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Capitolo 52


Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo.

Frase incisa in trenta lingue su un monumento nel campo di concentramento di Dachau

Ludwig si era svegliato con quella bruttissima sensazione in corpo e non aveva più preso sonno: non che la cosa lo stupisse, ormai era abituato a dormire pochissimo. Si alzò, dunque, e andò ad affacciarsi alla finestra per cercare un po' di ristoro in quello che poteva essere l'immagine della natura; ma appena mise fuori il naso, si ricordò dov'era. Quella non era la sua amata Berlino e lui si trovava a Dachau, in mezzo al nulla; a pochi passi da quel campo di concentramento che, per primo, aveva fatto prigioniero lui.
Si sentiva soffocare. Il cielo del mattino non sembrava voler dare spazio alla luce e, plumbeo, era coperto da una leggera foschia, che non lasciava il passo al sole.
Non poteva iniziare peggio.

 
Per non starsene con le mani in mano e scacciare quei pensieri, si rifece il letto: perfetto, senza una piega, nulla fuori posto. Almeno su qualcosa riusciva ancora ad avere il controllo, mentre tutto sembrava sfuggirgli di mano. Sospirò, afflitto. «Se il buon giorno inizia dal mattino... non oso immaginare cosa mi aspetterà», bofonchiò tra sé e sé, mentre un sorrisetto gli si dipingeva sul volto nella contemplazione della bellezza del suo letto.

Si diresse in cucina, del tutto desideroso di bere un caffè; nero, amaro, intenso, che lo svegliasse definitivamente da quel torpore emotivo.

Entrò pensando di non trovare nessuno, quando, sentì: «Buongiorno, colonnello».

Jacob era sveglio, seduto al tavolo della cucina.
Avrebbe voluto rispondergli che non era affatto un buongiorno e, anzi, che era una mattinata orribile; ma poi si ricordò di essere un uomo educato. «Buongiorno a te. Sei già sveglio? Come mai?».


«Non ho proprio dormito, in verità. Quando ero al campo mi addormentavo per lo sfinimento e qui, appena chiudo gli occhi, sono pervaso dagli incubi, che mi fanno ridestare».


«Non dirlo a me, so bene di che sensazione si tratta». Ludwig si massaggiò le palpebre, tramortito da quel sonno che non lo abbandonava, ma che non lo faceva neanche riposare.
«Cosa la turba, colonnello?», domandò Jacob, preoccupato per l'uomo che lo aveva tratto in salvo.

 
«Non ho un sonno tranquillo dal 1918, penso. Finché ero in trincea dormivo e non dormivo e quando ci riuscivo, proprio come te, crollavo per lo sfinimento; poi sono tornato, mi sono lasciato una scia di morti alle spalle e ho smesso di contarli il terzo mese del 1914. Ho provato a fare ammenda per ognuno di loro, che fossero nemici o compagni. Non sapevamo neanche perché la combattevamo quella guerra. Poi c'è stata la spagnola, sono sopravvissuto e alla fine sono riuscito a sposarmi. Ho vissuto sereno i primi due anni, poi di nuovo l'incubo... E questa guerra, Jacob? Non so perché porto questa divisa. Sono quasi certo di essere stato assegnato a questo campo per un sinistro disegno del destino... e non so nemmeno perché ti sto raccontando tutto questo».


«Forse ne ha bisogno, colonnello».


«Per favore, chiamami Ludwig: stiamo dividendo la stessa cucina, lo stesso caffè», Ludwig gli porse una tazza, «non c'è differenza tra noi, Jacob.»


«Per gli altri c'è una grande differenza tra me e te, Ludwig. Io sono ebreo e tu un colonnello delle SS».


Ludwig fece spallucce, «Ma abbiamo gli stessi incubi. Per tutto il resto, sono solo aggettivi, titoli, nomi affibbiati da altri. Io vedo due uomini, Jacob, il resto non conta. Ebreo o non, non fa differenza. Almeno per me».


«Ludwig, sei una brava persona». Jacob gli sorrise.


«Ti ringrazio, spero di esserlo veramente».

«Vuoi davvero andare a cavallo fino a Dachau, Silas?», sbottò Lothar, strattonato da lui fuori casa.


«Hai altre alternative? Ti faccio un veloce riepilogo, così ti puoi rendere conto di quanto è successo a causa della tua impulsività...».


Lothar sospirò.


