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Prologo: mani diafane




PROLOGO

Mani diafane

E gli uomini vollero piuttosto
le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19


Tuam, Contea di Galway, 1870

PROLOGO

Mani diafane

E gli uomini vollero piuttosto
le tenebre che la luce.

GIOVANNI, III, 19

Tuam, Contea di Galway, 1870

C'erano lingue in grado di fare magie.

Lingue di inchiostro, di polvere magica e di fuoco; lo stesso attorno cui amavano prendere vita.

Lingue capaci di far risorgere, nel loro arricciarsi in parole incantatrici, racconti che si sedimentavano e si dimenavano burrascosi in fondo alla memoria, rimanendovi depositati fino alla fine dei tempi terreni.

E anche dopo.

I saggi erano esperti nel tessere trame di inchiostro e di sussurri. Le lettere sono come bambini: crescono in parole, si trasformano in frasi, invecchiano nelle leggende. In quei racconti che si rivolgono alle piccole orecchie dei bambini, ma che puntano i loro occhi dalle iridi di inchiostro e dalle ciglia di carta in quelli sfuggenti degli adulti, abili nell'arte dell'ignoranza di quella che è la morale. Il severo insegnamento che si nasconde nelle falangi dei mostri, in scarpette di cristallo, in mele avvelenate, tra gli artigli di vecchie streghe e nella pelle di pulci grandi come cornamuse.

Eccolo il potere della parola: imprimere un marchio indelebile nelle menti.

Lei lo sentiva, forgiato nel suo cuore un bisbiglio alla volta.

Ogni notte, sua nonna le raccontava storie rubate al mondo intero.

Le accarezzava i capelli, parlava e la fissava negli occhi come si fa con le cose che si amano troppo: con la paura di lasciarle andare troppo presto. In particolare, amava sussurrarle il racconto del solstizio d'inverno, Yule, che segnava il passaggio dall'oscurità alla rinascita della luce. Parlava di una notte più lunga di tutte le altre in cui le tenebre divoravano ogni angolo del mondo, soccombendo, però, alla luce grazie alla morte del Re Oscuro, il Vecchio Sole, trasformato nel Sole Bambino, concepito nel grembo della Dea Terra e rinato da quest'ultima nel Sole Dio. Il racconto faceva così:

C'è una notte durante l'anno

in cui tenebra e luce entrano in contrasto.

Si dà per vincitore il buio, quel gran tiranno,

ignaro che del sole l'abbagliante potere è rimasto.

Del re oscuro si piange poco dopo la morte,

ma ogni lacrima è asciugata dall'incanto

quando una nascita proclamata è alla corte.

Il sole bambino canta il suo primo pianto

e, proclamato dio, al fulgore apre le sue porte.

Ricorda, bambina, c'è una morale:

ingannarlo è la via per non cedere al perdente male.

Alla piccola piaceva ascoltarlo. Le dava speranza. Le faceva credere che anche nella loro vita sarebbe arrivato il fulgore.

Non lo aveva ancora fatto, ma intanto in lei viveva ogni racconto. Avrebbe potuto infilare le dita nella testa e tirar fuori ogni storia sotto forma di catene di lettere, pericolose e tentatrici. Sarebbero, però, state affiancate anche da immagini meno felici. Avrebbero ritratto delle candele spente e una bambina troppo piccola, d'improvviso sola, e delle mani che la sollevavano di colpo per portarla in un luogo apparentemente più sicuro.

La settima notte consecutiva che riuscì a uscire di nascosto fu proprio la notte più buia dell'anno. Un brivido l'attraversò quando capì che la fortuna sarebbe venuta a chiederle qualcosa in cambio per averle teso la sua mano diafana per così tante volte.

Le regole esistevano per essere rispettate, eppure la sua indole docile nulla poteva contro il desiderio di rivedere le stelle. La morale che le aveva insegnato il suo racconto preferito luccicava nella sua mente nella costellazione di ricordi che le attraversavano la mente. Ingannare il male. Era quello che faceva. Fingere, inventare, illudere. Illudersi.

Aveva studiato tutto nei minimi dettagli, travestendosi di un'impavidità che le era di rado propria. Un minuto prima dei giri di ronda notturna, infatti, aveva nascosto le piccole scarpe sotto una mattonella rotta, vicino al pozzo, così da non far rumore; la mattina aveva poi messo un libretto delle preghiere nella stanza di uno dei ragazzi, così da guadagnare tempo e rubare un maglione sufficientemente caldo da farle affrontare la notte. Aveva infine memorizzato ogni anfratto che le avrebbe permesso di nascondersi, proprio come facevano i topi, suoi prediletti.

