Capitolo 25
ANNA'S POV
"Anna! Dove sei stata?" Chiede mia madre preoccupata, ricordandomi quanto la mia vita sembra essere costituita più da interrogativi che da risposte.
"Al Colosseo, vi ho fatto preoccupare molto?"
"Beh, direi..." Afferma Rebecca e, per evitare una ramanzina, decido di entrare per presentarmi ai nonni. Che razza di ingrata che sono, sono scappata senza neppure salutarli.
Li vedo seduti sul divano a guardarsi in modo strano, uno sguardo soddisfatto direi.
"Ehm, scusate..." Si girano e li vedo sorridere come fossero giovani, come se i segni del tempo su di loro non avessero effetto.
"Sì, cara! Vieni siediti, ti parliamo un po' di noi perché sì, ti siamo sconosciuti, ma voglio che tu qui viva una bellissima e interessante permanenza! Vogliamo che tu qui sia felice!" Inizia mia nonna per poi girarsi e guardare mio nonno. Mi siedo e ascolto mia nonna parlare.
"Sono Virginia Rossi e lui è Nicola Ryan. Siamo sposati da quando tua madre è nata, siamo sposati dal 1970. Abbiamo vissuto con Elena una vita abbastanza felice, fatta di alti e bassi, ornata di casini e problemini che Elena e... Giulio combinavano, ma sono contenta del risultato ottenuto" Mi dice mia nonna, ma perché ha esitato quando ha detto quel nome.. Giulio? Cosa ha spinto mia madre ad andare in America?
Glielo chiedo e dopo un po' di esitazione vedo parlare mio nonno.
"Anna... Ci fu un litigio molto tempo fa, nel 1990. Elena rientrò a casa verso le cinque di mattina. Erano settimane che si comportava in modo che non apparteneva al suo essere. Tua nonna era preoccupata, io pure. Noi avevamo un figlio. Si chiamava Giulio. Morì in un incidente stradale nel 1990. Lui ed Elena erano più che fratelli, erano qualcosa di indivisibile e inseparabile. La morte di Giulio provocò ad Elena un dolore così intenso che iniziò a comportarsi in un modo estraneo a lei. Usciva la sera e rientrava la mattina del giorno successivo in uno stato deprimente con il quale usciva la sera del giorno stesso. Non sapevamo cosa faceva, neppure ora lo sappiamo, non l'abbiamo mai saputo. Per noi, però, era un supplizio vedere la nostra unica figlia ridursi in quello stato. Una sera rimase a casa, chissà perché. Le parlammo, le dicemmo che non doveva ridursi in quello stato, non poteva e poi Giulio non avrebbe voluto. È sempre stata una ragazza forte e noi non volevamo vederla in quello stato. Litigammo e lei, in tutta risposta alle nostre suppliche di smettere, volle affermare la propria libertà scappando. Diceva che tutto le ricordava il fratello, ogni piccola e minuscola cosa. Quella stessa sera preparò le valigie, ci disse che andava in America e non sappiamo come, vi andò, lasciandoci soli. In questi anni niente è stato più come prima della scomparsa di Giulio. Avevamo perso lui, avevamo perso Elena ed eravamo persi anche noi. Tutto era così buio, così vuoto. Era troppo straziante. Non augurerei a nessuno quello che abbiamo passato. A primo impatto non capimmo il suo comportamento. Le chiamammo, la implorammo di tornare, ma poi comprendemmo di dover smettere di soffocarla. Certo, stavamo male al pensiero di non vederla più per molto tempo. Ci faceva male, però ognuno affronta le sofferenze a piacere a suo. Aveva bisogno di andare via, perciò smettemmo di chiamarla. Potevamo chiamarla, ma non l'abbiamo fatto più. Non perché non volessimo, ma perché dovevamo lasciarla libera di volare." Raccontava, raccontava e io vedevo nei loro occhi scorrere ricordi che, nel corso degli anni, avranno subìto la pressione del tasto «replay» chissà quante volte.
