Capitolo 56
Silas non aveva chiuso occhio, passava dal divano del salone al tavolo della cucina. Non riusciva a prendere sonno né a staccare gli occhi dalle riviste. Più leggeva e più comprendeva quale potesse essere il problema della sua bambina. Ciò che lo attanagliava, però, era come risolverlo. Certo, lui avrebbe potuto assecondarla, la cosa non gli creava problemi, non era di certo di vedute così ristrette, ma come si sarebbe destreggiata Castaldia nella vita, quale difficoltà avrebbe potuto riscontrare durante la sua vita?
I quesiti erano tanti, le preoccupazioni pure, ma cercava di ignorarle e di imparare il più possibile.
Sfogliò l'ennesima pagina e si rese conto di non avere più bisogno della luce artificiale poiché l'alba era appena sorta.
Silas aveva un gomito poggiato sul tavolo mentre con la mano si sorreggeva la testa, non aveva certo assunto una posizione comoda, ma la stanchezza, sebbene senza sonno, cominciava a farsi sentire. Le aveva lette tutte, ma nessuna era riuscita a sanare le sue tribolazioni. Sospirò stiracchiandosi, portando le braccia e le gambe alla massima estensione come fosse un gatto.
Gli scappò anche uno sbadiglio e con la mano destra si stropicciò gli occhi.
«Che nottata!»
«Ma allora è un vizio!» esclamò Ludwig che era appena entrato nella cucina. Era sussultato nel vedere Silas in cucina. Essendo lui così mattiniero pensava di essere sempre il primo e di essere da solo, invece non fu così tanto da farlo trasalire.
«chi pensavi che fosse?»
«Non so: chiunque, visti i tempi che corrono» sentenziò Ludwig.
«Sei tu che mi hai dato le riviste e io mi sono solo messo a leggerle».
«E non potevi farlo nella tua camera?» Silas, nonostante fosse padre veniva ancora rimproverato; ma forse era vero che non si smetteva mai di fare il genitore.
«No, perché avrei svegliato Lothar. Sono così nervoso che si percepisce a chilometri di distanza»
«Capisco,» disse senza dire altro, poi aggiunse, «Vuoi un caffè?»
«Doppio, bello forte!»
Nel frattempo che Ludwig si cimentava nel preparare il caffè, Silas guardava svogliato ancora e ancora quelle riviste, come se potessero placare la sua angoscia di punto in bianco; poi preso dall'ira, dalla frustrazione, le chiuse di scatto e le lanciò in fondo al tavolo.
«Sta attento, che tuo zip potrebbe uccidere per quelle riviste».
«Ci uccideranno a noi, se dovessero trovale in casa»
«Le aveva nascoste, ma forse dovrebbe nasconderle meglio, perché non c'ho messo molto tempo a trovarle».
«Ottimo». Silas rispose ironico.
«Non eri tu quello che lasciava in giro Marx per casa e tutto il resto».
«Touché» rispose Silas. «Sì, ma adesso sono più accorto. Diciamo che ora ho un'altra percezione del pericolo, anche perché si sono inferociti di più rispetto a prima, e a Berlino si ha paura pure di respirare: ma questo, tanto, lo immagini già, papà».
«Castaldia non farti inseguire da per tutto, vieni qui!» Natthasol esasperato rincorreva la bambina che, ridendo, correva per casa, cercando di raggiungere la cucina. «Cosa sei una selvaggia?» le gridò dietro «sei pure scalza: vieni qui!»
Lei non ne voleva sapere. Correva più veloce che poteva e rideva di un sadico divertimento nel depistare suo zio. Nei pressi della cucina, si mise a gridare: «papino, papino!» Entrò nella cucina, poi frenò di colpo e prese ad agitare la spazzola con il braccino. «Mi pettini? Sono spettinata!» disse nella direzione di Silas.
Questi, afferrandola per la vitina, la sollevò subito da terra e la mise a sedere sulle sue gambe. «Dove hai lasciato zio Natthasol?» domandò divettino.
«Non lo so, correva». Fece spallucce.
Silas rise, poi prese a separarle i capelli in due ciocche. Per spazzolare la matassa bionda, accompagnò i denti fini con le proprie mani affinché i capelli annodati non si tirassero troppo, né si spezzassero; a riprova di ciò c'era l'espressione di Castaldia, che se ne stava lì buona, placida in attesa dei suoi codini finiti.
