Capitolo 54
Al risveglio, Silas era intorpidito: un freddo così intenso lo aveva provato raramente; lui e Lothar avevano proceduto di buona lena per i giorni a seguire e, raggiunti i pressi di Monaco, si erano indirizzati verso Dachau, dove al momento risiedeva suo padre. Ai suoi occhi non sfuggiva niente, e anche se Lothar cercava di non darlo a vedere era chiaro che, per quanto ben coperto fosse, cominciasse a sua volta a sentire freddo; ma non un freddo normale, un freddo che, in qualche modo, era capace di attraversare chiunque.
In quel momento Silas si alzò dalla sua postazione e, diretto al suo cavallo, assunse un'espressione più mite. Accarezzò Büshel all'altezza del garrese, zona molta apprezzata dai cavalli, e si trovò a riflettere: era grato a quella bestia, più volte lo aveva salvato durante la sua esistenza.
Büshel mosse la testa scrollando la criniera. Un dolce nitrito si liberò nell'aria. «Ti piace, eh?» gli domandò sorridendo; un altro nitrito arrivò subito dopo come a volergli rispondere affermativamente. Vide Lothar con la coda dell'occhio e l'osservò, mentre sistemava le briglie di Incitatus per poi fargli qualche carezza sulla criniera.
Una volta serrate bene le briglie tra le mani, Lothar si voltò verso Silas e gli chiese: «appena siamo pronti, partiamo». Mancava poco alla meta e dovevano razionare cibo e acqua; per quanto riguardava ì propri bisogni corporei, invece, più li avrebbero trattenuti e meglio sarebbe stato.
Silas sistemò la sella di Büshel, mise un piede sulla staffa, dopodiché si diede una spinta con la gamba ancora in terra e salì in groppa al cavallo. «Direi che siamo pronti».
«Perfetto», rispose Lothar salendo sul cavallo con ancora un po' d'impaccio. In quei giorni aveva fatto pratica, ma di certo non poteva avere la stessa abilità di chi faceva equitazione sin dall'infanzia.
**
Ludwig si era recato a casa di Otil curioso di vedere le numerose prove di cui questo si vantava, prove che avrebbero stabilito la sua buona fede. Non si fidava: mai fidarsi della parola di un'SS anche se è di un tuo amico che si parla, anche se hai condiviso con lui delle battaglie! Non lo conosceva così bene, non come conosceva Nail, e di ceto non voleva rischiare: aveva troppe cose cui tenere conto, per non parlare di quel terribile presentimento che lo affliggeva da giorni e che solo l'oppio fumato la sera prima era stato in grado di oscurare; quantomeno gli aveva disteso un po' i nervi.
Bussò alla porta e restò in attesa che qualcuno andasse ad aprire: non sapeva se Otil avesse una domestica o meno. Con sua sorpresa fu proprio lui ad aprirgli. «Ludwig! Che piacere vederti, pensavo non saresti venuto. Ma, prego, accomodati». Gli fece largo spostandosi dall'uscio e lasciando che entrasse.
Qualche passo e Ludwig fu in grado di constatare che neanche Otil aveva una domestica, proprio come lui. Interessante, pensò. Forse aveva davvero qualcosa da mostrargli.
«Come vedi sono qua, purtroppo sono terribilmente curioso», dichiarò seppur la sua presenza parlasse da sola, complice dell sua colpevolezza.
«Ne sono felice, ma vieni, andiamo nella sala, beviamo qualcosa e sentiamo un po' di musica». Otil lo esortò a inoltrarsi nella casa senza indugiare oltre all'ingresso.
«Va bene, bevo quello che bevi tu, per me è uguale».
«Accomodati», gli disse Otil indicandogli una poltrona di pelle marrone scura.
Ludwig si sedette e per un impercettibile attimo chiuse gli occhi. Era in piedi dalle cinque di quella mattina, come sempre del resto, e non gli parve vero: sentì tutta la schiena scaricare il dolore sulla morbidezza della poltrona.
