggeri, tanto da riuscire a non farmi più sentire neanche quando mi trovavo ad un solo metro di distanza.

Con cautela scesi le scale e mi fermai in prossimità dell'ultimo gradino. Fu lì che mi strinsi il più possibile contro il muro, sporgendomi leggermente verso la cucina.

"Io lo ammazzo quel figlio di puttana!"

Perfetto, Walt stava per esplodere in uno dei suoi soliti deliri di onnipotenza. Il mio intento era guardare il volto del malcapitato prima che potesse accadere l'irreparabile.

"Quel coglione avrà già cambiato contea, insieme a venti dosi già perfettamente porzionate." Non mi sembrava di conoscere il suono di quella voce.

Walt prese un respiro profondo.

"Quanto pesavano i sacchetti?"

"Erano pezzi da dieci, li ho pesati io." Ci fu una breve pausa. "Sai quanto sono preciso con i grammi."

Il pugno di Walt si scagliò contro le piastrelle. Avrei riconosciuto quel rumore per tutta la vita, e se non si era rotto la mano aveva di sicuro crepato il muro.

"E va bene, ora ti dico cosa facciamo. Tu mi hai fatto incazzare perché non sei riuscito a fermarlo." Sbraitò irritato. "E lui è un uomo morto perché ha provato a fottermi."

"Cosa vuoi fare?" Chiese Nick.

"Ora chiamo il Falco e lo mando a cercarlo." Il suono delle dita che battevano nervosamente sullo schermo del cellulare mi comunicò il fatto che la discussione era giunta al termine.

Però a me era rimasta la curiosità di dare un volto ad una voce che non avevo mai sentito prima. Eppure, se gli aveva permesso di entrare in casa, voleva dire che apparteneva ai pochi eletti che ancora potevano farlo.

Ma se fosse successo mi sarei sicuramente ricordata di un timbro così freddo e profondo. In lui non avevo percepito alcuna traccia di paura, e quello poteva voler dire soltanto due cose: che quel ragazzo era peggio di mio fratello, oppure che come me non provava alcuna emozione... Ed io avrei scommesso sulla prima.

"Chi ti ha soccorso?" Chiese Walt.
"Cazzo, guardami bene. Ti sembra una ferita che ha ricevuto assistenza?"
"No, sembri una merda."
Era davvero così brutto?

Mi sporsi ancora un po'.
Se solo riuscissi a...

Il mio piede mancò un gradino e scivolai verso il basso.

Booom!

L'assenza di appigli ai quali potermi sorreggere mi fece crollare a picco contro il pavimento, sotto gli occhi sconcertati dei miei due fratelli e di... Allungai lo sguardo sul ragazzo che mi stava davanti.

Era di spalle e riuscivo a scorgere soltanto una montagna di muscoli avvolti da una t-shirt oversize macchiata di quello che sembrava essere sangue rappreso.

Impiegai un solo istante a rendermi conto che quella situazione non avrebbe potuto portare a niente di buono, e maledissi l'istante in cui mi ero sentita invincibile per la convinzione di riuscire a passare inosservata.

I suoi capelli neri sfumavano fino a scomparire su un tatuaggio dall'aspetto cattivo. Era la coda di un serpente a sonagli quella che vedevo percorrergli la nuca, mentre la lingua biforcuta costeggiava l'arco di un orecchio piccolo e perfettamente rotondo. Quando si voltò, fu scioccante notare che il bordo esterno era ripiegato su se stesso, un tratto distintivo dei pugili e indice di aver preso troppe botte in testa.

Tutto ciò che percepii nella sua figura trasudava potere, sesso e un pizzico di pericolo che, ne ero certa, chiunque sarebbe stata disposta a correre. Era indubbio che al suo cospetto avrei dovuto inorridire, e invece rimasi pietrificata sul posto a pormi un mucchio di domande sulla storia che l'aveva reso così inquietante.

E se avevo pensato che tutti i tatuaggi che gli ricoprivano la testa fossero esagerati, non avevo ancora fatto i conti con la facciata anteriore. Perché lì, su un paio di zigomi pronunciati e rigati di vecchie cicatrici, si affacciavano due pozzi neri senza fondo. I suoi occhi sembravano spenti e privi di vita, incapaci di trasmettere emozioni. Talmente vuoti che potevi perderti a guardarli nel tentativo di capire cosa celassero.