Silas ci mise pochissimo a farle la tanto amata acconciatura, quand'ecco che Natthasol, ormai affaticato, giunse in cucina. «Eccoti, peste!»
Nel sentire quell'appellativo Silas gli lanciò un'occhiataccia che fece capire immediatamente a Natthasol che, forse, si era spinto troppo oltre.
A prendere parola, però, fu la piccola: «scusa zio, dovevo farmi pettinare».
Natthasol decise di cambiare subito discorso, certo che comunque sarebbe andata, ad averla vinta sarebbe stata sua nipote. «Che vuoi mangiare Castaldia?» le domandò.
«La torta, zio! La torta!»
Tagliò diverse fette di torta: una per lei, una per Silas e altre "per sicurezza"; conoscendolo, era certo suo nipote ne avrebbe voluta ancora.
Silas venne distratto da Castaldia, che gli domandò «che sono?» indicando le riviste con la manina.
«Main Gott, Castaldia, sei curiosa come me! Comunque sono delle riviste per grandi, e prima che tu possa dire qualcosa sull'essere grandi, non sai ancora leggere.»
Lei s'imbronciò. Labbra all'ingiù, sopracciglia aggrottate, si voltò di scatto verso il padre e disse tutta arrabbiata: «E chi lo dice? Jacob mi sta insegnando... aspetta!» E mentre scendeva dalle gambe di Silas piombando a terra con pochissima grazia, gli fece cenno con la manina di aspettare.
Silas la seguì con lo sguardo. Osservò sua figlia schizzare via come un fulmine, correre chissà dove e tornare con dei fogli in mano.
Arrivata davanti a Silas, Castaldia tese le braccia verso di lui per farsi tirare nuovamente sulle gambe; questi non obiettò: la sollevò, e lei poggiò sul tavolo i fogli ormai stropicciati.
Silas notò che su quei fogli c'erano scritte tutte le lettere dell'alfabeto.
«Allora, qua ci sono le lettere...» lo spiegava a Silas, come se quello a non saperlo fosse proprio lui «e Jacob mi fa fare così per imparare». Poggiò l'indice alla base della lettera A e disegnò il suo contorno. «Dice che se faccio così, imparo».
«E le hai già fatte tutte?» domandò Silas, stupito e orgoglioso.
«Tutte».
Silas sparpagliò i fogli, prese poi le lettere che componevano il suol nome e le mise una accanto all'altra. «Che c'è scritto?» chiese.
Castaldia si concentrò. Ripartì con l'indice prendendo a contornare il corpo serpentino della S e così discorrendo le altre lettere: «allora... Si,» si fermava e poi riprendeva, «la...» e colta dall'intuizione esclamò contenta: «Silas! Il nome di papino!» Felice batté le mani.
Nail sedeva sul divano con la testa reclinata all'indietro. Il dolore alla gamba comincia a tornare e la morfina a scarseggiare. «Dovevo dargli retta» mormorò tra sé e sé, riferendosi a Ludwig, il quale gli aveva consigliato di usare la morfina solo in casi di estrema necessità perché questa non era di facile reperibilità. «Dove la trovo adesso altra morfina? Mi piomberà sicuramente in casa, ne sono certo...» si schernì con rimprovero. Una cosa era certa, però: lui non aveva più bevuto per anestetizzare la sofferenza della gamba e la morfina era un toccasana; quasi riusciva a camminare senza zoppicare. Mentre imprecava sul dolore che tornava alla ribalta, incapace di appisolarsi per l'acutezza della pena, un rumore lo allarmò e fu certo che qualcuno avesse appena suonato alla porta. Così, trattenendo fra i denti un insulto o due, si fece forza per sollevarsi dal divano. Poggiò tutto il peso sulla gamba buona e fece leva sul braccio destro, dopodiché si ricompose appena e si sistemò gli occhiali, che erano scesi di poco dalla sommità del naso. «Magari è qualcuno che mi porta la morfina» scherzò; l'ironia era ormai la sua unica arma per allontanare il dolore.
Non era più di tanto preoccupato: si disse che qualcuno di pericoloso avrebbe bussato con più energia e che quel rumore fugace, leggiadro, indicava piuttosto la presenza di una donna.