Otil versò da bere nei bicchieri, poi ne porse uno a Ludwig, che lo ringraziò e tornò a scrutarlo nel mentre che trafficava con vari dischi presenti.
Non sembrava musica tedesca, né musica accettata dal Reich, perlomeno così si disse Ludwig. «Davvero vuoi sentire quella musica americana?»
Otil alzò le spalle e rispose: «bisogna un po' rischiare nella vita, Ludwig, sennò che gusto c'è?»
Ludwig lo sapeva bene, ma azzardò ugualmente: «e se ti facessero una perquisizione?»
«Perché mai dovrebbero? Te l'ho detto, se nessuno mi denuncia non ne hanno motivo. Poi, Ludwig, io conosco i vizietti di tutti e quindi, davvero, non gli conviene infastidirmi...» Otil si portò il bicchiere alle labbra per assaporare il liquore: «era proprio quello che ci voleva, sì» disse tra sé e sé.
Ludwig, diversamente, lo mandò giù tutto d'un fiato: non perché fosse agitato o cosa, ma perché aveva proprio bisogno di far assopire il brutto presentimento, quell'angoscia che gli scalpitava dentro e alla quale non sapeva dare un nome.
Poggiò il bicchiere sul tavolino di legno lì accanto e notò delle riviste. «Non ci credo... Queste avranno minimo quindici anni».
«È una delle ultime che hanno stampato prima che facessero chiudere l'Eldorado, bei tempi quelli».
Ludwig non aveva mai comprato riviste che parlavano di omosessualità maschile, ma suo fratello le conservava tutte.
«E tu le lasci così, in bella vista... mi stai prendendo per scemo, è chiaro.»
«So quello che stai pensando, Ludwig: pensi che io abbia lasciato tutto in così bella vista affinché ti potessi fidare e, di conseguenza, aprirti con me; ma non è così, potrei anche considerarmi offeso per questo. Il mio mestiere lo so fare»; gli puntò l'indice contro mentre con la mano teneva il bicchiere.«Dimmi, piuttosto, te ne verso un altro?»
«Sì»: Ludwig non osò rifiutare, non che avesse voluto farlo davvero; mentre gli versava altro Whisky nel bicchiere, si trovò a riflettere una seconda volta: trovava Otil davvero attraente. Certo, lo era sempre stato, ma era possibile che a farglielo notare fosse la mancanza di Aleph, quel qualcosa che era capace di renderlo tanto sensibile. Lo guardava nel suo metro e novanta, in divisa, con le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti e i capelli lisci che, dalla sommità del capo, ancora non impomatati, gli ricadevano sulla fronte quando inclinava la testa; aveva i lineamenti decisi, il naso fino e dritto, e gli occhi azzurri. Sospirò. «Se davvero vuoi che io mi fidi di te, dimmi perché sospettano di me e a quale riguardo».
«Per questo ti ho fatto venire qua: non potevo certo dirtelo al campo, lì poi c'è quel segugio...»
Ludwig rise appena. «Gustav Braun, quel ragazzo è mostruoso, mai visto un assassino così zelante; proprio perché è così zelante gli ho detto di essere i miei occhi e le mie orecchie, cosicché tutto possa filare liscio e non esserci disordini nel campo».
Otil la pensava diversamente a riguardo: «forse vuoi sapere le cose prima che possano ricadere su di te, amico mio» e gli fece l'occhiolino.
Maledetti astuti, pensò Ludwig. «Avanti, dimmi cosa vogliono da me», esortò Otil a parlare.
«Pensano che tuo figlio sia un comunista, che tutta la propaganda circolata negli ultimi anni sia opera sua, e pensano anche che Reinar Wolf abbia un debole per lui, motivo per il quale pare sia stato rilasciato dalla prigione in cui era stato rinchiuso. Pensano che tu stia aiutando tuo figlio in questa missione sovversiva, in fondo quale padre non lo farebbe, e trovano sospetto quel ragazzetto che di tanto in tanto veniva da te... com'è che si chiama? Ah già, Matthias»; Otil come tutti gli altri conosceva solo il nome fittizio di Aleph, quello dei documenti falsi che Ludwig aveva fatto fare per lui.