Fu ciò che accadde, perché io mi persi. E mi persi così tanto che non notai le sue labbra schiudersi per lo stupore, quando un manrovescio mi scaraventò all'indietro facendomi crollare contro il tappeto persiano del salotto.

Ancora senza fiato per il colpo incassato mi toccai la guancia arrossata e, quando mi guardai la mano, la trovai sporca del mio sangue.

"Ti avevo detto di restare in camera tua. Non ascolti mai quello che dico, cazzo!" Sbraitò Walt.

Si sarebbe incazzato ancora di più se lo avessi ignorato, e fu proprio quello che feci, quando mi lasciai nuovamente attrarre dal tipo spaventoso.

La scena alla quale aveva appena assistito non doveva essergli piaciuta per niente, perché lo vidi serrare le labbra e digrignare i denti come avrebbe fatto un pitbull in procinto di sbranare un barboncino.

Solo che mio fratello non aveva niente in comune con i barboncini, e quando notò la direzione del mio sguardo alzò il braccio per colpirmi ancora una volta.

"Sto parlando con t..."

Una mano enorme e tatuata gli circondò la spalla in una stretta tutt'altro che amichevole.

Il volto di Walt si inclinò per inchiodarlo in un'occhiata omicida.

"Ma che cazzo fai..." Il suo tono di voce era sceso di qualche grado, rendendo quella domanda simile ad un flebile sussurro minaccioso.

"Può bastare. Ha imparato la lezione."
I due si fissarono come se fossero in procinto di staccarsi la testa a morsi e per un attimo fui terrorizzata dall'idea di scatenare una rissa in casa nostra.

Un conto era ricevere uno schiaffo e non reagire e un conto era tirare un pugno ad un tizio che aveva tutta l'aria di sapersi difendere.

"Hai sentito, Nick? Scar ha cacciato la testa fuori dal sacco." Scoppiò in una risata nervosa e poi tornò a guardarlo. "Pensi di saperne un cazzo di qualcosa su come si educa una mocciosa?"

"Onestamente? Da quello che ho visto penso di saperne più di te." La sua risposta secca mi innescò un moto d'ansia che mi costrinse a trattenere il fiato, perché di sicuro mi ero sbagliata ad inquadrarlo: non era peggio di mio fratello e non era privo di emozioni, forse era semplicemente pazzo.

Walt lo afferrò per la maglietta e lo spinse contro il muro. Di quel passo avrebbero finito per ammazzarsi, e ne ebbi la certezza quando lo vidi tirar fuori un coltellino dalla tasca dei jeans.

Il rumore della lama che schizzava fuori dall'impugnatura coprì il silenzio della stanza, facendo crescere la tensione a tutti i presenti.

Avevo le spalle talmente rigide da sembrare un tronco di legno e, quando Walt sollevò con la punta del coltello il mento spigoloso di Scar, mi accorsi che non avevo ancora ripreso a respirare.

Fu sempre con la lama che guidò i movimenti del suo volto a destra e a sinistra, come a voler catturare con gli occhi ogni centimetro del suo viso contratto.

"Guardati bene, ritardato. Pensi che tutti questi schizzi d'inchiostro potranno mai cancellare le cicatrici che porti sulla pelle? Sembri un cazzo di tagliere. Per caso ne vuoi un'altra?" Ringhiò furioso.

Mi ritrovai a rabbrividire e, senza pensarci due volte, scattai in piedi e alzai la testa.

"Finiamola qui," dissi in un sussurro, "ero uscita per un bicchiere d'acqua e non avevo capito che fossi in compagnia."

Scar distolse lo sguardo dal coltello per fissarmi con occhi impenetrabili.
Cosa ci leggevo dentro? Era un codice che non riuscivo a decifrare.

Il piercing che gli attraversava il sopracciglio brillò sotto la luce del lampadario, creando intensi riflessi di luce su una brutta ferita che gli marchiava la tempia destra.

Walt, invece, digrignò i denti senza degnarmi di uno sguardo.

"Torna di sopra. Subito." Rispose secco. "Qui me la vedo io."

Con i pugni serrati e la gola annodata, mi voltai per imboccare le scale.

Era decisamente arrivato il momento in cui il topo mollava tutto e si dava alla fuga.

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