A quel punto, però, dovette pregare che non fosse un nuovo problema da risolvere, perché già ne avevano abbastanza. Quando aprì la porta, la realtà lo riportò con violenza al presente. A un primo sguardo non notò nessuno fuori. Udì un gemito, un vagito per la precisione, come quello di un bambino. Deglutì e abbassò lo sguardo. In terra c'era un cestino di vimini e dentro questo un neonato avvolto in un morbido lenzuolo di lana candido.
«Appunto, ecco un altro problema», sospirò. «Ci hanno forse preso per un orfanotrofio?» Tirò su il cesto, perché mai avrebbe lasciato una creatura al freddo e in solitudine sotto la devastazione della guerra. Tra le pieghe del lenzuolo notò un biglietto piegato a metà: lo aprì e lesse ciò che vi era scritto. «L'ho sempre taciuto, perché io sono dovuta fuggire e tu sei rimasto a Berlino. Ora, però, devo lasciarlo al sicuro. Io devo nascondermi bene, ho un brutto presentimento e non vorrei che nostro figlio possa diventare orfano quando un padre ce l'ha. Per favore, non farlo essere solo al mondo. Ti ricordi quando mi dissi che il nome Joscelin ti piaceva? L'ho chiamato così. Abbi cura di lui e spero tu possa perdonarmi, tua Danika».
Nail portò dentro il bambino e lentamente si condusse al divano insieme a lui. Lo poggiò su un cuscino e lo scrutò bene. Il bimbo sorrideva nel guardarlo. Nail l'osservò ancora, per bene: aveva una presentimento. Il colore degli occhi così celesti e brillanti, gli ricordava... Frenò il flusso dei propri pensieri e si portò una mano al volto. Strinse la sommità del naso fra le dita, si strofinò gli occhi con fare nervoso. «Silas, maledizione!» Non aveva mai sentito di questa Danika, ma ricordava di un lungo periodo, la pausa da Lothar, come Nail la chiamava scherzosamente, in cui Silas stava con una fanciulla con la quale non si era più frequentato. Forse si trattava di lei e lei sembrava essere nei guai. «Ci mancavi solo tu, vero, piccolo Joscelin? Vero?» disse addolcendo la sua voce, mentre cercava di tirarlo su per prenderlo in braccio. Voleva assicurarsi che stesse bene. Poggiò la testa sul suo braccio: aveva visto spesso Silas farlo con Castaldia e quindi era quasi certo di riuscire nell'intento. «Vediamo...» sussurrò scrutando il bimbo «... sei abbastanza grande e pesante, hai gli occhi aperti, mi sembri in salute e mi ridi in faccia, per giunta! Avrai sei o sette mesi, Joscelin?» Il bambino rise, la voce di Nail gli dava gioia, lo tranquillizzava. Allungò una manina e si agganciò al dito indice di Nail. «Oh, non fare così,» sospirò, «potrei sciogliermi in questo momento». Lo teneva in braccio saldamente e facendo leva solo sulla gamba buona si rialzò in piedi senza celare alla sua mente una qualche e colorita imprecazione. «Sai, Joscelin, a tuo nonno prenderà un infarto, ma uno vero. Pertanto, adesso lo chiameremo e gli faremo sentire la tua bella voce...» Nail si avvicinò al telefono, compose il numero e aspettò che dall'altra parte rispondesse qualcuno.
In casa di Ludwig, a Monaco, il telefono suonava raramente e quando squillava speravano sempre che non fosse qualcosa di grave, né che ci fossero minacce apparenti all'orizzonte.
«Sì?» rispose Natthasol.
«Natthasol sei tu? Come stai?»
Nel sentire Nail al telefono il cuore gli iniziò a battere. Gli mancava davvero tanto, si sentiva tremendamente solo laggiù, un po' come si sentiva solo Ludwig senza Aleph. «Sto bene e tu come stai?» gli domandò. Con la schiena andò a posarsi contro il muro e con le dita prese a giocherellare con il filo del telefono.
«Sono vivo, è quello che penso basti sapere» rispose Nail, non ricordava quale fosse l'ultima volta che era stato veramente bene: i momenti sotto morfina non erano considerabili, dopotutto
«La tua gamba fa ancora così male?»
Nail fu stupito nell' aver sentito la parola "ancora". Era una situazione permanente, quella. Quando mai avrebbe potuto smettere? Però avrebbe tirato alle lunghe quella conversazione futile per sentire la voce di Natthasol. Durante la notte, quando veramente si sentiva solo e la gamba non lo faceva dormire, pensava a lui e piano piano, cullato dal ricordo si addormentava.