«Penso che siano davvero molto fantasiosi, ma su Reinar Wolf non posso garantire: è sempre stato un pervertito e il sol pensiero che possa provare cose del genere nei confronti di mio figlio mi da il voltastomaco».
«Lo credo bene», rispose Otil «in compenso trovano molto preparato ed efficiente tuo figlio Salazar, che si è ben destreggiato nella Gioventù».
«Almeno uno su due va bene», ironizzò Ludwig.
«Ti fidi di più, adesso?» gli domandò finendo il secondo bicchiere.
«Forse». Ludwig pensò a un altro argomento per cambiare discorso, «hai ricevuto poi un'altra lettera del tuo amato?»
Una fitta di gioia pervase il cuore di Otil. «Sì, ce l'ho in tasca, la rileggo sempre. Ovviamente gli ho già risposto. Sono felice che sia ancora vivo: sapessi che sollievo, Ludwig».
«Bene, sono felice per te. Ora ti devo salutare, si è fatto tardi e devo tornare a casa».
«C'è qualcuno che ti aspetta?»
«No», mentì. «Sono stanco e domani è un altro giorno di lavoro».
«D'accordo», rispose Otil.
«Non c'è bisogno che tu mi accompagni alla porta, non scomodarti». Con un saluto, Ludwig si congedò; Otil, come promesso implicitamente, rimase lì dov'era e lo vide andarsene: si lasciò cadere sulla poltrona mentre riprendeva tra le mani la lettera del suo amato e sospirò. Infine decise di tornare sui propri passi e si mise a scriverne un'altra, certo che le quattro pagine già buttate già non fossero sufficienti.
**
Natthasol sentendo bussare incessantemente alla porta si insospettì: sapeva che non era Ludwig, lui possedeva le chiavi di casa e quindi doveva essere qualcun altro, ma chi?
Preso il coraggio a quattro mani si fece largo verso la porta, si fermò sulla soglia e fece un bel respiro profondo. Quando l'aprì rimase piacevolmente stupito nel vedere chi fosse.
«Zio!» esclamò Silas entusiasta. Era felice di vederlo e pregustava già una sfilza di dolci prelibati e un bagno caldo.
«Silas, che ci fai qui?» Non si aspettava di vederlo, ma era felice nel costatare che stesse bene; le ultime notizie che aveva ricevuto da Ludwig lo facevano in prigione, dopotutto.
«Sono stato informato da Nail riguardo Castaldia...» gli sorrise, «parlo della precettrice che le è stata fornita e di come tu, zio, l'abbia abilmente mandata via. Volevo vederla, però, e accertarmi che stesse bene».
Lothar era sull'uscio alle sue spalle, lo ascoltava e aspettava di entrare: il bisogno di andare al bagno era impellente, in fondo l'avevano trattenuta per le ultime ore, ma non osava aprire bocca.
«Come siete arrivati fino a qui? Le ferrovie sono quasi tutte andate!» esclamò Natthasol preoccupato.
«A cavallo, zio». Silas fece spallucce, sembrava la soluzione più ovvia ai suoi occhi.
«A cavallo...» bisbigliò Natthasol, «e dove sono i cavalli?»
«Li ho legati qui fuori. Ho visto che avete una piccola scuderia e li ho lasciati a rifocillarsi con un po' di fieno e acqua lì all'abbeveratoio».
«Capisco, va bene, mi racconterete l'avventura più tardi»: annuì e disse «adesso entrate, immagino che sarete stanchi».
Castaldia era in salone, ma nonostante la distanza aveva ben riconosciuto la voce di suo padre e, con un piccolo salto era saltata giù dal divano per atterrare sui palmi delle mani. «Colpa di questo vestito!» pensò e borbottò tra sé nel tirarsi su con l'abilità che contraddistingueva i bambini di cadere e rialzarsi come niente fosse. Intravedendo Silas, corse verso la porta e si affrettò a raggiungerlo.