«... sono uscito dalla prigione per non so quale grazia divina, tralasciando le intenzioni di Reinar tra l'altro. Adesso ci troviamo a essere non solo dei rivoluzionari, dei partigiani sotto mentite spoglie, ma siamo anche dei fuggitivi. Questo perché tu hai pensato bene di ammazzare quel figlio di puttana; che, indovina un po', hanno visto uscire con me. Ora non possiamo usare la ferrovia e non possiamo passare per i posti di blocco: vuoi fartela a piedi? Hai un'idea migliore?».
«No, hai ragione. Ma sono preoccupato: quanto resisteranno i cavalli? E poi io non sono mai andato a cavallo!».


«Basta che il cavallo ti creda padrone della situazione. Sarà lui a portare te, non ti preoccupare; e poi non eri il campione di atletica a scuola? Non fai pugilato? Avrai un minimo di equilibrio».


A detta di Lothar, Silas era davvero furioso e quella volta non gli sarebbe passata tanto facilmente. «Adesso pensiamo ad arrivare al maneggio, poi cercherò di cavarmela in qualche modo», gli rispose senza sentenziare oltre.


«Bravo, vedo che riusciamo a capirci».

Silas e Lothar avevano raggiunto il maneggio senza troppe difficoltà, nonostante si guardassero attorno circospetti a causa di ciò che avevano fatto. Cercare di passare inosservati era il primo passo: certo, Silas spiccava in altezza; ma l'essersi tagliato i capelli faceva si che non si notasse così facilmente.

«In quel sacco che ti sei portato c'è qualcosa da mangiare?», domandò Lothar, preoccupato per il loro viaggio.


«Certo, cosa pensi che sia scemo? Dobbiamo viaggiare cinque giorni. Ho portato acqua e qualcosa che resiste almeno per qualche tempo: se rimaniamo digiuni un giorno, sopravviveremo lo stesso».


«Sicuramente», affermò Lothar, con lo stomaco che già brontolava.


«Siamo quasi arrivati; anzi, spero di trovarlo ancora intero il maneggio». Per fortuna, quello, essendo di appartenenza di Ludwig, nessuno lo aveva toccato. E Büschel nitrì non appena riconobbe Silas. «Büschel!», lo chiamò questi, il tono squillante per la felicità. Gli sembrava l'unica cosa bella, l'unico che potesse rallegrarlo in un momento simile; quanto a Lothar, doveva mandare giù quella situazione. Era certo che presto o tardi gli sarebbe passata, ma l'idea di rischiare la vita e non poter rivedere più i suoi bambini lo turbava alquanto, motivo per il quale si sarebbe allungato un po' il suo risentimento.


Così si avvicinò al muso del cavallo, posò una mano su di esso e lo accarezzò piano, felice di rivederlo. Accostò anche la testa sul suo collo muscoloso, dopo essergli girato attorno.
A dire di Lothar, ci avevano messo un attimo a entrare nel maneggio. Silas aveva puntato dritto alla stalla, per aprire ciò che lo teneva separato dal cavallo; questo gli strappò un sorriso: era davvero unito a Büschel, così pensò, tant'è che gli parve di vedere un bambino.
Dopo una giusta quantità di coccole a Büschel, Silas cominciò a sellarlo in modo da poterlo preparare al più presto.


«Il mio cavallo quale sarà?», domandò Lothar.


Silas sorrise sghembo.


«Quella faccia non mi piace, Silas. Stai preparando una vendetta, lo so!». Immaginava già un cavallo imbizzarrito e diffidente, che lo avrebbe disarcionato innumerevoli volte.


«Cavalcherai quello di Ludwig, se riesci a montarlo...», fece spallucce.


«Silas, sei impazzito? Io non sono mai andato a cavallo! Adesso dovrei cavalcare quello di Ludwig?»


«Sì, e ci devi pure stare attento».


«In che senso?», Lothar preoccupato si crucciò: temeva il peggio.


«Ludwig ci tiene molto a quel cavallo, come io tengo a Büschel, quindi ci devi stare attento».


«Silas, tu mi vuoi morto...».


«Se ti avessi voluto morto, pensi davvero che ti sarei venuto dietro per tutti questi anni? Non sono il tipo che rincorre le persone».


Colpito e affondato, pensò Lothar. «Sì, questo è vero, hai ragione, ma resta il fatto che io non sappia cavalcare e non abbia nemmeno antenati condottieri come te: non ho mai neanche provato a salire su un cavallo».