«Terribilmente, ho finito anche la morfina ora e non mi resta che stringere i denti finché posso».
«Mi dispiace. Fossi stato lì, ti avrei preparato qualche tisana con quale pianta officinale».
«Una tisana all'oppio, magari... chissà, secondo me è buona». Risero.
Natthasol, di sottofondo sentiva dei lamentii. Chiese «cos'è quello che sento?»
«Un problema». In quel momento, il bambino cominciò a lagnarsi come un ossesso: sembrava che da un momento all'altro sarebbe potuto scoppiare in un pianto dirompente. «Non fare così, mi rimangio la parola problema, va bene?» domandò al bimbo, come se potesse comprenderlo davvero ciò che stava dicendo; e di nuovo, udendo la sua voce, questo si rasserenò.
«Ludwig non sarà contento» gli rispose Natthasol. Poi venne pervaso dal dubbio: «è tuo? Sei andato con qualche sgualdrina e adesso ti ritrovi con un neonato?»
Nail stupito da quel cambio di tono, rispose «no, dove pensi che la trovi io una puttana che viene fino a casa... a fare cosa poi? Hanno inventato anche le puttane a domicilio, adesso?» Irato per l'insinuazione rispose un po' piccato, ma Natthasol non era tipo da farsi intimorire, perciò affondò ancora:
«Come posso saperlo io? Sei lì da solo potresti desiderare compagnia».
«Natthasol, smettila, non è figlio mio. Piuttosto, passami Ludwig». Natthasol chiamò seccato Ludwig e non appena lo vide gli lanciò la cornetta tra le mani; lui l'afferrò prontamente e osservò confuso suo fratello che si allontanava in preda a qualche demone dell'ira.
«Pronto» rispose Ludwig portando la cornetta all'orecchio.
«Sai, Ludwig, tuo fratelllo è snervante!»
«Buongiorno anche a te, Nail. E sì, lo sapevi bene, ecco perché penso che tu sia masochista».
«Se fossi masochista, adesso gioirei per questo dolore infernale alla gamba».
Ludwig rise appena. «Bhè, un po' te la sei cercata con quella». Sapeva già che Nail aveva bell'e finita la morfina.
«Ludwig abbiamo un problema».
Sentendo quella parola, tornò improvvisamente serio. «Ne abbiamo due, allora: stavo per chiamarti anche io.»
«Ottimo, che gioia questa bellissima giornata» ironizzò Nail. «Ludwig, avanti dammi la tua buona novella e andiamo in ordine», lo incalzò.
«Mi stai dicendo che il tuo problema è ancora più grave? Salazar sta bene?»
«Benissimo. Non potrei dire lo stesso della povera Anastasia, ma sì, sta bene».
«Che cos'ha quella ragazza?»
«Ludwig, concentrati. Parliamo prima dei problemi attuali. Anastasia sta bene, solo non può essere felice con Salazar, tutto qui».
Ludwig, preoccupato, avrebbe voluto saperne di più al riguardo, ma avrebbe indagato in un secondo momento. «Te lo ricordi Otil Fuchs?» gli domandò all'improvviso.
«Come potrei dimenticarlo? Mi ricordo che mi faceva ridere un sacco con le sue battute, mentre tu leggevi tristemente Novalis» rispose Nail.
«Ancora con questo Novalis, basta».
«Va bene, dimmi: ora che centra Otil?»
«Me lo sono ritrovato a lavoro... si è presentato come membro della RSHA».
«L'ufficio centrale delle sicurezza del Reich» disse per intero Nail, quasi come se si volesse accertare di quanto appena udito.
«Esatto. Per adesso posso dirti solo questo, ma ti farò avere altri dettagli». Ludwig sapeva che Silas sarebbe ritornato a Berlino, pertanto avrebbe detto tutto a lui e, di rimando, questi avrebbe riportato a Nail. Cominciava a diventare un passaparola pericoloso, il loro, ma era l'unico modo per non lasciare tracce; con l'auspicio di rimanere sempre vivi per farlo.
«Ora il tuo problema, Nail».
Nail non poteva dire al telefono esattamente come erano andate le cose, perciò si limitò a pronunciare parole comprensibili per Ludwig senza dilungarsi in dettagli, certo allo stesso modo che, prima o poi, avrebbe saputo come stavano in realtà i fatti. «Hanno bussato alla porta, ci hanno lasciato un bambino, è stato abbandonato»: telegrafico.
Nella mente di Ludwig si fecero avanti mille ipotesi, ma disse solo «siamo un orfanotrofio, è chiaro, o per lo meno ci hanno scambiato per questo...»
«Che strano, Ludwig, è la stessa cosa che ho pensato io».
E, come il suo amico poco prima, anche lui prese a massaggiarsi la sommità del naso e le palpebre con fare nervoso. «Prenditi cura del bambino e tienimi aggiornato».
«Sissignore» rispose Nail prima di riagganciare il telefono.
«Tutto questo ed è solo mattina» disse tra sé Ludwig. Non ebbe neanche il tempo di allontanarsi che il telefono squillò di nuovo. Sollevò la cornetta e disse solo «sì?»
«Buongiorno, Ludwig».
Era Otil, e Ludwig si domandò ingenuamente come facesse ad avere il numero di casa sua; tuttavia fu proprio la sua mente a suggerirgli la risposta in un lampo: RSHA.
«Buongiorno, Otil, come posso aiutarti?»
«Mi risultano problemi a lavoro...» era chiaro che per lavoro intendesse il campo. «Ho pensavo di avvisarti affinché tu potessi andare a controllare tempestivamente i tuoi numeri».
Il sospetto s'insinuò come una spina nel fianco. «Chi devo controllare?» gli chiese Ludwig.
Otil, dall'altra parte del telefono, scendeva con l'indice sui nomi che aveva davanti a sé: aveva una cartellina e dei fogli impilati, probabilmente le intercettazioni di Ludwig. «Dunque, da quello che mi risulta devi dare proprio una bella strigliata a questo Gustav Brown».
A Ludwig non serviva altro, aveva immaginato che quel ragazzo potesse aver preso iniziativa durante la notte, ma averne la conferma era tutt'altra cosa: più volte compiva azioni efferate di testa sua, ma questa sarebbe stata l'ultima. «Ti ringrazio, vado».
«Ah, Ludwig, prima che riagganci volevo solo dirti di dire a Natthasol di essere più pacato al telefono...»
Agganciò la cornetta senza neanche salutare. Il fatto che lo avesse avvisato non significava nulla: non si fidava di lui, non poteva farlo; un errore di calcolo sarebbe stato madornale. «E ora cos'altro sarà successo?» sì domandò a mezza bocca mentre indossava in fretta e furia il cappotto e il cappello.
Al telefono, Otil, gli aveva detto che al campo c'era qualcosa da verificare e che questo qualcosa riguardava Gustav Brown. Non era stato così specifico perché tutto aveva fin troppe orecchie, ma lo era stato quanto bastava per farsi comprendere.
La rabbia di Ludwig vibrava. Aveva fin troppi pensieri e troppe persone da tenere a bada; si aspettava quantomeno che i suoi sottoposti si attenessero agli ordini: niente iniziative durante la notte, poche parole che per lui stavano a significare precisione.
In sua assenza doveva rimanere tutto cristallizzato nel tempo, esattamente come lo aveva lasciato prima di fare ritorno a casa. Era così preciso nel suo lavoro che, se il foglio o la penna lasciata sulla scrivania fosse stata anche solo spostata di un millimetro, lui se ne sarebbe accorto.
Molti l'avrebbero chiamata paranoia, estrema dovizia, ossessione, Ludwig la chiamava precisione.
Era da poco in piedi e già suo fratello lo aveva messo in pericolo; senza volerlo è chiaro, ma si era stancato del fatto che nessuno sembrava mostrare la dovuta cautela. Per paradosso, quello più accorto di tutti, dopo di lui, era suo figlio. Forse l'essere diventato padre lo aveva cambiato, lo aveva fatto maturare. Meglio così, si disse.
Così, armato di santa pazienza, come ogni giorno, uscì di casa per dirigersi presso quel luogo che sapeva più di morte che di lavoro. Voleva proprio fare un bel discorsetto a quel ragazzo che, secondo lui, prendeva fin troppe iniziative all'interno di un luogo dove lui non era che un misero operatore, uno dei tanti secondini, un nessuno.
Un nessuno che aveva osato disobbedirgli, molto probabilmente.
Chi lo conosceva sapeva quanto questo gli facesse perdere le staffe, a lui che non le perdeva mai.