Questi riconobbe la sua bambina e si piegò sulle ginocchia. Pronto ad abbracciarla, spalancò le sue braccia.
«Papino!» esclamò lei piombandogli addosso.
Non arretrò d'un millimetro e, anzi, la sostenne. Sentirsi stringere dalle sue piccole braccia e vederla sorridere gli fece passare tutta la stanchezza. In un attimo gli si colmò il cuore di gioia e perfino la rabbia verso Lothar, che lo aveva costretto a scappare momentaneamente da Berlino, scemò.
Arrivare a Monaco in cinque giorni per vedere la sua bambina era la motivazione che lo aveva spinto a resistere alle intemperie del viaggio: cominciava davvero a capire suo padre e allo stesso modo comprendeva le sue preoccupazione, la forza che lo animava ogni giorno, il coraggio e sopratutto la prevenzione con la quale compieva ogni azione. Non una vita possedeva nelle sue mani, Silas, ma molte, proprio come suo padre.
«La mia dolce bambina!» le disse e la riempì di dolci e frettolosi baci sulle guance.
Il cuore di Lothar sembrò come sciogliersi di dolcezza e lui senti un calore invaderlo all'altezza del petto: come poteva resistere a tanto amore paterno, un sentimento pressoché sconosciuto, che lui non aveva mai provato. Sì, aveva un padre, ma non era mai stato così affettuoso e, anzi, sembrava quasi volesse rivivere una seconda vita, una vita migliore, attraverso di lui. Si accorse che era anche per quello che amava Silas.
«Dimmi, Castaldia, ti piace il mio nuovo taglio di capelli?»
Lei smise di ridere all'istante e con sguardò attento lo scrutò. Strinse gli occhietti, sul suo volto si dipinse un'espressione pensierosa, e con questa enunciò il verdetto: «bello, sì, ma prima erano belli e lunghi»; trascinò quelle parole inserendo una quantità spropositata di i e di u.
«Sei proprio una figlia del male!» disse scherzoso. Si tirò su e la prese in braccio: cominciavano a dolergli le ginocchia e quella posizione risultava parecchio scomoda dopo un viaggio di cinque giorni a cavallo.
«Sai, papino, lo zio Natthasol è bravo a fare i codini, ma non come te. Me li fai?» gli domandò mettendosi sul volto un'espressione di disperazione, come a volerlo convincere.
«Certo che te li faccio, ma prima papino deve fare pipì!» le disse.
Silas mosse qualche passo verso la strada indicatagli dallo zio per il bagno, Lothar lo seguì bramando quel gabinetto vero che per giorni aveva solo immaginato e Castaldia, con il terrore di poter essere di nuovo separata dal padre, gli si artigliò al collo. Restò così fino al salone, laddove fu messa a sedere da Silas, e inutile dire che in un attimo scomparvero sia lui che Lothar. Si lanciarono come razzi nella direzione tanto attesa, ma fu Silas che, con uno scatto felino, varcò per primo la soglia. Si liberò del fardello che aveva portato ore e non gli sembrò vero di trovarsi con la vescica vuota senza aver scavato una buca in mezzo alla neve. Fatti i suoi bisogni sorrise soddisfatto e felice in una beatitudine quasi infantile, impossibile da comprendere per chi non ha mai trascorso in agonia dei momenti simili. Utilizzata la carta si rivestì, lavò le mani, uscì e cedette il bagno.
«Finalmente!» sì lamentò Lothar.
Silas fece spallucce. «Che posso farci? Ne avevo tanta».
«Ho rischiato di farmela sotto», commentò Lothar chiudendo la porta alle sue spalle. Finalmente un po' d'intimità.
**
«Papino, papino!» Castaldia lo chiamò appena lo intravide fuori dal bagno e lui, da bravo padre, non poté fare altro che seguire la voce della sua bambina.
«Eccomi, eccomi, sono pronto per sistemare questi capelli ribelli in due splendidi ed esemplari codini!» disse alzando le mani e muovendo le dita come se si stesse preparando per cominciare un'operazione.