Si appiattì contro le pareti. Solo il vento fischiava contro i rami spogli degli alberi, portando con sé dei granelli di neve che le si attaccarono ai riccioli corti, spettinati, di un rosso tanto acceso da averle fatto guadagnate il titolo di 'Pel di carota' da Peter, il più grande delinquente che avesse mai conosciuto. Trovava sempre il modo di farla franca e di mettere nel sacco chiunque gli capitasse a tiro. Non ne usciva indenne neanche il signor Temple. Lei, invece, non aveva lo stesso temperamento ardimentoso e scaltro; al contrario. Era odiata da quell'uomo dagli occhi 'risucchia – anime', come le si figuravano. Odiava soprattutto i suoi capelli. Diceva che erano della stessa tonalità del fuoco, e quindi degli inferi e quindi del male. Un male che andava estirpato il più possibile tagliando una ciocca alla volta. Tagliando e punendo. Lei lo accettava in silenzio. Non le importava di portare i capelli come i maschi o di indossare vecchi stracci avanzati dai bambini che l'avevano preceduta. Ognuno aveva la sua strada e quella era la sua. Forse un giorno avrebbe avuto il suo miracolo e la luce avrebbe trovato il modo di squarciare il buio che le aderiva alla pelle. Forse. Ci sperava. Lo sognava. Speranza. Sogni. Avevano tutti lo stesso comune denominatore: il dolore nell'accettare che non sarebbero diventati realtà.

Il suo viso, al pari del suo corpo, era pallido, cosparso di lentiggini – le lenticchie, come diceva sua nonna. – che facevano sembrare la sua pelle un campo innevato, cosparso di papaveri rossi che emergevano fieri dalla coltre di neve. Aveva un corpicino pelle e ossa, ossuto al punto tale da renderla invisibile almeno la metà delle volte che sentisse di volerlo essere.

Non appena ebbe la certezza che nessuno la stesse seguendo, prese a camminare a passo svelto. Lo scialle di lana, impolverato e logoro, le stava troppo grande sulle braccia, ma era il suo preferito. Glielo aveva cucito la nonna quando era ancora un seme nel ventre di sua madre. Con gli anni le si era bucato qua e là, ma non le importava. Lo avrebbe tenuto stretto attorno alle sue spalle fino al suo ultimo respiro, si era promessa.

Più camminava, più passavano i minuti, più il suo cuore bussava freneticamente contro il suo petto alla velocità delle ali di un uccellino appeno chiuso in gabbia, per la paura di essere inseguita e riportata in quel posto, prima che le avesse viste. Ogni tanto, strada per strada, degli sguardi indegni provavano a profanare la sua purezza. Sguardi di vecchi peccatori dagli stomaci riempiti di ossa, di liquidi incendiari, paure e ignoranza; di uomini che non si sarebbero fatti nessuno scrupolo a lasciare sul suo piccolo e fragile corpo qualche carezza di troppo, di donne che vendevano sé stesse come se fossero dei pezzi di carne e che la guardavano con malizia, muovendo le loro dita in un invito a imbracciare con mestizia celata il loro stesso lurido destino.

In quelle strade l'aria era marcia e sapeva di fame. Fame di pane. Fame di vino. Fame di carne. Si sentiva sporca nel percorrerle perché più le vedeva, più le sentiva e più le sembrava che in fondo lei e quelle creature, tutti artigli e fetore, non fossero tanto diverse.

Ma ce l'avrebbe fatta. Doveva indossare la sua armatura scintillante, come le aveva insegnato la nonna, e farcela. Glielo diceva sempre: «Per bere la luce, bisogna prima inghiottire il buio».

E lei era assetata di luce. Si sarebbe ubriacata di ogni sua goccia.

Prese a correre.

Corse fino a quando i polmoni le implorarono pietà. Li ringraziò riempiendoli dell'aria pungente della notte. L'avevano portata a destinazione. Lì, dove non c'era nessuno. Solo fango, ombre, insetti oscuri e artigli di legno, secchi e taglienti che tremavano come le dita malate dei vecchi. Troppe leggende spaventavano la gente. In quella parte della città si raccontava che l'aria fosse strana, che ci fossero occhi pericolosi a scrutare in ogni dove, che il cielo si facesse sottile come un velo, permettendo così alle anime dei morti di giocare quando erano troppo annoiate nel regno che li celava al mondo dei vivi. I loro cuori, per pochi attimi, riprendevano a battere e così ogni loro parte tornava a essere alimentata dal sangue e a permettere loro di diventare così forti da renderli capaci di bisticci e scherzi maligni. Si raccontava che gli spiritelli, e in particolare le streghe, amassero reincarnarsi in tutto ciò che fosse piccolo, veloce e oscuro.

Come le falene.

Lì ce n'erano tante. Lepidotteri dalle ali nere, lunghe, spaventose. Non le facevano paura. In una di loro forse si nascondeva Phoebe, in un'altra Seamus, in un'altra ancora il piccolo Davy. Non le avrebbero fatto del male, lo sapeva.

Non le importava, comunque, chi ci fosse o chi la guardasse. Lì era sola con le figlie della Notte. C'era solo silenzio e l'aria non puzzava, ma sapeva di fresco, di qualcosa che non sapeva definire, di un veleno dolce, forse. Le inebriava i sensi, in qualche modo la faceva sentire in pace.

Conficcò le unghie nei palmi delle mani, fece scontrare le fragili ginocchia sull'umido pavimento, prese un respiro profondo e si mise a guardare il riflesso nell'acqua della sua stella preferita, Saoirse. Vederne il riflesso le faceva pensare che la stella le fosse più vicina e che potesse toccarla semplicemente accarezzando la superficie dell'acqua con i piccoli palmi delle mani.

Qualche secondo, però, e lo scenario fu coperto. Vide delle falene prendere a svolazzarle accanto come non avevano mai fatto, e allora si concesse di spaventarsi, di pensare che l'avrebbero sollevata e l'avrebbero portata lontano con le loro piccole ali oscure.

Fu la luna a prendersi il carico della risposta. Soffiò contro le nuvole, vaporose e imponenti, e illuminò ogni contorno, permettendole di vederlo. Era un piccolo cesto in vimini. Si muoveva lentamente sul fiume, spinto dal vento d'improvviso più leggero, e veniva nella sua direzione, coprendole la sua stella. Quando le fu molto vicino, udì dei suoni. Dei versi quasi animaleschi. Squarciavano il silenzio della notte con rabbia e sofferenza. Ne fu inizialmente spaventata, ma poi capì. Erano dei vagiti di un neonato. Era il pianto di un bambino. Ne aveva sentiti tanti in quella casa, sommessi e già disillusi, eppure quelli erano diversi. In quel pianto c'era la disperazione di un adulto. Era un pianto implorante.

Il cesto si fermò poco distante da lei. Vide le mani diafane della fortuna spingerlo sotto il suo naso. Era venuta a saldare il conto. Così lei, nonostante l'evidente paura a cui si sentì sottomessa, tese le magre braccia davanti a sé per prendere il cestino dai manici.

Nella sua mente si scontrarono più voci, quella del signor Temple e quelle della nonna: il sacro e il pagano che si abbracciavano. Le avevano sempre detto, da quando era stata portata in quel posto, che solo la parola di Dio era importante e che tutto il resto era robaccia per ingarbugliare le menti e portare alla perdizione. Era per questo che conosceva ogni passo della Bibbia a memoria, doveva conoscerlo. Vedere quel cestino nell'acqua le ricordò un passo dell'Antico Testamento, quello che raccontava di Mosè, il bambino salvato dalle acque che sarebbe diventato il principe d'Egitto.

E allora decise.

Quella notte, quella bambina affamata e piccola, al pari di Bithia, salvò quel piccolo Mosè, inconsapevole che anche lui sarebbe diventato un principe.

Il principe delle falene.

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Bella a tutti e grazie per essere qui!

Sono Rob, ho *coff* tot *coff* anni e non bevo da...

Ah, no! Ho sbagliato. Scusate!

Errata corrige: mi chiamo Rob e non pubblico su questa piattaforma da quasi un anno. Lo specifico per sottolineare quanto mi senta tesa e in ansia per l'inizio di questa nuova avventura? Assolutamente sì!

Detto ciò, so che questo è il prologo più lungo che si sia mai letto, ma chi ha già letto qualcosa di mio sa che amo scrivere capitoli lunghi, lunghissimi. Se vi va, perciò, di continuare questo viaggio mi sembra doveroso avvisarvi che troverete capitoli corposi.

Alcune precisazioni prima di salutarci:

-Questa storia non è un fantasy. I rimandi al 'paranormale' già presenti dalla protasi sono un riferimento alla ballata scritta da me medesima, che sarà cardine dell'opera teatrale fulcro della seconda metà di questa storia. Il genere di appartenenza è il romance, l'historical romance, per essere precisi: questa è una storia d'amore ambientata negli ultimi anni dell'età vittoriana. I rimandi alla letteratura per l'infanzia sono evidenti, questo perchè la mia tesi di laurea è stata proprio in questa disciplina e lavoro con i bambini. In più, ho una predilezione per le rime, baciate e alternate, se non si fosse capito... 👀

-La storia sarà scritta in prima persona con prevalente POV femminile, al passato.

-L'etichetta 'per adulti' fa riferimento a tematiche di una certa profondità (dolore, abbandono, violenza, morte...) che consiglio a un pubblico maturo e cosciente. Se cercate scene 'spicy' sappiate che sono un'autrice che non predilige descrizioni troppo anatomiche, né volgari. Ci saranno, dunque, scene più 'frizzicarelle'? Certo, ma... a modo mio! In più, il mio Clark vi anticipo che è malizioso e che sa il fatto suo... 🌝

-Aggiorno ogni venerdì, salvo imprevisti. Almeno lo farò fino a quando avrò capitoli disponibili.

Fatto questo pippone, vi do un caloroso benvenuto a La ballata delle falene. Se ci siete e ci sarete, ricordate che una stellina e un commento mi rendono la persona più felice del mondo ✨

Grazie di cuore per essere qui con me! 🖤

Vi mando un abbraccio,

Rob

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