«Ma non essere così preoccupato, c'è sempre la prima volta». Silas gli fece l'occhiolino, e Lothar quasi non si sentì andare a fuoco. Perché, di nuovo, quell'allusione in un momento del genere?
Nel frattempo aveva finito di sellare Büschel e lo aveva condotto fuori dalla sua stalla: ora toccava a Lothar. Silas lo condusse dal cavallo scelto, anche perché era l'unico a disposizione.
Allora Lothar si trovò di fronte a un bellissimo esemplare dal manto nero e la folta e ondulata chioma corvina, con le zampe lunghe e resistenti. Rimase ammaliato, ma spaventato allo stesso tempo. «Questo è un frisone?», domandò, con la speranza di aver indovinato la razza.


«Sì, lo è: non trovi sia bellissimo? Allora hai imparato qualcosa in America, a parte coltivare le piante e ricercare l'oro».


Lothar si oscurò. Alzò un sopracciglio e incrociò le braccia al petto, chiedendosi per quanto ancora avrebbe dovuto incassare quelle frecciatine.


«Ho capito, ho capito», Silas alzò le mani in segno di resa, «Ora devi cercare di convincere il cavallo a essere il tuo destriero; e tu il suo cavaliere, ovviamente. Non avere paura: se il cavallo percepirà la paura ti reputerà meno di una nullità, specie quello di Ludwig».


Lothar annuì e seguì le indicazioni di Silas, lo ascoltò ancora:


«Fai così», disse, «avvicinati e lascia che ti annusi, che ti conosca. Quando porgerà il collo di lato, accarezzalo e fagli vedere le briglie, nota se fa storie o se rimane fermo... a quel punto prova a mettergli le briglie», si fermò. «E, prima che lo dici, lo so: non hai mai messo briglie. Ti aiuterò io».


«Come si chiama questo cavallo?», fece di rimando.


«Incitatus, come il cavallo di Caligola».


«Ottime premesse», ironizzò Lothar.


«Quante storie, è solo un nome! Adesso prova, su, sennò nemmeno tra un mese arriveremo a Monaco».


Lothar si avvicinò al cavallo guardandolo serio, non minaccioso ma fiero. Il cavallo lo percepì e fece qualche passo indietro, perché stava invadendo il suo spazio.


Silas gli lo incoraggiò, «Avanti,» gli disse, mentre Lothar avanzava ormai molto vicino a Incitatus.


Questo, rassegnatosi al poco spazio e non potendo alzarsi per spazzarlo via con un possente calcio degli zoccoli, si arrese e cercò di capire con i suoi sensi se Lothar fosse una persona degna di poterlo avvicinare. Conosceva il cuore del suo padrone, il suo respiro e il suo dolore, perciò Lothar doveva esserne altrettanto degno. Poco dopo Incitatus mosse il muso e quasi toccò Lothar, il quale colse l'occasione per poggiargli contro una mano.
Lo accarezzò e poi provò a parlargli, così come aveva visto fare a Silas poco prima: «Sai, Incitatus, ho messo nei guai Silas... e adesso devo salvarlo. Conto su di te per poterlo aiutare, per portarlo da Ludwig e dalla sua bambina. Silas vuole raggiungere suo padre e la piccola, ma per farlo ha dovuto lasciare a casa suo figlio. Quindi, ti prego, Incitatus, fidati di me».


Incitatus percepì la profonda sincerità del cuore di Lothar e gli lasciò fare la fatidica domanda: «Posso metterti le briglie e avere l'onore di cavalcarti, Incitatus?».


Con suo sommo stupore, il cavallo annuì con la testa e fece ondeggiare la sua criniera. A quel punto Silas diede le briglie a Lothar: doveva essere lui a montarle, quanto meno a farle passare per il muso; poi, al resto avrebbe pensato Silas.

Silas aveva condotto all'esterno Büschel, tirandolo per le biglie e lasciando che Lothar facesse lo stesso con Incitatus, il quale lo seguì senza fare storie; almeno questo era in grado di farlo, così pensò.

«Ora arriva la parte difficile: ti faccio vedere come si fa e poi scendo per aiutarti». Per quanto Silas si fosse mostrato severo nei suoi confronti, gli stava insegnando come salire a cavallo. «Allora: metti un piede sulla staffa e poi ti dai una spinta con l'altro piede. Certo, per me che ho le gambe più lunghe sarà più facile...».


Lothar scosse la testa: ecco che ripartiva alla carica per punzecchiarlo.
Mentre glielo spiegava, Silas si era posizionato alla sinistra del cavallo; Lothar cercò di copiare passo passo i suoi movimenti. «Adesso, devi afferrare le redini con la mano sinistra e poggiarle sul collo del cavallo».