"E oggi è qui. Ci sembra di sognare, invece no. Lei è qui, ma è tutto cambiato: ha una figlia, si comporta da madre con una ragazza dolcissima. Lei, Elena è cambiata tanto, così come i nostri cuori." Mio nonno alza lo sguardo e, rivolgendosi a me, continua a contemplare il cambiamento delle cose.
La forza del tempo è tale da renderci sconosciuti della vita. In fondo è questo il tempo: scorre e cambia, inesorabilmente.
"Mi dispiace" Dico io, con la consapevolezza di esser stata io la causa del perdurare del loro dolore.
"Shh!" Mi zittisce nonna, coinvolgendomi, insieme al nonno, in un caloroso abbraccio.
Dopo un po' entra mia madre e inizia a parlare:
"Arrivata in America con i risparmi di una vita non sapevo cosa fare: avevo affermata la mia libertà, il mio essere impulsiva, ma in quel momento ero come un pesce fuor d'acqua. La mia fortuna fu sapere bene l'inglese e l'esser riuscita a cavarmela anche senza una stanza fissa. Trovai subito un lavoro in un ristorante. Dai miei risparmi riuscii a stare per un po' di tempo in un motel un po' decrepito, ma l'importante era spendere pochi soldi. Restai in quel motel per un bel po' di tempo e intanto, col lavoro al ristorante guadagnavo soldi che mettevo da parte. Il primo anno passò tra risparmi e lavoro. Il secondo anno, sempre nel ristorante dove lavoravo incontrai un ragazzo con cui iniziò una relazione durata tre anni. Dopo questi tre anni ci sposammo e mettemmo al mondo Anna. Per suoi impegni lavorativi ci trasferimmo a Santa Barbara e vi restai anche quando, dodici anni dopo, io e lui ci lasciammo. Mi trasferii in tutt'altra zona della città per cercare di dimenticarmi del suo ricordo. Ed ora eccomi qui a scappare da lui, da qualcuno che mi ha rovinato vari anni della mia vita. Eccomi ad esiliare qualcuno per amore, ma che ho portato con me per timore. E mi dispiace, mi dispiace tantissimo per ciò che ho fatto, ma sentivo l'esigenza di portarti via con me perché il mio affetto per te mi obbligava a farlo. Perdonami Anna, perdonatemi tutti."
ELENA'S POV
"È tutto apposto, mamma. Sta' tranquilla." Mi tranquillizza Anna abbracciandomi.
"Sappiamo entrambe che niente è al suo posto, però voglio provarci a cambiare le cose perché tutti hanno avuto delle mancanze da parte mia, quindi ci tengo a rimediare ai miei errori per quanto mi è possibile." Affermo io, desiderosa di risolvere tutto, desiderosa di ricomporre il puzzle, di farci un quadro. Un quadro con la cornice, da appendere. Un quadro per immortalare una sperata pace con me stessa e con gli altri.
Dopo aver sentito il punto di vista dei miei genitori su quello che ho combinato venticinque anni fa mi sento triste, sono arrabbiata con me stessa più di quanto non do a vedere. Invito Anna e Rebecca ad uscire per un po', al fine di porre le dovute scuse ai miei genitori.
"Scusatemi. Scusatemi per avervi provocato così tanto dolore, così tanto rammarico. Scusate se non sono stata una figlia rispettosa ed educata. Scusate se non vi ho supportati, se non vi sono stata accanto. Scusate se sono andata via, pensando solo al mio dolore, trascurando il vostro non meno importante. Scusate il mio essere egoista, il non avervi detto di Anna e del matrimonio. Scusate se non sono ritornata. Merito il vostro disprezzo, dovrei andare via, dovrei..." Mi scuso, ma vengo fermata dalla mano sulla spalla di mio padre e dallo sguardo amorevole di mia madre.
"Sono abbastanza grande da capire che ognuno affronta il dolore a modo suo. Resta a casa, con noi. Sei la benvenuta, Elena."
Incominciai anche a capire che i dolori, le delusioni e la malinconia non sono fatti per renderci scontenti e toglierci valore e dignità, ma per maturarci.
Herman Hesse
La forza del tempo è tale da renderci sconosciuti della vita. In fondo è questo il tempo: scorre e cambia, inesorabilmente.
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