Castaldia si tirò su in piedi, anche se sul divano affondava un po'. «Castaldia, levati le scarpe per salire in piedi sul divano», le spiegò; e lei, obbediente a modo suo, si lanciò a sedere. Cercò di togliere alla bene e meglio le sue scarpette bianche con gli occhielli, rimanendo solo con i calzini dal bordo merlettato, dopodiché si rimise in piedi. Senza neanche una spazzola, con la bravura che ci si aspetta da chi compete da anni con i capelli lunghi, Silas districò la chioma bionda con le sole dita e la separò in due metà simmetriche. Al centro, una riga perfetta. Tirò i capelli mossi, leggermente abboccolati, della sua bambina, poi li legò in due codini con il nastro che aveva sciolto poco prima.
Castaldia prese a muovere felice la testa come per mettere alla prova i codini, e felice che fossero fatti come lei desiderava, come solo lui sapeva farli, disse: «grazie, papino».
«Prego, angelo mio», le rispose; poi la curiosità lo pizzicò: «dimmi, Castaldia, ma perché ti piacciono tanti i codini e non le trecce?»
«Perché le trecce sono da femmina». Non aggiunge altro.
Quell'affermazione lo spiazzò momentaneamente e si disse che avrebbe indagato più a fondo sulla cosa, cosa voleva dire con "sono da femmina"? Lei che cos'era, se non una femmina?
«Silas, hai fame?» La voce di suo zio lo ridestò da quel pensiero che ora occupava tutta la sua mente.
«Da morire, zio».
«Allora tu e Lothar venite in cucina, così posso rifocillarvi. Sto aspettando anche Ludwig, veramente. Ho preparo la cena.»
«Sono arrivato giusto in tempo, allora», commentò Silas. «Aspetto Lothar, che pare sia caduto nel bagno, e poi ti raggiungo, zio»; in quel momento Castaldia si mise a ridere di fronte all'immagine di Lothar caduto dentro il bagno.
Si udì il rumore delle chiavi, il suono della serratura dell'ingresso, a seguire i passi di Natthasol che si facevano più lontani.
«Bentornato, Ludwig», gli disse sorridendo, «c'è una sorpresa». Gli prese il cappotto e lo appese all'attaccapanni vicino.
«Spero sia una bella sorpresa».
«Bellissima, vedrai: vai in salone», lo incoraggiò Natthasol.
Incuriosito Ludwig si mosse in quella direzione, quand'ecco che vide suo figlio e, di colpo, ogni ansia e ogni bruttò pensiero svanì. Stava bene, quello era l'importante.
«Ciao, papà», lo salutò Silas tirandosi su. Fu sorpreso dall'abbracciò di Ludwig, che lo avvolse all'improvviso e gli mozzò ogni parola in gola. Suo padre non era avvezzo a simili manifestazioni d'affetto: non le ricordava, era sempre stato un uomo che mostrava il suo amore con la sola presenza e gli sforzi; in quei giorni, si disse, doveva essere stato davvero in pena per arrivare a tanto. Lo abbracciò di rimando e gli disse «sto bene, non ti preoccupare».
Mai parole furono più liete per Ludwig.
«La cena!» annunciò Natthasol.
«Vieni, andiamo a mangiare, sicuramente avrai fame», gli disse Ludwig; e finalmente poterono consumare il pasto, dato che Lothar si era degnato di uscire dal bagno.
**
Dopo un'estenuante giornata di lavoro, Gustav, si era ritirato nel suo dormitorio. Condivideva uno stanzone con gli altri secondini del campo. Ognuno di loro aveva un letto, un comodino e un armadietto. Non era un alto ufficiale e non possedeva più di quello. Per tutto il giorno aveva lasciato la propria posta sul comodino, si era detto "prima il dovere e poi il piacere", non aveva ancora visto mittente, nulla. Immaginò soltanto che fosse l'ennesima lettera della sua fidanzata che aveva lasciato a Monaco, pochi chilometri da lui.