Incitatus fece la sua parte rimanendo immobile: aveva intuito che quella fosse la prima volta per Lothar.


Quest'ultimo prese le retini e, come spiegato, procedette.


«Alza la gamba sinistra, poggia il piede sulla staffa e avvicinati al cavallo con la destra».
Lothar lo fece: lo seguiva meticolosamente. Voleva riuscirci, non voleva sfigurare né davanti a Silas né davanti a Incitatus, che gli aveva mostrato fiducia. Se era stato in grado di sparare a Reinar, sarebbe dovuto esserlo anche di salire a cavallo.


«Appoggia la mano destra sul pomolo della sella», continuò Silas.


«Fatto», rispose Lothar.


Silas annuì, «Spingiti verso l'alto facendo leva con la gamba sinistra e mantieni il busto dritto». In quella posizione, Silas doveva sbrigarsi; così procedette nella spiegazione senza indugiare oltre: «Fermati un istante con la gamba destra tesa, senza avere fretta di scavallare con l'altra gamba. Poi, quando ti senti pronto, scavalla con la gamba destra. Attento a non colpire il cavallo, o la sella, e siedi delicatamente. Devi essere una piuma. Stai comodo, ma dai anche il tempo a Incitatus per diventare un tutt'uno con il tuo peso».


Lothar seguì veloce le direttive di Silas e, senza neanche accorgersene, compì il miracolo: montò a cavallo per la prima volta nella sua vita; una sensazione inebriante, a dirla tutta. Scoprire di esserci riuscito da subito lo rese estremamente felice. «Grazie, Silas».


«Bravo! Ora metti il piede destro nella staffa». Vide Lothar sbilanciarsi leggermente con la schiena e Incitatus muovere un passo. «Non sbilanciarti con la schiena», lo ammonì dall'alto della sua postazione. «Devi restare dritto, è importante, perché ora arriva il bello: devi guidare il cavallo!».


«Silas così non mi aiuti!».


«Ma se ti ho aiutato fino adesso!».


«Va bene, dimmi come farlo muovere». Lothar si sentiva pronto, anche se un po' in apprensione. Cercò di rilassarsi, però, perché ricordava quanto gli era stato detto prima.


«Allora: il busto deve stare eretto... e lascia andare le spalle un po' indietro».


Lothar si sistemò per bene, cercando di essere il meno goffo possibile, per non infastidire il cavallo. Lasciò quindi andare le spalle e mantenne la schiena dritta: tutti quegli anni di pugilato erano valsi a qualcosa! Aveva muscoli sufficientemente robusti da evitare che si stancasse troppo.


«Tieni le ginocchia attaccate alla sella e, con i polpacci, senti leggermente la groppa del cavallo. Sono loro che lo guideranno, servono a dargli i vari segnali; e mi raccomando, tieni le redini ben salde e lascia il morso morbido, o altrimenti farai male al cavallo», Silas lo pizzicò per via di una postura sbagliata, «Ma non tenere i polsi così, devono essere leggermente arcuati all'altezza del garrese!».


«Che diavolo è il garrese?», gli domandò Lothar, che cominciava a sentirsi un trapezista più che un cavaliere.


«È quella, guarda», indicò, «è la zona d'incontro tra collo e scapole».


«Ah, ho capito!».


Silas lasciò che Lothar prendesse posizione.


«Ora che sei pronto, ti spiego brevemente come dargli l'andatura, ma poi dobbiamo andare, Lothar, quindi ascoltami bene: per dargli il comando di muoversi, devi dare un colpetto con i polpacci alla groppa. Se vuoi aumentare la velocità, invece, basta che fai pressione con le gambe e lui capirà. Per guidarlo e per regolare l'andatura servono le redini: un colpo al morso e lo fermi, ma tu devi inclinare leggermente la schiena; e senza esagerare. Tutto chiaro?».


«Sì, la teoria è molto chiara», rispose «ma manca la pratica». A Lothar sembrava quasi un'automobile vivente quel il cavallo.


«Ora lo vediamo subito». Silas incitò Büschel al galoppo, e questo partì all'istante; Lothar, alla bene e meglio, fece altrettanto per evitare di perderlo di vista: senza neanche rendersene conto, era partito e seguiva Silas.

 
«Hai visto, Lotthy? Vai a cavallo!».


Lothar si fermò un secondo a pensare: se prima avrebbe voluto maledire Silas, in quel momento comprese che ogni sua avventatezza era stata una mano santa: in fondo gli aveva evitato tutto il suo rimugino. E lo sapeva: se non fosse stato così, invece di far partire il cavallo, lo avrebbe fatto piantare come un mulo!


L'intento di Silas era quello di far procedere Lothar senza troppe esitazioni e senza nemmeno uccidere il cavallo; così, come gli aveva spiegato poco prima, tirò leggermente le briglie e si fletté all'indietro. Büschel rallentò di conseguenza e Lothar, quando lo vide arrestarsi, provò a dare lo stesso comando a Incitatus.


Correva troppo, agitato quanto lui, perciò agio automaticamente e lasciò che il corpo si muovesse per istinto. Grazie al cielo ci riuscì, perché durante la spiegazione era stato attento e il cervello aveva assimilato bene tutto il da farsi. Fu meccanico e arrestò Incitatus, per poi spronarlo a un leggero trotto.


«Hai la vaga idea di dove andare adesso?», domandò Lothar.


«Da ragazzino, con Büschel sono andato in lungo e in largo: conosco ogni scorciatoia, vicolo, o sentiero».


«Da ragazzino? Perché adesso cosa sei?», Lothar giocò al rilancio delle battutine, sperando di vendicarsi, per quelle ricevute prima.


«Adesso sono un bellissimo ragazzo padre che siede su un cavallo e che sta cercando di mettersi in salvo, dopo che il suo ragazzo lo ha quasi condannato a morte».


«Perché te l'ho chiesto?». Aveva tentato di fare lo stesso gioco di Silas, ma ne era uscito vinto.
Silas rispose con un sorrisetto e scrollò le spalle. «È la verità».


«Va bene, senti... conducimi per il sentiero, il viottolo, o la strada da percorrere, che voglio arrivare a Monaco prima possibile».

 
«Adesso hai fretta?», gli domandò retorico e spronò di nuovo Büschel al galoppo, costringendo il poco pratico Lothar a seguirlo.



Per quanto odiasse quel lavoro e il campo dove era stato relegato, Ludwig era costretto a tornarci giorno dopo giorno: Dachau gli pareva la punizione più orribile riservatagli dal karma; eppure, in un certo qual senso, era anche fortunato, perché poteva uscire ed entrare a suo piacimento! Era lo stesso prigioniero, però, come tutti gli altri: le sue catene erano morali, anche se non fisiche.
Quel mattino sembrava andargli incontro come una lieve tregua: il sole cominciava a mostrarsi, anche se non caloroso; era pur sempre uno spiraglio di luce nel grigiore che lo permeava, così volle dirsi.


Puntuale, dopo l'Aufstehen, si era già posizionato al centro dell'Appellplatz, con l'elenco dei detenuti. Pronto per l'appello, sempre: ogni giorno, mattina e sera. Doveva fare quel conteggio, anche se erano sempre di meno a rispondere. Non di certo perché riuscivano a fuggire, ma perché, in un modo o nell'altro, questi venivano falciati via; che fosse causa della camera a gas, o del nervosismo della SS di turno, non importava. Ogni nome in meno che Ludwig pronunciava era una lacrima di cui non poteva liberarsi.


Li ricordava tutti a memoria, come una sorta di punizione auto-inflitta, e ripeteva ossessivamente quei nomi nella sua testa: ognuno di essi era una frustata al cuore.
Quel giorno, però, ebbe un'idea: fu un istante, un lampo a ciel sereno, quello che gli baluginò in testa, mentre i prigionieri abbassavano e sollevavano il berretto al passaggio di Gustav Braun; il terrore di Dachau, così lo chiamavano.

 
E lui, di quel nome, andava fiero: nella sua concezione doveva aver lavorato davvero bene e sodo per meritarsi tale appellativo degno di nota.


«Le leggo i nomi», disse Ludwig, sapendo che Gustav li avrebbe urlati; avevano appreso bene, però, che non avrebbero dichiarato la reale identità dei prigionieri, ma solo numeri cui erano collegati.


«Certo, colonnello!», era entusiasta d'iniziare una nuova gloriosa giornata di lavoro che avrebbe contribuito alla grandezza della sua nazione, ripulita da sporchi parassiti di ogni genere. A lui, Dachau, piaceva proprio. Non c'erano solo ebrei, ma tutta la marmaglia che il suo Nazionalsocialismo considerava indegna.