Percorsi i chilometri che lo separavano dalla sua casa d'ordinanza, giunse al campo. Accostò con l'auto e, certo di riprenderla in un secondo momento, scese.
Quella mattina non si soffermò a riflettere su quanto quella fosse una macchina di morte, sull'odore acre dell'aria, su quella neve apparente che scendeva ingrigendo la sua uniforme, no. Fendeva l'aria fredda e pungente degli inverni tedeschi con passi ampi e veloci; tutti lo salutavano facendo il saluto d'ordinanza, mentre lui li ignorava.
I prigionieri abbassavano lo sguardo, per loro era solo un altro aguzzino, e chi lo aveva si toglieva il cappello in segno di rispetto; lui non li guardava
Aveva un solo obiettivo, trovare Gustav Brown. E quando lo vide, Ludwig lo intimò: «mi segua nel mio ufficio, subito».
Deve aver saputo cosa è successo la scorsa notte, si disse Gustav, ma come? Come lo aveva scoperto così dannatamente presto?
Deglutì, perché tutto quel trambusto non preannunciava niente di buono. Il colonnello non gli aveva rivolto né saluto, né parola, e non lo aveva fatto con nessuno; il primo alito era stato per richiamarlo.
Gustav seguì Ludwig come da ordine. Osservò le spalle di Ludwig che la porta dell'ufficio per poi fargli strada in quella che sembrava tutto fuorché cortesia. Deglutì ed entrò.
Ludwig si sedette sulla sedia, dietro la sua scrivania, e con un gesto rapido del braccio disse «sieda, prego».
Gustav si sedette. Sapeva di essere nei guai, lo percepiva nell'aria: tutto gli suggeriva un rimprovero; il linguaggio del corpo di Ludwig era chiaro, il colonnello era furioso.
Dalla tasca interna del cappotto, Ludwig estrasse il porta sigarette. Quella volta non avrebbe fumato perché nervoso, ma per distendere la rabbia ormai montata. Accese e poi, dopo un breve tiro, espirò il fumo. «Desiderate una sigaretta?»
Gustav conosceva bene quegli approcci: Ludwig stava cercando di metterlo a suo agio, ma non per davvero; era un preludio di un qualcosa che si sarebbe abbattuto su di lui come un demone, qualcosa di enorme, di pericoloso.
«No, grazie, colonnello, non mi piace il fumo».
Ludwig si fermò per un attimo a osservare più intensamente negli occhi Gustav, il quale avrebbe potuto giurare d'intravedere un enorme disappunto sul visto del colonnello. Aveva anche avuto il coraggio di rispondergli a tono, come se lui fosse superiore nel suo disgusto per le sigarette. «Sa cosa non piace a me, invece?» Le parole di Ludwig saettarono nel breve silenzio che era seguito subito dopo. «I disertori, chi mi disobbedisce dopo aver dato espressamente un chiaro ordine».
«Erano solo degli ebrei», proruppe Gustav, facendo andare ai matti Ludwig che subito capì il punto della situazione.
«Il bambino ha detto che erano solo ebrei»
«Come dice?» domandò stranito Gustav; gli aveva appena dato del bambino, forse?
Ludwig si alzò dalla sedia, mentre muoveva in maniera calma ed elegante il braccio con il quale spostava la sigaretta dalla bocca all'etere. «Dico che siete un bambino, Gustav Brown. Quei "solo ebrei", come li chiama lei, sono forza lavoro preziosissima. Vede, è questa la differenza tra un vero soldato e un secondino di un campo di concentramento; di uno qualunque, di una nullità che crede di servire il Reich solo perché si sbarazza di qualche essere umano. Ma, diciamoci la verità, lei non sa un bel niente di cosa significhi lavorare per il Reich, né di quello che comporti. Lei è qui solo perché trova del piacere sadico e perverso nell'uccidere la gente, nel vederla supplicare, forse... lasci che glielo dica, le fanno anche paura questi ebrei. Si comporta come un cane rabbioso, agisce in maniera sconclusionata, per gioco, per passatempo, quando ho espressamente detto che senza di me nessuno deve morire, perché io devo fare l'appello mattina e sera; e chi è vivo di sera deve esserlo fin quando io non rifarò l'appello il giorno successivo: sono stato chiaro?» domandò Ludwig. Ma non aspettò che Gustav potesse ribatte, proseguì come un fiume in piena, sbloccando quel cumulo di rabbia e nervi che aveva alla bocca dello stomaco.
«Nonostante la sua bravata, voglio farle comunque un regalo: le spiegherò qual è la differenza tra un vero soldato, e quindi di un vero servitore del Reich, e uno spazzino, ovvero ciò che siete...»
una pausa, un'altra sigaretta, poi proseguì: «Il vero soldato capirebbe subito che buone braccia non si buttano alle ortiche. Il buon soldato capisce cosa è necessario che viva e cosa no; se così non fosse, perché sarebbero ancora vivi e perché non ammazzarli tutti insieme? Un buon soldato sa scindere cosa è giusto da cosa è sbagliato, quando uccidere e quando no, chi uccidere e come. Dunque, mi dica, qual è la motivazione che l'ha spinta ad agire in questo modo Herr Brown?» La realtà era un'altra, Ludwig non voleva sapere perché Gustav avesse creato problemi: sia che fosse stato spinto da una motivazione, sia che non lo fosse stato, questi non avrebbe dovuto e basta.
«Vede, colonnello, ho fatto il mio dovere: mi sono sbarazzato degli ebrei, come ci è stato ordinato di fare; e anche alla svelta... o forse lei è contrario a questo».
«Miserabile!» esclamò Ludwig perdendo la calma. «Non capisce, vero? Non comprende cosa significa perdere manodopera nel pieno di una guerra all'attivo. Non c'erano altri detenuti malconci che sarebbero morti comunque con il quale lei avrebbe potuto giocare? Ha ucciso un gruppo di uomini ancora in forze, ancora apparentemente sani. Questo farà ricadere il lavoro su altri che non ce la faranno, quindi tutto sarà rallentato: il lavoro, la produzione, il Reich. Quello che non rallenterà, invece, sarà la morte e il rapporto che io dovrò scrivere a riguardo. Ma dunque, Herr Brown, mi dica perché ha scelto quegli uomini e questa notte, perché proprio quelli; e non dica che sono stati scelti casualmente, perché so che non è così, lo so per certo!» Ludwig spense con rabbia la sigaretta nel posacenere, schiacciandola contro il vetro; forse avrebbe preferito farlo alla testa di Gustav. Seguì il silenzio. «Faccia in modo che non accada più. Le ho espressamente chiesto di essere i miei occhi e le mie orecchie, qui nel campo: non voglio rimetterci né la faccia, né la carriera per un suo colpo di testa. Sa cosa comporterebbe se io le facessi rapporto? Se mandassi agli alti vertici uno scritto dove dichiaro che lei sta minacciando la riuscita della vittoria della Germania? Le lascio immaginare cosa succederebbe. E sa che le dico, che la lascerò con il dubbio: lo capirà da solo, se redigerò quel rapporto o meno. Se ne accorgerà. Nel frattempo veda di comportarsi come dovrebbe comportarsi chi veste la sua uniforme e faccia in modo che io non la richiami più nel mio ufficio. Sono stato sufficientemente chiaro?»
Alle orecchie di Gustav quella sembrò più una minaccia che un ordine. Una scossa gli attraversò il corpo. Che stesse provando paura? Che il Colonello lo avesse spaventato fino a quel punto? No, era il dubbio: l'onta che un rapporto come quello avrebbe potuto seminare sulla sua carriera. Si sarebbe abbattuto come un velo oscuro e ne avrebbe offuscato ogni capacità, ogni medaglia, ogni possibilità di carriera, se fosse davvero stato redatto; e lui avrebbe potuto dire addio alla sua dignità di valoroso soldato del Reich.
«Sissignore, signor Colonnello, non accadrà più, non accadrà più niente di spiacevole di notte o alle vostre spalle».
«Ora, sparisca!» ordinò Ludwig.
Gustav si congedò e Ludwig si lasciò ricadere svogliato e nervoso sulla sedia. Aprì il porta carte in pelle e lo ordinò, pronto per procedere con l'appello del mattino. Una volta capito i mancanti, si sarebbe preoccupato di correggere il tutto e insabbiare la faccenda; non aveva bisogno di altri riflettori puntati sulla sua testa.
Ci siamo avviati verso il ultimo arco narrativo della storia, ho pubblicato 3 capitoli nonostante i due prefissati ogni 6 mesi, ce la posso fare! hahah
Grazie ancora a chi legge e a chi invece intraprende dall'inizio questa lettura.
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