ATTO I: 1. Il demone dei sogni
ATTO I
1
Il demone dei sogni
E bada Pinocchio, non fidarti mai
troppo di chi ti sembra buono e
ricordati che c'è sempre qualcosa di buono
in chi ti sembra cattivo.
CARLO COLLODI
Eravamo al crocevia tra l'autunno e l'inverno.
Era sufficiente fare qualche passo in avanti per essere acciuffati e stretti dalle dita lunghe e gelate del freddo, e qualche passo indietro perché dita più limacciose trascinassero le caviglie nel terreno melmoso, sporco di foglie arancioni e gialle che scrocchiavano qua e là, appiccicose e inermi.
Schiacciai il naso contro il vetro della finestra, percependo immediatamente il gelo insinuarsi nel mio corpo, attraverso le narici, la bocca dischiusa, le piccole orecchie e la punta delle dita. Strisciò come un serpente coperto di squame di ghiaccio, lento e calcolatore, avvolgendo ogni muscolo e pungendomi la pelle da sotto il vestito di lana. Lo lasciai fare, vedendo il vetro appannarsi dal mio respiro caldo. Volsi lo sguardo al cielo, fitto di nuvole. Alcune, quelle più grigie e gonfie, si stagliavano dietro le braccia secche e nude degli alberi, lasciandosi tramortire dalla danza del vento. Si abbracciavano tra loro possessivamente, fabbricando una barricata contro il sole che, lontanissimo, provava a intrufolarsi, fendendo il cielo con i suoi artigli di luce aranciata. Non sarebbe mai riuscito a vincere e a far scoppiare il manto celeste di luce perché gli sarebbe costata troppa fatica: le nuvole oscure, svuotate di ogni traccia di compassione, erano soldati mercenari pronti a tutto pur di prevalere.
La mamma mi raccontava che fossero delle fate dalle chiome candide a forgiare l'inverno, e a soffiare dalle loro bocche incolori il freddo e la neve, scontrandosi con gli elfi dell'estate, piccoli e dalle carnagioni del colore del miele. A occuparsi dell'autunno, invece, erano delle streghe dai capelli fulvi e dai volti simili a quelli delle volpi. Ballavano attorno al fuoco, e gracchiavano come vecchie cornacchie, scagliando con le mani lunghe e magre il colore delle fiamme verso le foglie.
Che fossero dell'inverno o dell'autunno, in ogni caso, tutti gli amanti che avevano spezzato il cuore delle streghe si trasformavano in alberi spogli, i cui rami si tendevano aguzzi verso le nuvole, implorando aiuto. Le tane al loro interno erano invero le loro bocche, distorte dal dolore. Sui loro corpi, tronchi grigi e ghiacciati, si incidevano urla utili solo come rifugio per le bestioline dalle code lunghe, i musi ballerini. Quando le chiedevo cosa succedesse con l'arrivo della primavera e poi dell'estate, mi diceva che malgrado i loro artigli si vestissero di foglie, il dolore al loro interno non cessava mai. Era così che funzionava: certi dolori sono eterni.
Per la mamma tutto era una storia. Dietro ogni rumore, ogni sguardo, e ogni ferita si celavano trame dove la magia e il dolore erano intrecciate come le voci delle sirene lo erano alle orecchie degli ingenui marinai. La vita era per lei miracolo e favola, palcoscenico di fate danzanti, spiritelli malvagi, gnomi corrotti, streghe crudeli e streghe gentili, di elfi dalle orecchie tonde, ingannatori e bugiardi.
Ai miei occhi la mamma appariva come una fata dell'inverno. Era vestita di neve, di piume bianche, di sogni trasparenti sedimentati negli occhi. Il suo involucro era cucito di pelle morbida e liscia, di capelli di seta bianchissima, di ciglia lunghe come ventagli, di sopracciglia invisibili. Aveva rubato i colori alla luna, se n'era cibata e li aveva indossati con eleganza, splendendo tra migliaia di teste colorate e di anime cupe.
Era stato proprio il suo splendore ad averle fatto guadagnare il titolo di strega. Di quelle cattive, strane e brutte, da temere e da tenere alla larga. Non una di quelle delle stagioni, ma una strega bianca, incantatrice e crudele, in grado di rubare gli occhi e i cuori anche dei mariti più devoti.