Finito l'appello, prima che Ludwig potesse congedare i prigionieri alle loro mansioni, si avvicinò a Gustav e gli comunicò parte del suo piano: «Può inviarmi i prigionieri a gruppi di dieci?», fece, «Me ne manderà dieci ogni mezz'ora: voglio esaminarli uno a uno e assegnare mansioni adeguate per ciascuno».


«Sarà fatto colonnello». Gli parve una richiesta strana, perché le selezioni erano già state fatte all'arrivo; tuttavia gli sembrò legittimo, poiché la situazione, in quel luogo, cambiava velocemente. In fondo riconosceva il profondo impegno che Ludwig dedicava al suo lavoro, non aveva nulla da ridire.

Al rientro nel suo ufficio Ludwig tolse il berretto militare, con il teschio in bella vista, e lo poggiò sulla scrivania. Si sedette sulla sedia e aspettò che Gustav cominciasse a inviargli i detenuti: ogni stück avrebbe trovato un posto nel suo campo, in casi disperati la morte.

Sospirò pesantemente, deciso a scrollarsi di dosso un po' d'angoscia. Si massaggiò le palpebre degli occhi premendo su queste appena. Aveva una vaga cefalea dovuta alla scarsa quantità di sonno e agli incubi che lo tormentavano. Per non parlare dell'ansia che lo assaliva: quel brutto presentimento avuto al risveglio non lo abbandonava.


Alla realtà, però, lo riportarono i rintocchi delle nocche contro il legno della porta. «Avanti», rispose atono. Doveva ritrovare la concentrazione: a casa si sarebbe potuto permettere distrazioni, perfino di restare muto, qualora lo volesse; ma non lì, se voleva salvare se stesso e restituire una parvenza umana agli altri.


Ad entrare fu il primo prigioniero che teneva lo sguardo basso per paura d'incrociare quello di Ludwig, non voleva rischiare di essere fucilato, non poteva conoscere le intenzioni di chi aveva davanti.


A seguirlo, Gustav, «Ecco il primo, colonnello, gli altri nove sono in fila: attendo fuori che esca il primo, per far proseguire la fila».


Ludwig annuì e Gustav abbandonò la sua postazione.
«S'identifichi, prego», Ludwig si rivolse al prigioniero e si accorse di quanto fosse terrorizzato: segno che era arrivato li da poco.


«43567J». Il numero gliene diede la conferma: era stato portato a Dachau da poco, in uno degli ultimi convogli, ed era ebreo, cosa che aveva chiaramente intuito dalla stella gialla cucita sulla camicia a righe.


«Quale era la tua mansione prima di venire qui?», gli domandò.


«Prima di venire qui, ho fatto il lavapiatti e poi il cameriere. Ho smesso di lavorare quando agli ebrei è stato impedito, signor colonnello».


Ludwig non preferì parola, ma lo stück davanti a lui gli vide scrivere qualcosa su un pezzo di carta, che poi si vide porgere.


«Quando esce, dia questo foglio alla SS preposta: l'ho affidata al blocco della cucina, si occuperà di sciacquare le stoviglie e di servire i pasti agli altri detenuti. Se farà il suo lavoro bene, non è impensabile che la raccomandi per servire i tavoli a qualche cena di rappresentanza».
Il prigioniero, titubante, allungò la mano. Lì per lì non ci aveva fatto caso, ma il colonnello si era rivolto a lui dandogli del lei, come se fosse una persona, come a volergli dimostrare il suo rispetto in quanto essere umano.


Il prigioniero che lo seguì immediatamente dopo era un oppositore politico, contraddistinto dal triangolo rosso. Vederlo non fece altro che riportargli alla mente Silas; allora, preoccupato di non poterlo vedere e non sapere come stesse, pensò alla risposta di Friderich, quella che ancora non gli era arrivata dopo la liberazione di suo figlio.


A differenza del precedente, questi lo guardò con astio e Ludwig non poté certo biasimarlo; gli fece, però, una domanda: «Da quanto è qui?».


«Dal 1933, perché ho osato scrivere una frase contro il partito».


«E qual'era questa frase? Posso saperla?», Ludwig era incuriosito.


«Hitler è guerra».


Trattenne un sorriso, «Sotto un certo punto di vista, personalmente, non posso darle torto. Mi dica, quindi, come vuole rendersi utile?».


«Non credo di poter scegliere, colonnello», gli lasciò la decisione, «faccia lei». Era da subito stato affidato ai lavori forzati e, per quanto sfinito, non avrebbe potuto fare altro; ma essendo ancora giovane, egli era utile alla causa nazista: Ludwig sapeva che non lo avrebbero mandato alla camera a gas, perlomeno fino alla prossima decisione.


«Bene. Quando esce da qui, dia questo foglio alla SS proposta: vi trasferiranno alla costruzione degli altri campi satelliti costruiti intorno a Dachau, per l'approvvigionamento dello sforzo bellico».


Il prigioniero prese il foglio e si avviò alla porta, ma Ludwig lo fermò prima che potesse varcare la soglia, dicendo: «Semmai ci rincontreremo... forse, un giorno, potrò dirle quello che penso».
Proseguì così, senza sosta, ad ascoltare ogni prigioniero e ad affidargli la mansione più specifica, inviando nel blocco dell'infermeria quelli che si sarebbero potuti mettere in sesto al più presto.
A tarda sera, Ludwig doveva eseguire l'appello finale; ma Gustav entrò nell'ufficio per comunicare una notizia importante: «Colonnello, c'è il nuovo arrivato».


«Lo faccia entrare». Ludwig si era alzato per accogliere la nuova SS che era stata inviata lì ad aiutarlo nella conduzione: un altro problema da fronteggiare.


«Oberscharführer Otil Fuchs, colonnello», disse Gustav, prima di spostarsi e lasciare che il nuovo arrivato si mostrasse al posto suo, per presentarsi a Ludwig.


«Che mi venga un colpo, Otil? Sei proprio tu?», domandò sotto lo sguardo perplesso di Gustav, stupito nei confronti del nuovo comandante superiore di brigata.


«Ludwig! Non ci posso credere, amico mio guarda dove ti ho ritrovato!», Otil rise.


«Vi conoscete, signori?», fece Gustav nei confronti di entrambi.


«Dio mio, sì. Quanti anni sono passati? Venticinque?». Ludwig era ancora stupito. Sembrava che la provvidenza, di tanto in tanto, pensasse anche a lui.


«Venticinque anni, Ludwig. Ma come fai, non sei invecchiato quasi per niente», Gli confessò con un pizzico d'invidia.


«Neanche tu, Otil. Hai ancora quello sguardo furbetto di una volta».


«Quello di una volpe!», esclamò.


Gustav comprese il gioco di parole che aveva fatto tra aggettivo dello sguardo e il suo cognome: se fosse stato da solo, o con i suoi compagni, si sarebbe messo una mano in faccia per la portata sciocca di quella battuta.


«Colonnello, devo portare l'Oberscharführer a perlustrare il campo, devo mostrarglielo».


«Non si preoccupi, Gustav, farò fare io il giro del campo al mio amico.»


Gustav si congedò dall'ufficio salutandoli a braccio teso, poi chiuse la porta alle sue spalle.
Prima di parlare, Ludwig si assicurò che i passi di Gustav non si udissero più: «Che diavolo ci fai qui, Otil? Ma poi, soprattutto, ti hanno retrocesso?».


«Ero stato affidato alle Waffen SS come comandante superiore di brigata, perché, proprio come te, ho affrontato l'addestramento speciale durante la prima guerra mondiale. Ci voleva uno come me per addestrare quelli là», indicò con il pollice alla finestra, verso l'esterno, per specificare le SS.


«Sicuramente sarà stato un altro reggimento, uno differente dal mio. Dopo la Polonia non ne ho più voluto sapere, a costo d'indossare quel capello...», Ludwig si riferì al Totenkopf.


«Ne hai tutte le ragioni. Non che questo campo sia meno dispensatore di morte o dolore, ma sicuramente si riesce a stare più calmi».


«Non mi hai ancora detto come sei finito qui, però».


«Ah, già», si riprese, «Mi sono ferito durante l'annessione della Norvegia, così mi hanno congedato. Visto che non sono uno storpio, però, e che mi hanno solo sparato a un fianco, hanno deciso di trasferirmi qui; sono ancora considerato utile per perpetrare la causa».


«Strano, con lo sforzo bellico che serve adesso?».


«Magari mi hanno inviato qui per tenerti sott'occhio, per controllarti» Otil alzò leggermente la voce, affinché Ludwig potesse intuire le vere intenzioni dei suoi superiori.


«Ah, si? Interessante...», ammise. Altri guai, c'era anche chi sospettava, si disse.


«Se non ti conoscessi Otil, potrei pensare davvero che tu possa fare il doppio gioco».