Si tolse la giacca della divisa e, non riuscendo più a trattenersi, si sedette sul letto e prese la lettera in mano: il mittente era sempre lo stesso indirizzo, ma la firma non era quella sua fidanzata, bensì quella della madre.
Un sentimento di preoccupazione cominciò a farsi largo in lui, così aprì la busta frettolosamente e stese bene il foglio per leggerla. Un solo foglio, prevedeva poche parole e sperava non fossero così crudeli.
"Caro Gustav,
Quanto sto per dirti so che ti suonerà crudele, ma purtroppo non posso negare quanto accaduto.
Io stessa, mentre scrivo questa lettera, faccio fatica a crederci, sono ancora scossa e incredula.
Ho pianto tre giorni prima di riuscire a scriverla, ma Otti, la nostra cara e amata Otti, non c'è più".
Scorreva quelle lettere, impossibilitato nel convincersi di quanto stava leggendo, così le rileggeva, ancora e ancora, non riuscendo ad andare avanti. Il petto gli faceva male, gli occhi gli prudevano. Cosa gli stava succedendo? Lui che non provava emozione alcuna, almeno così si era convinto, provava qualcosa?
"Una brutta febbre l'ha colpita".
Proseguì scorrendo frenetico quelle brevi frasi, lettere che si susseguivano come lame e che infierivano una ferita a ogni punteggiatura.
"Stiamo stati sempre con lei, l'abbiamo accudita, abbiamo fatto tutto quello che ci ha consigliato il medico. Le abbiamo dato i medicinali prescritti, eppure non ce l'ha fatta. La distanza da te l'ha resa debole. Mi ha pregato, inoltre, di riportarti il suo ultimo messaggio per te visto che non potrà più scriverti.
Ha detto: di a Gustav che lo amo e che non è così crudele come pensa".
Il petto gli si squarciò in due, il cuore sembrò come impazzito, scalpitante, preso da un movimento convulso. Le lacrime bagnavano quell'unica pagina che era messaggio di morte.
"Non premunirti a venire, le abbiamo già fatto il funerale ed è stata sepolta. Abbiamo agito in fretta perché sia a me che a mio marito arrecava troppo dolore".
Infine la firma: Adelheid.
«Oh che tu sia maledetta Adelheid!» imprecò Gustav. Lo avevano privato di tutto, chiaro segno che in realtà lo odiassero, che a loro non piaceva, che non era adatto per la loro figlia. Eppure, si disse, era un perfetto ariano, conduceva il suo lavoro con zelo e maestria, era la perfezione secondo il regime; non per tutti sembrava così. «Otti», singhiozzò stringendo le mani al petto, quelle stesse mani che serravano la lettera di Adelheid. Le lacrime presero il sopravvento sul suo controllo. «Otti», disse ancora accasciandosi in avanti per il dolore. Serrò la bocca, non voleva cedere ai lamenti del pianto e soffocò un urlo di dolore. Tossì tanto era il disgusto che provava per Adelheid e per la sofferenza arrecatagli dalla morte e dall'impossibilità di rivederla almeno un'ultima volta.
Si batté i pugni sulle ginocchia e urlò, incapace di resistere. Fu un urlo breve, straziante, rancoroso.
Decise che il giorno dopo avrebbe chiesto un congedo al colonnello Dubois per andare a Monaco e cercare la tomba della sua Otti: se non poteva vedere lei, avrebbe almeno visto la lapide.
Così, incapace di prendere ormai sonno, arrabbiato e furioso, prese la lettera, ne fece una pallina di carta e la gettò nel cestino della camerata per poi uscirne totalmente rivestito, in divisa.
Avrebbe fatto respirare nel campo tutto il suo odio, la sua rabbia e il suo rancore.
**
Note: ho promesso due capitoli della Ballata a semestre ed eccone il primo. Come vedete manca il banner ma non temete, appena riavrò possesso definitivo del PC lo rimetterò.
In alto manca anche la poesia, ma non ne ho trovata una adeguata, appena la trovo metterò anche quella, non ho voluto ritardare con la pubblicazione a causa di questa.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro