𝗼𝗿𝗻𝗶𝘁𝗵𝗼𝗽𝘁𝗲𝗿𝗮 𝗮𝗹𝗲𝘅𝗮𝗻𝗱𝗿𝗮𝗲
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Questo semestre, gli esami, non li do.
Questo semestre mi sa che non combino proprio niente.
Questo semestre, come sempre, questo semestre penso che alla fine sarò solo un fallimento.
Non esco di casa.
Ironico, no?
Maledetta ironia.
Chi t'ha detto che mi puoi inseguire a quel modo?
Non esco di casa.
Sakusa inizia a percepirmi come elemento d'arredo, elemento di compagnia accettabile, se rimango in questo luogo sicuro.
Inizia con il farmi dormire sul letto, distanza sicura ma non eccessiva, si concede una carezza, l'intreccio delle dita, un buffetto sul viso.
Non mi bacia.
Non sulle labbra.
Ma ieri mi ha baciato sull'interno del polso dove la carne è tenera e nuova, e mi è sembrato di non aver mai ricevuto un bacio come quello.
Se esco mi ripudia di nuovo.
Non lui, la malattia, ovviamente, ma penso che ci abbiamo tutti fatto l'abitudine, ormai.
Non esco di casa.
Detesto rimanere chiuso nello stesso posto per tanto tempo. Non sono propriamente claustrofobico ma più un'anima libera, direi, rimanere rinchiuso non fa particolarmente parte delle mie abitudini.
Ma certe cose si imparano, e io sto imparando a stare a casa.
Tranne quando ci sono cose più grandi di me in ballo.
Certe volte, uscire, è proprio necessario.
Fare la spesa, ad esempio. Esiste la spesa online, ma Omi è tanto più sicuro all'idea che le cose che mangia le abbia toccate io piuttosto che un estraneo. Certo, le lava e rilava e passa sotto l'acqua tante volte che mi sembra voglia spazzarne via lo stesso sapore, ma mangia.
E non ho il cuore di relegarmi anche a pensare che smetta di nutrirsi.
Un altro mese, passato così.
Giorni interi entro quattro mura.
Parliamo tanto.
Ci sediamo uno all'opposto dell'altro sul divano, le mie gambe tirate su e le sue allo stesso modo per non farci sfiorare, come divisi da un vetro che in realtà poi nemmeno esiste.
Ci guardiamo negli occhi.
Parliamo.
Di qualsiasi cosa.
Delle cose stupide, delle cose profonde, delle cose di tutti i giorni e di quelle che ci piacerebbe fare. Sogniamo come due stupidi sapendo che le cose non cambieranno, tracciamo i contorni della vita che vorremmo e che siamo perfettamente consci non avremo mai.
Ci divertiamo a parlare di matrimonio, a discutere come due quindicenni sul colore del vestito e sugli invitati, sui fiori, sul luogo.
Sakusa non è d'accordo con la mia idea di cerimonia in grande, dice che più di una trentina di invitati sono troppo, ed è anche convinto che starei di gran lunga meglio con un vestito sui toni caldi, piuttosto che quelli freddi che a me piacciono tanto.
Parlare aiuta.
Parlare, aiuta?
È dolceamaro.
Per entrambi.
Sognare è sempre stato qualcosa di gratuito e accessibile senza rimorsi.
Però quando ti rendi conto, come ti immergessi in un mare gelato, che quello che speri e vaneggi con quell'aria distaccata, non lo potrai mai avere, sei completamente disarmato di fronte all'aridità della realtà.
Ci piace sognare un matrimonio e parlarne ore.
Non ci piace allo stesso modo finire i discorsi con la consapevolezza che tutto quello che abbiamo appena detto è vano e vacuo.
Ci piace dormire dandoci la mano.
Non ci piace allo stesso modo svegliarci distanti perché Sakusa nel sonno rigetta il contatto.
Ci piace tracciare i confini dei polpastrelli con le braccia tese nell'aria, le dita intrecciate.
Non ci piace allo stesso modo non riuscire nemmeno a baciarci.
Oggi sono uscito.
Sono dovuto uscire.
Ci sono cose che non posso transigere, e Sakusa è una delle poche volte che mi ha spinto e quasi costretto, a mettere piede fuori di casa.
Per quanto so che non voglia questo per me, non può cacciarmi dal suo fianco perché sa che non lo lascerò mai, e sa che se c'è un modo per rendermi meno disgustosamente umano, agli occhi della sua malattia di vetro, lo sfrutterò in tutti i modi.
Ma questa volta, questa volta non ha ceduto.
Osamu mi chiama da due settimane.
Non sono andato a cena a casa sua per il compleanno di Suna.
A dirla tutta non sono andato a Natale, non a Capodanno, non al compleanno di Suna ieri sera.
Rispondo poco.
Voglio bene ad Osamu, ma so che non capirebbe.
Mi martella con i suoi "dove sei" e "che fine hai fatto" fino a farmi sentire trasparente, aggiunge solo un carico involontario di senso di colpa sulle mie spalle, e preferisco scappare.
Kiyoomi mi ha costretto ad uscire, oggi, a vestirmi decentemente, farmi una doccia, e raggiungere a passi stanchi l'appartamento di mio fratello.
Non vedo Osamu da quella che sembra una mezza era geologica nonostante sia poco più di quattro mesi.
Mi tremano le gambe, per strada, non sono più abituato.
Le persone mi guardano, interagiscono e camminano, respirano, e questa città mi sporca la pelle, lo sento. L'aria ha un odore diverso, fuori casa, meno chiuso ma più ferroso, mi sembra di non averlo sentito per una vita e mezza.
Le gambe fanno quasi male, e cammino da meno di mezz'ora.
Impossibile credere che fossi un atleta una volta, no?
Sono dimagrito.
Mangio, perché mangiare mangio, ma non tanto quanto prima, non ho bisogno di energie da spendere stando seduto su un divano a parlare.
I muscoli sono diminuiti.
Normale, non mi alleno.
Ed eppure mi sembra che ci siano vere e proprie tarme, sulla mia pelle, che mangiano e divorano la mia massa muscolare ogni secondo ed ogni istante, trasformandomi in un mucchio di carne stanca e nulla di più.
Mi sembra che inizi tutto a scomparirmi fra le mani.
Come quando prendi la sabbia bagnata in mano al mare e il fango ti scivola fra le dita perdendosi verso il basso, o come quando cerchi di afferrare il polline che volteggia in aria in primavera.
Alla fine stringi il pugno e non rimane niente.
Scrollo via questa sensazione cambiando strada.
Ci sono persone che si avvicinano dall'incrocio, e non mi piacciono.
Misofobia per procura?
No, no. Solo abitudine. Tentassi di riabituarmi, alle persone, non ci metterei molto, ne sono perfettamente conscio.
Ma chi cazzo vorrebbe abituarsi?
A vivere chiuso in casa col mio ragazzo, voglio abituarmi.
Non a questo.
Non c'è niente di bello fuori da quella porta, e lo so perfettamente.
Suna e Osamu vivono insieme da qualche anno. Sono una coppia particolare, adorabile ma difficile da inquadrare. Una di quelle che si percepisce possiede influenza come duo, una coppia di persone che ascolti e rispetti, che incutono un certo timore reverenziale.
Eppure non è che facciano nulla, per avere questo modo di fare.
Sono semplicemente così, ci si può far poco.
Si mescolano bene, insieme, credo.
In realtà per quanto io e Osamu abbiamo passato tanti anni a confidarci anche il più minuscolo e oscuro dei segreti, paradossalmente, non ne parliamo, di questo.
Lui non sa del mio Kiyoomi, io non so del suo Rintarō.
Diciamo che ce li teniamo come luogo personale e incondivisibile.
Suna e Osamu sono quella coppia di amici sempre insieme che adori ma invidi. Sono felici, sono uniti e si amano alla follia, e vorrei tanto non dire quello che sto per dire, ma non riesco a vederli.
Diventano solo un brillante cartellone della vita che non ho.
Quando vedo Osamu chinarsi per baciare la fronte di Rin, quando vedo le sue dita corrergli sulla schiena e massaggiare i capelli corti sulla nuca, quando vedo l'affetto e il contatto che si scambiano come fosse abitudine, li odio.
Anche io, mi dico.
Anche io lo voglio.
Datemelo.
Perché loro sì e io no?
Sono peggiore, sono uno stronzo? Non me lo merito?
Lo voglio, cazzo.
Voglio anch'io dormire abbracciato al mio ragazzo, voglio anch'io non dover avere un infarto ogni volta che lo sfioro per sbaglio, voglio condividere i vestiti, mangiare dalle sue mani e sedermi sulle sue ginocchia.
Perché io no?
Adoro Osamu, voglio bene a Suna, ma li detesto comunque.
Non mi piace andare a casa loro.
Mi ricordano tutto quello che non ho.
Sono un pezzo di merda, vero? Sono un egoista che invece di gioire della felicità del fratello ribolle di invidia nera da dietro le quinte, ne sono perfettamente conscio.
Ma...
Ma Osamu si sposerà con la cerimonia che sogno, con gli invitati che discuto, con i colori che mi piacciono.
La mia faccia, perché la nostra è la stessa, piangerà di gioia di fronte ad un altare mettendo gli anelli a qualcuno che ama.
Mentre io sarò a casa, a ingoiare per l'ennesima volta la giornata del cazzo che sono costretto a vivere, chiedendomi se oggi magari il mio ragazzo mi schifa un po' di meno.
Come potrei non detestarlo?
Lui ha tutto.
Lui ha tutto, cazzo.
E io non ho niente.
E tutto non fa altro che ricordarmi che non dovrei, non dovrei detestarlo, non dovrei sentirmi così, che diritto ne ho, ed eppure...
Brucio.
L'ho già detto, credo.
Che quando sei come me, non ce l'hai, l'amore per il prossimo.
Hai solo la rabbia.
Stringo i pugni per cercare di lasciar defluire qualcosa fuori dal mio corpo.
Non durerà tanto.
L'idea che dovrò ricominciare daccapo una volta tornato a casa ad abituare Sakusa all'idea del mio corpo mi fa incazzare ancora di più, ma cerco di non pensarci troppo intensamente.
Sei fuori, sei da tuo fratello, tuo fratello gemello che ti vuole bene quanto gli vuoi bene tu, che senso ha pensarci ossessivamente?
Ma non ce l'ha, un senso, infatti.
È solo che non lo so, io, come spingerlo via.
Il senso di colpa è la mia fatica di Sisifo. Trovo mille motivi per spingerlo via, per lasciarlo in equilibrio sulla punta di un colle di certezze, ma alla fine qualcosa mi tradisce sempre ed eccolo, il mio masso, che rotola e si carica ancora, in basso fra le mie emozioni.
Il senso di colpa è una crocefissione.
Un chiodo in ogni mano, uno sul collo, due sui piedi.
È di quelle cose che ti stirano, ti tendono gli arti e te li fanno sentire stanchi e morti, ma che non riesci a cacciare.
Sarebbe bello essere come mi dipingono gli altri.
Mi piacerebbe essere strafottente e altezzoso, uno che non si fa toccare da nulla, che è sempre convinto e testardo.
La realtà è ben diversa.
Mi tocca tutto.
Sento tutto.
E lo sento troppo.
Prendo sulle spalle le responsabilità di pensieri così neri da farmi persino paura, catturo con lucidità l'idea che certe cose non dovrebbero esserci, dove ci sono.
Certi giorni guardo Sakusa e lo detesto. Lo amo, ma lo detesto.
Come detesto 'Samu.
Come detesto me stesso per detestare loro.
Come alla fine detesto un po' questo cazzo di mondo.
Nessuno, me l'ha mai detto, che l'amore può essere anche detestarsi, a volte. Nessuno me l'ha mai fatto vedere, e per quanto pensi sia così, senza sapere la verità, io, come faccio?
Chi me lo dice che non sono l'unico maledetto e odioso stronzo che detesta chi lo ama?
Invidio mio fratello, per la miseria, è ovvio che ci sia qualcosa che non va, in me.
Manca poco.
So dove vive, non è tanto distante, ormai.
Agghindarmi per uscire mi è sembrata la cosa più ipocrita della storia. Che poi, "agghindarmi", intendo vestirmi non in pigiama e darmi un contegno.
Perché non dovrei farglielo vedere, come sto?
Perché devo nascondermi?
Perché non sbatterglielo in faccia che mentre lui è là a godersi la sua fottutissima vita perfetta io non sono altro che un fragile ricordo di quello che ero?
Perché non bagnare anche lui del sangue che scorre via da me?
Un'altra ondata di senso di colpa.
Mi capite, vero? Come potrei non sentirmi in colpa? Queste cose le penso, perché le penso, e le penso così spesso che mi annerisco dentro, mi mangio da solo e dall'interno.
Sono troppo complicato, cazzo.
Vivono in un appartamento in una zona residenziale non troppo distante dalla nostra. Ridevano, quando l'hanno trovato, che era sopra una pasticceria che a 'Samu piaceva tanto.
Bastardi, e io che ho scelto il mio perché potessi lavarmi le mani appena entrato.
Sensi di colpa.
Suna gioca ancora.
'Samu studia.
'Samu passa gli esami. L'anno prossimo si laurea alla magistrale.
Io non ho finito la triennale.
'Samu è rappresentante degli studenti, l'hanno eletto nonostante non si fosse candidato perché ha carisma ed è bello, bravo, un punto di riferimento.
A me dicono che sono un folle che sta da solo.
Capite?
Cazzo, capite?
Ci provo, ci proviamo insieme io e il mio senso di colpa, a mandar giù questa sensazione da ragazzino invidioso del fratello bravo a scuola, ma non sono cresciuto, sono ancora un'infantile testa di cazzo che invece di lavorare su se stessa preferisce avvelenare gli altri.
Quanto cazzo vi odio, e quanto cazzo odio me stesso per l'odio che rivolgo a voi.
Vedo il complesso di appartamenti al fondo della strada.
Tiro fuori il cellulare.
Corro al nome di mio fratello con le dita.
Digito un "sono qui" svelto, i passi che si susseguono fino al portone che supero, alla portinaia che saluto.
Risponde che apre la porta.
E in un secondo eccomi, con lo sguardo basso sullo zerbino di una casa che dovrebbe essermi familiare ma non lo è, a fissare una porta chiusa.
In attesa.
Secondi che sgocciolano, li sento, i passi.
Mi dico di odiarlo ora.
Odiarlo ora così tanto che poi non avrò nessun altro rancore una volta entrato, scaricare tutto adesso, odiarlo con ogni fibra del mio corpo, forte, così forte che...
− Che c'è, 'Tsumu? –
La porta si apre dopo che ha finito di parlare.
Osamu è la mia bella copia, ormai.
Stessa faccia e stessa statura, ma meno emaciato e più salutare, felice, figlio di una vita che lo adora.
− Sai che so quando stai male, che c'è? Sento che c'è qualcosa che non va. – borbotta.
Vorrei scoppiargli a ridere in faccia.
Lo senti?
E dimmi, 'Samu, dimmi, cosa sentivi, un mese fa, quando mi osservavo morire pur sapendo che non sarei morto? Cosa sentivi quando vedevo il mio ragazzo vomitare perché mi stava toccando? Cosa senti quando ti odio, cosa senti quando odio me stesso, cosa quando odio la vita?
"Lo senti", dici.
Tu non senti un cazzo, 'Samu.
Perché sono io, a sentire ogni cosa. Ogni battito d'ali di ogni farfalla nel mondo, il tornado lo accende su di me, non su di te.
Ridicolo fortunato figlio di puttana.
Senso di colpa, masso del mio peccato che rotola in basso, ai miei piedi.
− Raffreddore. – rispondo.
Lo guardo negli occhi.
Ma mi fa paura.
Più stai lontano dagli altri, più diventi solo, dicono. Gli altri diventano pericolo, diventano variabile sconosciuta e incognita, diventano estranei.
Persino il fratello con cui hai condiviso la maggior parte della tua vita può diventare un estraneo, se il mondo decide che tu sei un povero stronzo rinchiuso nei fottuti stracci di te stesso.
Non vorrei guardarlo negli occhi.
Non guardare, 'Samu, non guardare.
Se mi guardi capirai, sono convinto.
Mi dicevi da piccolo che se mi fissavi intensamente gli occhi potevi sentire quel che c'era nella mia testa, potevi entrare nel mio cervello.
Ma qui, qui non ci entrare.
Salvati.
Salvati, 'Samu, almeno tu.
Fuggi.
− Se lo dici tu. – risponde.
Un'ultima occhiata, poi indietreggia.
− Entra, fai come fossi a casa tua. – borbotta, più d'abitudine che altro.
Come fossi a casa mia?
Perfetto.
Vado a lavarmi le mani fino ad aprire le nocche screpolate sul lavandino, allora, che se no non posso toccare niente. Vado a cambiarmi, vado a sperare da solo di fronte allo specchio che la persona che amo mi tolleri.
'Fanculo.
Sorte del cazzo.
Entro un passo alla volta, espirando, mi guardo attorno.
Viva, questa casa, sembra viva e popolata da persone che vivono. Niente ordine perfetto, niente pulizia maniacale. Qualche coperta arruffata sul divano, bicchieri vuoti sul tavolo della cucina, odore di cibo.
Come se fossi a casa mia, eh?
'Fanculo.
− Casa tua è un bordello. – commento, ridacchiando piano.
− È la tua che è una vetrina. –
Alzo le spalle.
− Colpa di Omi. –
− Scontato. Tu non metteresti a posto manco morto, 'Tsumu. –
Lo seguo verso la cucina fissando le piastrelle.
Metto a posto, 'Samu.
Metto a posto sperando che Sakusa stia meglio, stronzo.
− Suna? –
− In cucina che fa la cioccolata, avevamo voglia di dolce. E comunque non ci vediamo da mesi e cerchi subito lui? Infame. –
Rido piano.
− Sai che lo preferisco a te. Come ogni altro essere umano sulla faccia del pianeta. –
− Coglione. –
− Cretino. –
Allunga una mano per pizzicarmi la spalla.
Scappo evitandolo all'ultimo.
Una risata genuina scorre via dalla mia gola.
− Atsumu? –
La voce di Suna è così calma, miseria. Così tranquilla, mi fa l'effetto di un sedativo.
− Rin! – grido, dall'altro lato della stanza.
Entro correndo.
Anche a Rin voglio bene, e lo invidio un pelo meno di 'Samu. Certo, odio vedere foto del suo corpo teso a giocare, ma almeno non è una versione migliore di me.
− Scusa per ieri, mi spiace, è che... −
− Non importa. Basta che tu ti sia fatto vedere, Miya. – risponde, facendo capolino dal fornello e sorridendo appena.
Ha la maglietta dell'Università di Osamu.
Cazzo, miseria, porca di una puttana, scendi giù, rabbia, scendi giù.
Non coagularti sulla mia gola, stronza.
− Che cucini? – dico per distrarmi.
Osamu mi mette una mano sulla spalla da dietro.
− La cioccolata, te l'ho già detto. Sei scemo o cosa? –
Sento il veleno di una risposta al vetriolo formarsi sulla punta della mia lingua.
− Forse. – dico, invece, ripiegando.
Suna si rigira, il mestolo in mano su un pentolino caldo che spande nell'aria un odore dolcissimo.
− Ne vuoi? –
− Non ho fame. – rispondo di riflesso.
Non riesco, a mangiar fuori. Sakusa non lo saprebbe, ma lo sapesse, lo odierebbe. Che anche il mio interno fosse contaminato dal cibo esterno alla nostra bolla, intendo.
Non posso tradirci così.
Osamu si lascia cadere sulla sedia della cucina sbuffando.
− Mica devi fare complimenti, idiota. –
− Non li farei, non a te, coglione. – ribatto.
Sto sorridendo, so di starlo facendo.
Ma tira, la mia faccia.
Tira un po' troppo.
− Bah, come vuoi. – capitola, alla fine.
Mi concedo di sedermi al suo fianco, sento una delle sue mani che si appoggia sul mio ginocchio e stringe, fatico a mantenere una faccia tranquilla.
Fa male, stronzo.
Ci sono delle ferite, là sotto.
− Allora, 'Tsumu, ci racconti che cazzo sta succedendo? Tu e Kiyoomi siete praticamente introvabili, la mamma mi ha fatto una testa così a Natale e nessuno sa che cazzo state facendo. Ci state nascondendo qualcosa? Siete diventati spie della CIA? FBI? –
Inspiro ed espiro.
Con calma, Atsumu.
Misurati un po'.
− Siamo andati dai genitori di Sakusa, a Natale, ve l'avevo detto. – inizio.
'Samu alza un sopracciglio.
− Ok, e fin lì c'ero. Ma a Capodanno? –
− Sempre da loro. –
Non se la beve, sa che c'è qualcosa sotto, ma fa finta di nulla.
Che cazzo vuoi che ti dica, 'Samu?
Che cosa?
Vuoi che ti dica che a Natale non c'erano regali perché nessuno di noi era uscito a comprarli?
Vuoi che ti dica che a Capodanno abbiamo provato a fare sesso e Omi mi ha guardato con gli occhi pieni di lacrime sussurrandomi che "no, 'Tsumu, non ci... non ci riesco, io, mi spiace ma..."?
Cosa vuoi sentirti dire?
La realtà non la puoi ascoltare.
È troppo dura per farla gravare anche sulle tue spalle.
− E ieri sera? –
− Sakusa con la febbre, non voleva che andassi via. Non credo che Rin se la sia presa così tanto e mi spiace, ho dimenticato il regalo a casa. –
Quale regalo?
Nessun regalo.
Non è questo il punto.
Suna si gira alzando le spalle.
− No problem. – afferma.
Guardo 'Samu come a dirgli un "te l'avevo detto".
− Amore? – dice, invece, e so quando la parola è finita che non stava certo dicendo a me.
Suna lo guarda, sorride come sorride chi è innamorato per davvero.
'Samu si allunga dal tavolo, allo stesso modo fa Suna, gli toglie qualcosa dal viso.
− Hai mangiato la cioccolata dal mestolo? – chiede, ridacchiando.
− Mh-mh. Tanto mica ti fa schifo, no? –
Ditemi adesso se questa non vi sembra la più enorme e stronza e fottutissima coincidenza della vostra cazzo di vita. No, davvero, ditemelo.
Ditemi se è giusto al mondo che io veda questo.
Che io viva questo, cazzo.
Eccomi, emaciato e magro, minuscolo e quasi scomparso, trasparente e pallida immagine di una persona che non c'è, a guardare con gli occhi sgranati due persone che si amano senza fili spinati a separarli.
"Tanto mica ti fa schifo, no?"
Vorrei urlare.
Urlare e ridere come un isterico.
Puntarmi una mano al petto.
Io, io, a me. Io al mio ragazzo faccio schifo, eccomi. Così schifo che vomita, quando sta con me, così schifo che non riusciamo nemmeno a fare sesso, così schifo che anche guardarmi certe volte lo fa star male.
Presente all'appello.
Già voglio andarmene.
Educato, per niente.
Ma voglio scappare.
Quanto mi odierebbero, se sapessero davvero quel che penso?
Mi ripudierebbero e butterebbero via come la vita, ne sono certo. Ma già ci penso da solo, a detestarmi.
− Sei sicuro di non volerne? – ripropone Suna, finita la loro merdosa scenetta, mentre arruffa le mani fra le tazze sullo scaffale in alto.
Mando giù la saliva.
− Sicuro. –
Respiro in modo meccanico un paio di secondi.
Essere un vulcano come me rende piuttosto difficile, alle volte, contenersi.
− Voi invece come ve la passate? – tento, già sapendo che no, questa domanda non la dovevo fare se speravo di smettere di sentirmi squartato fra l'invidia e il senso di colpa.
'Samu ridacchia.
− È un periodaccio, sai, gli esami e Rin con i campionati. Ci sembra di non stare mai assieme. –
Non trattengo una risata che estinguo subito.
Non se ne sarà accorto, no?
− Miseria, mi spiace. –
'Samu alza una spalla.
− Non vedo l'ora di finire questa cazzo di sessione. Tu come sei messo? Cosa devi dare? –
Mi mordo la lingua.
− Microeconomia. –
Sospira con me, si massaggia il centro delle sopracciglia e indietreggia sullo schienale della sedia.
− Nemmeno troppo difficile, dai. Solo questo? –
− Ah-ah. –
Ne parla un po'.
Tante parole che non comprendo e forse nemmeno ascolto, un fiume di un estraneo.
Quando?
Quando sono diventato così?
Solo e acido, aspro e amaro, una bambola di vetri spezzati che non sopporta più nemmeno il proprio gemello.
Sono io, l'insopportabile, inizio a credere.
− Dopo la laurea? – chiedo ancora, per farmi del male, che se no che autolesionista sarei?
'Samu sorride come sorridesse di un'idea che vive nella sua testa e basta, intravedo un solco sulle guance di Suna che versa il liquido scuro e cremoso nelle tazze.
− Io e Rin abbiamo una cosa bella che potrebbe succedere. –
Risponde prima la mia curiosità, maledetta stronza, di me.
− Il matrimonio? –
Scuotono la testa.
Meglio del matrimonio?
Il matrimonio è il mio grande sogno, destino di fumo di tante parole inutili, cosa ci sarebbe di meglio?
Non sarà che...
− Siamo in lista per l'adozione. Siamo idonei, 'Tsumu. Forse ce la faremo. –
Un macigno.
Vorrei fuggire ora.
Alzarmi e scappare.
Correre lontano e lontano, solo io e i miei muscoli mangiati dall'inattività, lontano da tutto e da tutti, scomparire all'orizzonte e non tornare mai più.
Che vita... perfetta.
Da... da sogno.
Quanto sarebbe bello?
Tornare da tuo marito che ti bacia la fronte, mettere a letto un figlio, dormire abbracciati alla propria famiglia.
Avere qualcuno da chiamare casa e qualcuno che ti ami per il solo fatto di esistere.
Donarsi e donare.
Che sogno, sarebbe.
Rientrare a casa dopo una partita sfiancante da tuo marito e i tuoi figli, vederli con la tua maglietta alle partite a tifare per te a bordo campo, urlare il tuo nome.
Passare le serate con la guancia sul petto di qualcuno che ti adora a parlare della scuola o delle maestre, a progettare un futuro.
Pensavo mi andasse bene.
Questa vita, intendo.
Pensavo mi andasse bene.
C'era Sakusa, e c'è ancora, non ti basta?
Mi ero dimenticato di cosa fosse la vita che avevo abbandonato.
Credevo che fosse la mia, la normalità.
E invece, invece non lo è.
La mia è malattia.
La mia è tristezza.
La mia è...
Solitudine.
Un ragazzo solo.
Vorrei scappare via.
Via da tutto, via per sempre.
Spalanco gli occhi verso Osamu, sorrido con tutte le mie forze mentre mi rompo, mi crepo, mi sgretolo dentro come pietra lavica calpestata dal vento.
− Diventerò zio? –
Scommetto che lo sentono.
Io lo sento.
Il mio cuore che cade e si apre in frantumi sul pavimento.
'Samu sorride, allunga una mano verso Rin che la prende fra le sue.
− Diventerai zio. –
Stronzi.
Com'è possibile?
Perché hai tutto tu, eh, perché?
Che cazzo hai fatto alla vita, per meritarti tutto? Non ti dico qualcosa, qualcosa te lo concederei volentieri, ma questo, questo è...
Io mendico briciole di felicità da un mondo che mi odia, 'Samu.
Perché solo io?
Perché sono cosi solo?
Perché combatto da solo?
Che cazzo ho fatto, io?
Ero un ragazzino altezzoso, è vero, certo non ero il più affabile degli esseri umani, ma facevo così schifo? Meritavo tutto questo? Merito ancora ora, tutto questo?
Quale cazzo è la mia colpa?
Perché vivo su questa corda sottile, impiccato con un filo d'aria, mentre tu sei felice?
Che cazzo hai fatto, tu alla vita?
E che cazzo ho fatto io?
Sorrido, mentre mi imperversa la rabbia nel cuore.
Sorrido per finta come la creatura vuota e rovinata che sono, mentre mi sento sprofondare sempre più lentamente, un pezzo alla volta, marcire e morire, dentro.
Un pezzo.
Non tutta, la vostra felicità.
Solo...
Solo un pezzo.
Un pezzettino.
Un pezzettino che non scompaia l'attimo dopo, uno che non mi svanisca fra le mani come tutto quello che cerco di stringere fra le dita, uno che sia solo mio, solo per me.
Qualcosa.
Io, invece, io...
Io non ho niente.
Non ho un cazzo di niente.
Ho delle ferite sulla pelle e un amore che mi detesta, ho un senso di colpa che mi mangia e una carriera universitaria penosa, un futuro a puttane e solo una montagna di problemi.
Vaffanculo, cazzo, vaffanculo.
− Vorremmo una bambina. – aggiunge Rin, qualche altro secondo dopo.
− Ma anche un bambino andrebbe benissimo, guarda. Non è che lo stiamo comprando, il figlio, dopotutto. – completa Osamu, ridacchiando.
Ridacchio anch'io.
Suna allunga la tazza sul tavolo verso 'Samu.
− Tu e Kiyoomi avete progetti per il futuro? – chiede poi.
− Sopravvivere. – rispondo.
Ridono alla battuta.
Non era una battuta.
Inizio ad annegarmi nei sogni, pensandoci.
− Sposarci. Io e Omi vorremmo sposarci al mare. –
Non sto mentendo.
So che non succederà, ma è vero, che lo vogliamo.
'Samu sorride.
− Ti è sempre piaciuto, il mare. Anche quando eravamo piccoli, a me faceva schifo, ma tu eri sempre felice quando eravamo al mare. –
Annuisco.
− Omi dice che non posso andare alla cerimonia a piedi nudi, ma secondo me non sarebbe un'idea così di merda. – continuo, sognando letteralmente ad occhi aperti, sapendo che niente è vero, di quel che dico.
Ma sognare cosa ti costa, Atsumu?
Ti costa la realtà, ti costa l'amore per la vita vera.
E chi cazzo le vuole, quelle due stronze.
Suna sorride, anche 'Samu.
− Vorrei invitare tutta la vecchia squadra, sai. Kita, Aran, tutti quanti. – mormoro.
− Sarebbero felici di vederti sposato, rubacuori. – commenta mio fratello.
Sarebbero felici, dici?
E come sarebbero, a sapere come stanno per davvero le cose?
− Ma sono solo congetture, in fondo. – dico, più a me stesso che a loro.
Solo congetture.
Solo immagini di un povero pazzo.
Mi sembra di navigare in un mare che non conosco.
Di avvicinarmi a cascate a picco su un baratro che non so come sarà.
Tutto il mio odio mi sembra annegarmi e mandarmi in tempesta.
'Samu non mi detesta per come gli ho detto sarà una vita che non possiederò. Non m'invidia come lo faccio io, anzi. Mi apprezza, mi incita.
Forse è per questo che la sorte lo ama.
Perché è una persona adulta.
Voglio Sakusa.
Lo voglio ora.
Anche guardarlo, mi basterebbe. Mi rimetterebbe in piedi e mi farebbe sentire meglio, ugualmente distrutto, ma meglio.
Ricorderei com'è il suo sforzo per venirmi incontro, come mi baci i polsi nonostante gli comporti fatica anche quel minimo gesto, e non mi odierei così tanto.
Passa poco tempo, ma Sakusa è una droga che mi anestetizza.
So che tutto va male, ma so che quando sono con lui torna tutto sul binario corretto.
− Mi manca Omi. – borbotto.
Non dovrei dirlo.
Non dopo mesi che non vedo mio fratello.
Ma lo dico lo stesso.
'Samu sorride.
− Romanticone. Potevi portarlo, sai? Mica lo detestiamo. –
Certo che no.
Sono io, il problematico relegato all'arida sensazione dell'odio.
− Ha la febbre, sai. –
− Ah, giusto. –
Ma che febbre e febbre.
La vita, è la sua febbre.
Febbrile ricordo di un mondo sporco che lo spaventa.
− Perché ho la sensazione che tu non voglia stare qui? Ti dà fastidio la mia casa, stronzo? – chiede dopo qualche istante 'Samu.
Non saprà tutto, non lo sa, infatti, ma penso che non sia così idiota da rendersi conto che c'è indubbiamente qualcosa che non va, in me.
"Perché ti odio per tutto quello che non ho" è la risposta che vorrebbe sentire? No di sicuro, ma è la verità.
− Sono solo preoccupato che Omi stia male da solo a casa. – è la bugia che invento.
Bugiardo, stronzo.
Suna sorride.
− Siete due cozze, voi due. –
Già, assolutamente.
Due cozze.
Alzarmi e ridergli in faccia è un'opzione?
No, perché è quello che vorrei fare.
Ora come ora vorrei davvero alzarmi da questa sedia, togliermi furiosamente la felpa e mostrar loro un mondo che mi ha distrutto la pelle, ridere come un isterico di fronte alle loro facce scioccate.
Vorrei solo dar loro un po' del mio dolore, credo.
Vorrei non essere l'unico a tirare avanti con questo peso.
Vorrei solo una mano.
− Siamo solo molto innamorati. – mugugno di risposta.
Vero.
Almeno questo, vero.
So che è non è corretto per me, che mi fa solo male, ma è vero. So che odio la vita e detesto la sua malattia, ma so anche che l'unico momento in cui non mi viene voglia di fuggire è quando mi guarda negli occhi.
Non ho paura di mostrare il mio dolore a Omi.
Omi lo conosce, lo comprende.
Omi è l'unico a dirmi che possiamo dividercelo, questo bottino sofferente che ci ha dato la vita. Quando lui non c'è sto male, malissimo.
Quando lui c'è sto solo un po' meno peggio.
− Non pensavo avresti mai trovato qualcuno, impressionante. – scherza mio fratello, appoggiandosi coi gomiti sul tavolo.
− Vale la stessa cosa per me. A Suna dovrebbero dare un Nobel per la Pace per non averti ancora fatto fuori. – ribatto.
Ridono.
− Vero. – conviene Rin.
Allungo una mano per indicarlo, una battuta che sta per liberarsi dalle mie labbra, ma...
Immagino che si veda.
Quando ero più giovane nascondevo meglio.
Mi sono rilassato ed ecco quel che succede.
− Hai qualcosa sul polso, 'Tsumu, aspetta che... −
Perché, Osamu?
Perché devi sollevare il velo di Maya?
Perché?
Perché devi essere incuriosito da quel che vedi, perché dare per scontato di poter sapere le cose che non ti dico, perché essere genuinamente convinto che tanto per quanto i problemi ci siano alla fine si risolverà tutto?
Perché?
Perché allunghi una mano a prendermi il braccio fra le dita cercando di togliermi qualcosa dal polso?
Perché mi guardi così?
Perché i tuoi occhi si spalancano sgranati mentre ti rendi conto che non c'era nulla sulla mia pelle, che fosse la mia pelle la cosa che avevi visto?
Perché sollevi la manica come in trance, la voglia di vedere, vedere ancora, vedere tutto, che mangia il tuo buonsenso?
Perché ammutolisci?
No, non lo dicevo davvero, prima.
Non volevo davvero togliermi la felpa in mezzo alla stanza.
Non se quello che ottengo è questa tristezza che aleggia nell'aria. Avvelenare gli altri è una tentazione, ma il momento in cui si realizza, poi, mi rendo conto di quanto non sia io a stare meglio, ma loro a stare peggio.
− 'Tsumu ma... −
Alcuni freschi, altri vecchi.
Alcune cicatrici schiarite dal tempo, altri graffi nuovi.
In mezzo ad una stanza, profumo di cioccolata e risate che ancora risuonano nell'aria, luce diretta.
Immobile.
Rimango immobile.
Suna e 'Samu guardano con gli occhi sbarrati.
Tiro indietro il braccio, tiro su la manica, rinchiudo il mio braccio sul petto.
− Niente. – tento.
− Niente un cazzo, quello... −
− Stai zitto, 'Samu. – trancio.
Già, stai zitto.
Non le voglio sentire, queste cose, non da te. So che lo sapevi prima, so anche che pensavi non fosse più un problema, so che a dirle al mio ragazzo di notte non ho così paura come a sentirle da te col beneficio del giorno.
− Ma... −
− Stai zitto. –
Non mettermi alla gogna.
Non ghigliottinarmi di fronte ad un pubblico che cerca sangue.
Abbracciami, magari, in silenzio. Non far domande, dimmi solo che ci sei e mi vuoi bene, supportami senza dire nulla.
Ti prego.
Ti... ti prego.
− Tu... −
Io cosa, eh?
Io cosa?
Io sono ridotto così?
Io ho passato minuti interi a mentirti sul fatto che andasse tutto bene?
Te ne rendi conto solo ora?
Non eri tu, che mi "sentivi"?
− Tu devi... un dottore, dobbiamo... −
Cosa "dobbiamo"?
Un dottore che può fare, 'Samu? Può darmi delle pasticche per sentirmi sonnolento più che triste, può annichilirmi al punto che come non sentirò più il dolore non sentirò nemmeno quelle briciole di euforia che racimolo dall'esistenza.
Osamu si alza dalla sedia.
In faccia a me, non capendo niente, si avvicina a Suna che lo guarda nello stesso modo. Si avvicina a qualcosa di sicuro per trovare forza.
E quando li vedo là, stagliarsi dal lato opposto del tavolo, mi sento solo un estraneo.
Mi sento piccolo e solo.
Mi sento sotto esame, su un tavolo operatorio aperto in due, a farmi guardare ogni angolo del corpo, rimestato dall'interno da chi non ha delicatezza.
− Vuoi... −
Mi alzo.
− Me ne vado. –
Indietreggio.
'Samu si avvicina.
− No, non... parliamone, insomma, ci sarà qualcosa che... −
Passi indietro, ancora.
− Non c'è niente. –
Sbatto la schiena contro la porta, cerco la maniglia a tentoni, la apro.
− Tu sei... Atsumu, sei pieno di... −
Ingoio la saliva, prendo aria.
Guardo Osamu negli occhi come non avevo fatto prima, tanto che so che vede dentro di me, capisce. Capisce e ha una paura fottuta, paura per me, paura di me, paura e basta.
− Sono pieno di tagli. – dico ad alta voce.
Esco dalla porta aperta, la sbatto chiusa prima che mio fratello la raggiunga.
Solitudine.
Mi sembra che l'aria rimbombi assieme al sangue sulle mie vene, ora.
Appoggio al fronte contro il legno rigido.
Stavo già piangendo prima?
Singhiozzo senza ritegno.
Sento lo stesso rumore oltre la porta.
Come se ci fosse calore che passa attraverso la porta, come il contatto umano che trascende la barriera e mi scalda.
Non lo vedo, ma lo so.
Osamu ha la fronte contro la porta come la mia.
Le sue lacrime e le mie sono le stesse.
Apro una mano sulla superficie fredda, sento che lo sta facendo anche lui.
Ma poi arriva qualcuno da lui.
Poi, lo so come lo vedessi, lo so e basta, ho la sensazione che un paio di braccia si leghino alle sue spalle da dietro, un viso si appoggi sull'incavo del suo collo.
− Ssh, 'Samu, va tutto bene. Troveremo un modo, starà bene. Starà bene, te lo prometto. –
So anche quando scompare.
So anche quando 'Samu se ne va.
Sento la connessione di calore immaginario sulla mano spezzarsi mentre so, so come so che questo mondo è uno schifo, che mio fratello se ne va.
Si rifugia fra le mani del suo ragazzo, si fa consolare.
Ed eccomi qua una volta ancora.
Ad elemosinare ancora un po'.
Non volevo che stessi male, 'Samu, ma volevo che mi volessi bene nonostante tutto. Volevo che rimanessi qui e mantenessi questo calore che ci scambiamo.
Invece tu sei da chi ti ama.
E io, una volta ancora, sono...
Sono...
Tiro via le lacrime.
Io, a questo mondo, alla fine, ora, sono...
Io sono solo.
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➭ ✧❁ il titolo del capitolo si riferisce a questa farfalla, detta "farfalla della regina alessandra" o col nome scientifico "ornithoptera alexandrae", della famiglia delle ornithopterae, che vive nella papua nuova guinea
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