Otil si avvicinò appena a Ludwig e abbassò il tono di voce. «È per questo che mi hanno mandato Ludwig, vorrebbero che io riferissi ad alti vertici,» e per "alti vertici" intendeva Himmler, «come svolgi il tuo lavoro nel campo. Ovviamente io dirò che non c'è nessuno più bravo e ligio al dovere di te Ludwig. A parte l'amicizia che ci lega, abbiamo condiviso troppe cose e ne sai altrettante su di me: potresti farmi fucilare in pubblica piazza con una parola».


«Vieni, allora, ti mostro il campo». Ludwig lo lasciò uscire e lo seguì subito dopo. Per quanto Otil potesse lamentarsi, non sembrava per niente cambiato: certo, da ragazzo si era fatto uomo; ma conservava ancora i capelli scuri, che aveva adeguato al taglio formale, e gli occhi azzurri, furbi, che lo contraddistinguevano. Era tutto ben circoscritto in un incarnato pallido, latteo, e pizzicato da un naso fino e dritto, un profilo scultoreo a suo dire. Di certo, con le labbra fine, che si sollevavano in un bizzarro quanto sinistro sorriso mefistofelico, poteva camuffarsi in quella macchina di male e morte. Lo attraeva ancora, come aveva fatto da ragazzo nelle trincee, ma doveva togliersi quell'idea dalla testa: Aleph doveva essere il suo unico pensiero.


Spiegazioni del capitolo:

Stück: letteralmente "pezzo". Era come venivano identificati i prigionieri all'interno del campo.
Appeilplatz: lo spiazzo all'interno del campo dove veniva fatto, mattina e sera, l'appello nel campo di concentramento.
Block: "Blocchi", "baracche fatte di legno"; rettangolari, composte da un solo piano. Lì era dove si trovavano i prigionieri, ma ce ne erano di diversi tipi, come il blocco delle cucine o i lavatoi ecc.
Dachau era il campo principale: ma intorno a esso ne furono costruiti altri, più di cento campi satelliti, anche detti "sottocampi", i quali servivano a incrementare lo sforzo bellico.
Aufstehen: "Alzarsi", l'ora della sveglia.

Il secondo prigioniero descritto: è ispirato a Hans Gasparitsch, che fondò nel 1934, con degli amici, il "Gruppe G" di Stoccarda, per distribuire, tra l'altro, volantini che criticavano il sistema politico. Nel 1935 viene condannato a una detenzione di due anni e mezzo, per aver scritto sulle statue del parco del castello di Stoccarda, gli slogan "Rot Front" (Fronte Rosso) e "Hitler = Krieg" (Hitler = Guerra). Dopo essere stato nella prigione regionale ad Ulm, questi venne portato dalla Gestapo, nell'autunno del 1937, tramite la prigione di Welzheim, nel lager di Dachau. Qui venne costretto al lavoro forzato nella costruzione di strade, nella falegnameria e nella fureria. Successivamente, le SS lo trasferiscono nel lager di Flossenbürg e lì, nel luglio del 1944, Hans Gaparitsch venne di nuovo trasportato altrove, nel lager di Buchenwald, il quale venne liberato l'11 aprile dello stesso anno, grazie alle forze armate americane.
Dopo la liberazione, Hans Gaparitsch condusse ricerche nell'ambito dei procedimenti di denazificazione, per il governo militare statunitense. Nel 1947 divenne membro fondatore dell'associazione dei perseguitati dal regime nazista nel Baden-Württemberg.
Hans Gasparitsch visse temporaneamente nella Repubblica Democratica Tedesca, dove completò gli studi per l'esame di maturità e dove studiò giornalismo. Tornato a Stoccarda lavorò per il giornale "La voce del Popolo" ("Volksstimme"), organo del Partito Comunista Tedesco, fino a quando il partito viene vietato nel 1956. Dopo ulteriori studi, lavorò come ingegnere edile. Dal 1982 fu attivo come presidente dell'associazione "Centro di documentazione Oberer Kuhberg" ("Dokumentationszentrum Oberer Kuhberg"). Rese testimonianze dirette fino alla sua morte e svolse visite guidate nei memoriali di Ulm, di Dachau e di Buchenwald.


[ FONTE: https://www.kz-gedenkstaette-dachau.de/it/videos/hans-gasparitsch/ ]


Note:

Quant'è passato dall'ultimo aggiornamento? Di certo non venticinque anni hahah. Spero che questo capitolo vi piaccia.

Silas e Lothar sono alle prese con i cavalli, mentre Ludwig è alle prese con gli ormoni ahaha comincia a sentire la mancanza di Aleph, ma deve resistere!

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