La notte era il suo momento preferito per raccontare ogni storia. Gli occhi le bruciavano di meno al calare delle tenebre, mi diceva. Entrava nella mia cameretta con passo leggero, impercettibile, zampettando con i suoi piedini di fata, accendeva una candela e si metteva vicino a me. Mi guardava negli occhi e senza che le chiedessi nulla, sceglieva in base ai miei sguardi quale racconto sarebbe stato meglio sussurrarmi. Bisbigliava ogni parola, così che nessuno eccetto me potesse sentirle. Temeva che gli insetti, le creature diurne e notturne in possesso delle ali, e i topolini più dispettosi potessero rubare ciò che narrava. Poi lo spettacolo aveva inizio. Sfruttava la luce della candela per creare con le dita pallide delle ombre che si riflettevano sulla parete di fronte al mio letto. Allargava gli occhi dello stesso colore dei laghi ghiacciati e raccontava con la maestria dei cantastorie racconti oscuri che a volte mi spaventavano, ma che in qualche modo erano i miei preferiti. Quando mostravo di avere paura, infatti, la mamma si sedeva al mio fianco, mi accarezzava i capelli con dolcezza e mi diceva che dalla paura nasce la forza e che conoscerla ci rende più pronti, attenti e prudenti. Che la paura va attraversata e mai rinnegata. Che non deve avere la meglio perché non porta a cose buone se glielo si permette. Poi mi chiedeva se mi sentissi abbastanza forte perché lei continuasse e quando annuivo si metteva a ridere, di una risata che spesso mi ero trovata a pensare avesse lo stesso suono del battito delle ali delle fate buone, e mi baciava il viso. La fronte, le guance, il mento, i dorsi delle mani. Era così che ridevo anch'io. L'armonia delle nostre risate spingeva poi papà a camminare con il suo passo malfermo nella mia cameretta. A fermarsi sull'uscio della porta e a sorridere, bonario. Mi guardava con dolcezza, poi i suoi occhi accarezzavano la mamma. Ogni suo spigolo.
Quando se ne andavano, mi stringevo sotto le coperte e chiudevo forte gli occhi, lasciando che il suono del battito delle ali degli insetti contro il vetro della finestra mi cullasse. Venivo inghiottita dal sonno in poco tempo, sognando quasi sempre di creature magiche che mi tiravano i capelli e che mi facevano la linguaccia. La mattina dopo, poi, in alcuni giorni, come i sogni più belli la mamma svaniva. Aveva un dono, come lo definiva papà. Era in grado di prendere in sé parte del dolore della gente. Quando le chiedevo di spiegarmi come ci riuscisse, mi diceva che dovevo immaginarla come una fata che ingoia il male e lo risputa fuori sotto forma di nuvole piene di fumo del colore della notte. Era in grado di preparare unguenti che assomigliavano a pozioni, di recitare preghiere e di usare le sue mani scolorite come scudo da cui proteggeva alcuni malati. Non tutti. Non era possibile guarire chi aveva la radici pregne del male che le aveva scelte. Solo alcuni.
Non era riuscita a guarire nemmeno papà. Si limitava a ingannare il male che gli attanagliava la gamba. Un inganno che durava poche ore. Non di più.
La mamma era fata. Era poetessa e pensatrice saggia. Era guerriera e guaritrice. La mamma era luce alabastrina, calda e invadente. Era vita e fuoco che arde.
Ma anche le fate erano mortali. Me lo ripeteva sempre. Non esisteva magia eterna. Tutto doveva rigenerarsi. Senza la morte non c'è la vita. Senza la vita non c'è la morte.
Alle ali della mamma si erano attanagliate delle ombre, un giorno, senza che potessimo farci niente. Un po' di quel fumo nero che tante volte aveva esalato, doveva esserle rimasto dentro, prima più mite e poi sempre più ingombrante. Si era fatta più bianca, più trasparente, più leggera e piccola. Bagnata dai primi raggi del sole del primo giorno di due inverni prima, aveva chiuso gli occhi, bisbigliandomi parole che ogni tanto mi tornavano in mente, ed era volata via. Lontana da ogni dolore. Lontana da sguardi indegni. Lontana da papà. Lontana da me.
«Cora, ti andrebbe di accompagnarmi a raccogliere della legna?»
I passi claudicanti di mio padre mi riscossero dai miei pensieri. Le assi di legno traballavano in alcuni punti quando il suo bastone affondava contro il pavimento. Clic, clac. Clac, clic.
Trascinava il piede sinistro, concentrando il peso del suo corpo gracile su quello destro, stringendo gli occhi e affidando la sua sicurezza a un bastone bianco.
Mi staccai con lentezza dalla finestra, osservando per qualche secondo l'alone che il mio respiro aveva condensato sul vetro, insieme alle impronte che avevano lasciato i miei polpastrelli. Mi sfregai i palmi delle mani contro le braccia e mi misi in piedi, sistemandomi il grembiule e la gonna. Scesi le scale consumate dal tempo e lo raggiunsi, senza dirgli nulla.
Parlavo poco. Lo stretto necessario. Mi costava fatica articolare a voce alta tutte quelle frasi che nella mia testa trovavano il loro posto ma che, una volta fuori, sembravano vuote e sciocche. Ne erano così tante che la mia lingua non riusciva ad assaporarle con la giusta cura con cui avrebbe voluto la mia mente. Credevo che fosse uno spreco parlare e non lasciare invece che fossero i gesti a farlo, piuttosto che la bocca. Nella mia testa le parole erano pesanti e le uniche volte nelle quali non mi sentissi affaticata dopo averle lasciate fluttuare fuori dalla mia testa erano quelle in cui leggevo.
Lui mi sorrise, cosciente di quale fosse la mia natura, così simile alla sua. Lui claudicante nella motricità; io claudicante nel parlare. Mi cinse le spalle con un braccio e mi guidò verso la porta. Prima di uscire, poi, mi strinse sulle spalle il mantello che un tempo era stato della mamma, ancora pregno del suo profumo dolciastro e pungente. Era nero e di velluto, con delle ali e dei fiori dorati cuciti qua e là, perfetto per quelle giornate di bufera in cui lei diventava un tutt'uno con i paesaggi nevosi. Si calava il cappuccio sui capelli alabastrini e sorrideva, splendendo di luce propria. Su di me, perdeva il suo fascino. Gli rimasi accanto quando fummo fuori. Una fitta coltre di nuvole del colore della cenere aveva sconfitto i raggi del sole, rendendo ogni tetto, ogni campo, ogni misero e temerario fiore, grigio e buio. La brughiera era un ricettacolo di ombre. Papà guardava di fronte a sé, con la mano nella mia, e così mi concessi di guardarmi i piedi. Fissai le mie scarpe che affondavano nel terriccio coperto da primi strati di neve e pensai d'improvviso che nelle impronte che stavo lasciando si sarebbero presto rifugiati degli elfi alti quanto pollici delle mani.
Percorremmo il ponte che ci separava dal bosco e con il fruscio dell'acqua nelle orecchie, ci inoltrammo tra gli alberi. Le chiome svuotate, le braccia magre, la neve sporca di terra, le foglie morenti e le radici, grosse e possenti, affogate dai tappeti di pietre, foglie e ghiaccio. Dei funghi dai cappelli grossi e colorati si inchinarono al nostro passaggio, così ricambiai con lo stesso gesto nella loro direzione, in segno di riverenza. Lo feci solo io. Mio padre cominciò a raccogliere i rami più grossi, appoggiandosi alla mia spalla per piegarsi sulla gamba buona e raccogliere quelli migliori.
La punta del naso e gli zigomi presero a bruciarmi dopo poco. Le dita delle mani e dei piedi mi divennero rigide e secche come le ali delle falene che la notte svolazzavano sopra i corsi d'acqua. Osservai i pezzi di legno che papà prese a stringere tra le mani forti e lo imitai, cercando di dimezzargli la fatica. Rubavo rami, sotto i rimproveri degli alberi, consapevole tuttavia che meritassero di subire quei furti; poi osservavo il cielo, le cornacchie che blateravano delle loro vite, le gazze che sfrecciavano tra le nuvole con pezzi luminosi tra i becchi sporchi di avidità.
Continuammo fino a quando non sentimmo dei passi in lontananza, e dei rami spezzarsi sotto il peso di quelle che dovevano essere suole di scarpe o zampe di animali affamati o piedi di creature metà umane e metà capre. Papà mi spinse alle sue spalle, stringendo la tasca destra dei suoi pantaloni, dove nascondeva una lama arrugginita. Io mi chiusi nelle spalle, concentrandomi su alcune lucine che brillavano tra le fronde. Briciole di luna, pensai.
«Oh, dottore. Siete voi!» disse poi. Il respiro di nuovo libero e la schiena più rilassata.
Tornai ad affiancarlo, notando la figura del dottor Lawrence farsi pian piano più distinta e avanzare con passo incerto nella nostra direzione, gli occhi inquieti e sconvolti. Una figura cupa al suo fianco.
Il dottore sollevò il suo cappello, e salutò mio padre come un buon vecchio amico. Un'amicizia che il primo concedeva a mio padre per una stima innata che provava nei suoi confronti, per pietà perché era storpio o semplicemente come risarcimento per una vita passata in laboratori che puzzavano di morte e di pazzia.
«David! Non mi aspettavo di incontravi.» aveva il respiro un po' accelerato, come se avesse camminato a passo veloce per tutto il tempo. «Spero che io e il mio ragazzo non vi abbiamo spaventato.»
Pareva più il contrario. Che fossimo stati noi a spaventarlo. Distinsi perfettamente una sfumatura spaventata nella sua voce. Un tremolio sommesso tra una lettera e l'altra. Immaginai la sua faccia anche se non mi presi il tempo di osservarla: gli occhi neri sgranati, le sopracciglia folte vicine all'attaccatura dei capelli scuri, gli angoli della bocca tesi.
Papà non gli rispose subito. Sembrava che qualcuno lo avesse d'improvviso congelato sul posto. Pensai che qualche folletto gli avesse lanciato per sbaglio delle sciabole a spillo e così gli controllai le caviglie. Erano illese. Funzionava così la mia testa. Fantasie su fantasie, rifugio e condanna.
«Non mi aspettavo che vi avrei incontrato nemmeno io.» gli tremò la voce quando trovò la forza di tirarla fuori. «Mi avevate detto che sareste tornato giorni fa, ma nella vostra ultima lettera voi...»
Papà era stato a casa con me per più tempo in quelle settimane. Di aiuto al dottor Hale, il medico del villaggio vicino, aveva atteso il ritorno del dottor Lawrence, impegnato in uno dei suoi viaggi in Irlanda. Ci andava spesso per lavori di ricerca, mi raccontava papà. Aveva amici dell'università che lavoravano in ospedali irlandesi vecchi e dimessi, e pareva che i loro studi si concentrassero su malattie della mente poco conosciute e sottovalutate.
«Lo so, amico mio.» il dottore si fermò per qualche istante. «Vi racconterò ogni cosa, ve lo prometto. Ora sappiate solo che lui è il mio ragazzo.»
Papà gli rispose con parole che mi giunsero in modo confusionario. Non so cosa si dissero di preciso, ma so che mi domandai da quando il dottore avesse un suo ragazzo. Avevo sentito la mamma, una volta, dire a papà che nessun seme sarebbe mai germogliato nel ventre della moglie del dottore perché la terra che lo avrebbe accolto non era fertile.
«Che bello che siate con la vostra Cora. La ricordavo bambina, David, e invece è già una piccola donna.» la voce del dottore mi riscosse da ogni pensiero. «Sono stato via tre mesi, eppure sembra che sia cresciuta di un anno.»
Stentai a credergli. Quando guardavo il mio riflesso o mi osservavo le mani e i piedi, tutto mi sembrava sempre della stessa dimensione. Le altre bambine erano il mio metro di paragone nella crescita fisica. Alcune erano sottili come giunchi, altre era come montagne, possenti al punto tale che a volte me le immaginavo nell'atto di precipitarmi addosso, e di schiacciarmi tutte le ossa. Sollevai lo sguardo con lentezza, agganciandolo a quello di mio padre che subito mi invitò con un cenno a salutare il dottore. Feci allora una piccola riverenza, proprio come mi aveva insegnato la mamma in uno dei nostri pomeriggi di gioco, ricevendo in risposta un suono sprezzante e beffardo, seguito da un rimprovero sommesso pronunciato dalla voce profonda del dottore.
Fu allora che lo vidi per la prima volta.
Quando successe, il mio piede sinistro retrocesse, ubbidendo così all'istinto. Provai un brivido simile a quello che mi attraversava la schiena quando la mamma mi raccontava del demone dei sogni felici, un diavolo che si intrufolava nei sogni dei bambini, rubando loro quelli più lieti di cui si cibava per restare giovane, sostituendoli con incubi oscuri e spaventosi.
I miei occhi si posarono prima sul dottore, poi sulla macchia, come appariva alla coda del mio occhio destro, che lo affiancava. Era lunga, sottile e scurissima. Fece dei passi in avanti, mostrandosi con chiarezza. Quando le mie pupille trovarono la forza di sollevarsi, si soffermarono su una faccia scavata, su un corpo alto e ossuto, sulla della pelle sporca e dall'aspetto linfatico. Poi salirono su un berretto da cui fuoriuscivano delle ciocche arruffate, simili a piume di corvo. Più in basso c'erano le sopracciglia, due curve nerissime e lunghe. Incorniciavano occhi affilati in cui erano ricamati incubi oscuri dalle sfumature blu. Mi diedero l'idea di essere due inghiottitoi pronti a risucchiare ogni frammento di luce, ogni stella, ogni pallido raggio di sole. Temetti infatti che sarebbero stati in grado di assorbire anche la ciocca bianca che mi faceva sentire più simile alla mamma. Mi guardava con sguardo nefasto e senza traccia di gentilezza. Il suo sguardo indugiò per un attimo sulla macchia di grasso che mi sporcava il grembiule bianco, sugli stivaletti sporchi di terra; sulla cuffietta da cui sbucavano, impertinenti, dei riccioli scuri e crespi. Poi indugiarono sul mio occhio sinistro, là dove nell'iride bruna era incastrato un frammento azzurro, bizzarro e spaventoso.
«La mia Cora ormai è una signorina, avete ragione. Tuttavia, sarà sempre la mia bambina e credo sia più giovane del... vostro ragazzo.» mio padre tornò a prendere parola, fissando il demone dei sogni con la mia stessa attenzione.
Il dottor Lawrence si accorse solo in quel momento della necessità di presentarci il suo ragazzo. Si fece impacciato, indeciso su cosa fare. La sua mano si avvicinò con lentezza al corpo del demone, che in risposta prese a fissarla con diffidenza e ostilità. Assunse la stessa espressione delle bestie pronte ad attaccare, spingendomi a fare un altro passo all'indietro. Me lo immaginai nell'atto di scoprire i denti, di digrignarli, di prendere a fissarmi e di attaccarsi alla mia gola per risucchiarmi la vita con la bocca e poi con gli occhi. Proprio come i vampiri di cui a volte mi raccontava la mamma. Tuttavia, non successe nulla del genere. Mise da parte ogni traccia di rabbia in modo così fulmineo che mi domandai se non mi fossi immaginata tutto, poi sorrise e portò con sicurezza la mano del dottore sulla sua spalla, accoccolandosi al suo fianco come se avesse cambiato i suoi programmi e avesse deciso in pochi istanti che vestire i panni di una docile volpe fosse meglio che vestire quelli di un cane affamato da troppi giorni.
«La vostra Cora quanti anni ha?»
Pensai che il dottore fosse sconvolto. La sua domanda si scontrava con la constatazione che proprio lui mi avesse regalato per il mio compleanno, avvenuto pochi mesi addietro, un giocattolo. Lasciai a mio padre il compito di rispondere.
«Ne ha compiuti tredici in estate.» papà mi avvicinò al suo fianco, stringendomi la spalla con forza.
«Oh, giusto!» il dottore si accorse della sua dimenticanza. «Il mio Clark ne ha...» i suoi occhi si fermarono sul ragazzo.
Clark. Il demone aveva un nome. Breve, incisivo, di quelli che non si sciolgono in bocca lettera per lettera, ma che rimangono sospesi sulla punta della lingua per qualche secondo di troppo. Clark. Ogni lettera prese a occupare uno spazio preciso nella mia mente. La 'C' a dare il via alle danze, la 'l' a baciare il palato, la 'a' a riempire la bocca, la 'r' vibrante, la 'k' a spezzare la dolcezza dei suoni precedenti. Pensai che gli si addicesse. Un nome come 'Thomas' sarebbe stato troppo dolce, disteso, inadatto per un ragazzo con una faccia come la sua. Clark, invece, era perfetto per un diavolo onirico, per quanto fosse anche divertente notare come il suo significato rimandasse alla chiesa e quindi a un'istituzione che combattesse diavoli di ogni natura.
«Tredici, dottore. Ancora per poco.» sorrise, lasciando che la sua voce, profonda e scura, vibrasse tra noi, dispettosa abbastanza da farmi venire la pelle d'oca sulle braccia. Il suo accento era diverso dal nostro, più marcato, più musicale.
Fu a quel punto che papà gli tese la mano con fare impacciato.
La volpe ricambiò la stretta, dandomi modo di notare una fasciatura bianca a coprirgli il dorso e il palmo della mano destra su cui svettavano delle unghie corte e sporche.
«Il piacere è mio, signor...» si atteggiò con fare affettato. Drizzò le spalle, sollevò il mento e si mostrò sicuro.
Mi piaceva guardare la gente. Fissarmi su ogni particolare. Sul dito che grattava la punta del naso, sulle guance che si facevano rosse, sulle cicatrici. Fissai anche il ragazzo. Sembrava più grande di me. Nel fisico, nei lineamenti, e nella voce.
«Murray, ragazzo. Sono David Murray e lei è mia figlia, Cora.» presentò anche me, seppur non gli fosse stato chiesto di farlo.
Le loro mani si separarono, e quella del ragazzo si mise in tasca. Tornò a guardarmi e a scoprire i denti in quello che sembrava un ghigno canzonatorio e furbo.
Aveva l'aspetto più di un vagabondo che del figlio di un dottore. I suoi abiti erano trasandati e vecchi: i pantaloni fino ai polpacci scarni, le scarpe usurate, una giacca rattoppata sopra una blusa scolorita, un fazzoletto nero attorno al collo e un berretto con la visiera che gli stava troppo grande e che rendeva il suo sguardo affilato. Non c'era luce nelle sue pupille e per un attimo mi domandai se gli battesse il cuore nel petto. Se non fosse in realtà un esperimento del dottore. Forse lì, dove era andato, una strega gli aveva venduto un angelo caduto spacciandolo per cherubino, o forse la solitudine di sua moglie lo aveva spinto a scendere direttamente nelle fiamme per far suo un figlio.
Mi fissava con labbra vermiglie piegate in sorrisi che temetti avrebbero occupato i miei incubi per tanto tempo. Poi guardava la collana che un tempo era stata della mamma e che mi scendeva lungo il petto, intravedendosi dal mantello. Non era, a livello materiale, preziosa, ma sbrilluccicava. Doveva piacergli molto perché i suoi sguardi si fecero avidi di quella luce che si rifletteva dalle piccole pietre colorate che la adornavano.
La chiusi in un pugno, gelosa di quel cimelio, provocando in lui solo altri sorrisi sgradevoli.
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📲 Instagram: taryn_scrive (chiacchieriamo, metto immagine fighe - o che vorrei lo fossero. - condivido citazioni mie e di scrittori belli, e scemenze... )
🍂 Ditemi la verità: d'ora in poi vedrete gli alberi sotto una luce diversa... Non è così?
Ma ciancio alle bande, dopo una lunghissima giornata lavorativa estremamente faticosa, eccoci qui con il primo capitolo! Si apre niente di meno che con una frase del mio carissimo e oscuro amico, EAP. Per tutti: Edgar Allan Poe che, oltretutto, ieri avrebbe soffiato su parecchie candeline se fosse stato ancora nel nostro regno. Auguri EAP!
Conosciamo i nostri protagonisti: Cora, la mia bellissima, meravigliosa, Cora Murray e Clark, il mio furbissimo, bellissimo, istrionico Clark Lawrence.
🧚🏻 Cora, con la sua ciocca bianca ad attraversare i capelli ricci e scuri, con la sua eterocromia agli occhi, con il suo essere claudicante con le parole, con la sua mamma, una donna albina buona e magica, morta troppo presto, che l'ha resa ciò che è nel suo modo di vedere la natura e la vita, con le sue ipocrisie e le sue contraddizioni.
🦊 Clark, con i suoi capelli nerissimi, gli occhi blu, l'aspetto trasandato e l'aria furba e arrabbiata. Il suo essere cane affamato, volpe astuta, demone dei sogni. Con tanto altro che conosceremo un po' alla volta.
Hanno 13 anni in questo inizio, ma cresceranno nel corso delle vicende, per cui preparatevi a ogni loro metamorfosi... 🎭
Li amo già così tanto! Troppo.
Che prime impressioni vi hanno dato? In generale, che vibes vi ha dato questo inizio? Vi convince?
Non mi dilungo perché ho il cervello in fumo e temo di scrivere castronerie, ma sappiate che vi sono molto grata per il sostegno con cui avete accolto la protasi e il prologo di questa storia. Non so dove mi porterà quest'avventura e non so se potrà piacere a un pubblico come quello di Wattpad, ma spero di non deludere nessun*. Spero di non farlo né con le "fedelissime" che mi leggono da anni e che ci sono sempre, né con chi non conosceva ancora la mia penna e sta dando una possibilità a questa storia.
Grazie, perciò, per esserci! Grazie per ogni stellina e ogni singola vostra parola. Mi rendono felice! 🖤
Ci leggiamo venerdì prossimo con il secondo capitolo. Buon weekend,
Rob
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