Proto-Claudio
Buongiorno a tutti!
A dieci capitoli dalla fine (sì! ci sono!), per ingannare l'attesa, vi faccio leggere il primo capitolo di una storia abortita (titolo: Primavera) che avevo cominciato a scrivere una decina di anni fa e che non ho mai finito perché la trama non è mai stata nulla più che: "due ragazzi dormitorio giovanili squadra serie B smut smut smut angst angst angst fine". L'ho recuperata dai miei archivi per vedere se c'era qualcosa che potevo riciclare per il sequel, e mi sono resa conto che c'erano in nuce diverse cose che poi ho rielaborato e ampliato sia ne L'ultimo desiderio che ne L'ultimo evocatore. Tipo il mantra anti eccitazione (che qua era una roba di un disgustoso unico) e un prototipo di Claudio un po' annacquato. Per il sequel ho riutilizzato il nome della squadra bolognese, che mi piaceva.
Vi lascio, buona lettura e buona attesa!
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20 Luglio 1996 - sera
Il dormitorio è una elle di cemento a tre piani beige e marrone con le finestre saliscendi in alluminio che mi ricordano la mia scuola media.
Sento i muscoli vibrare per la rabbia e vorrei spaccare qualcosa, ma non voglio fare la figura del cagacazzi alla mia prima giornata da tesserato del Felsina FC.
Ci avviciniamo alla porta di ingresso, io e Gabriele, il responsabile del settore giovanile, tuta societaria della Kappa, capelli grigi stretti in un codino. Si ferma, mi guarda e sventola un anello con due chiavi Yale.
«Questa rossa» mi dice «è quella del portone» poi la infila nella serratura ed entra. Mi lancia il mazzo e io lo afferro al volo.
«L'altra è quella della tua stanza. Vieni dentro.»
Lo seguo trascinandomi il trolley.
Incrociamo un pischello che sembra molto giovane, quattordici, quindici anni massimo. Fa un cenno di saluto a Gabriele, poi abbassa la testa e tira dritto, seguito da una scia di ascella sudata e deodorante dolciastro.
Penso a Chicca e penso che stasera mi tirerò un raspone pensando a lei, per la disperazione.
Salita una rampa di scale imbocchiamo un corridoio. Gabriele sta zitto, si sentono solo le ruote cigolanti del mio trolley e la voce ovattata di Ligabue che canta da dietro una porta.
Ci fermiamo all'angolo, davanti a una porta verde uguale a tutte le altre.
«128» dice battendo il dito su una targhetta minuscola inchiodata allo stipite. Poi incrocia le braccia e allarga le gambe. «Non fare casini e andremo d'accordo.»
Vorrei sputargli in faccia che io con lui non ci avrò a che fare, che sono un giocatore della prima squadra, che qui nel dormitorio delle giovanili ci sono capitato perché il mio procuratore è un coglione e i dirigenti del Felsina dei venditori di pentole. Ma lui le sa queste cose, e non gli interessano. Dormo qui, perciò sono almeno in parte sotto la sua responsabilità. Anche se sono maggiorenne. Anche se gioco in prima squadra.
«Ok» dico. E sorrido pure. So essere un leccaculo, quando voglio.
Lui fa un cenno con la testa e se ne va, senza dire altro.
«Buona giornata» lo saluto.
Non risponde e vedo la sua schiena che si allontana.
Bel tipo.
Faccio un sospiro e guardo la porta.
Un mese, non di più. Il contratto è decente, tempo di sistemarmi e mi prendo un appartamento in affitto. Da solo, per i cazzi miei. Senza lamentarmi con nessuno del fatto che mi avevano promesso una casa aggratis e mi hanno rifilato il dormitorio della primavera.
Mi faccio forza e infilo la chiave nella serratura.
La porta si apre subito, non era chiusa. Lui è qui. Il primavera sfigato e rompiballe che per un mese (non di più!) mi impedirà di scopare con Chicca su un letto vero.
«Ehi?» dico entrando.
Silenzio.
Ronzio di frigorifero.
Forse non c'è e ha dimenticato aperto.
L'ingresso è uno stretto corridoio, alla cui sinistra ci sono i mobili di un cucinotto: lavello, fornelli e più avanti il frigorifero. Dietro al frigo spunta un mobile basso che sembra una cassettiera, sommersa da un grumo di vestiti scuri. La parete di fronte a me è quella della finestra, intravedo delle pesanti tende blu. Tra me e la finestra c'è un tavolino con un'incerata a fiori gialli e due sedie di plastica. È tutto molto piccolo e molto brutto e decisamente non sembra la stanza di un dormitorio di una squadra di serie B.
Avanzo nel corto corridoio, giro la testa alla mia destra ed eccolo lì, il mio compagno di stanza.
Ma che è, sordo?
Il letto a castello è posizionato a ridosso della parete a destra e vedo solo le sue gambe e i piedi scalzi che spuntano dal piano di sotto. Ha un grosso pc portatile nero appoggiato sulle gambe. Si è addormentato?
«Aoh!» dico dando una scossa al letto.
Vedo le gambe sussultare, e la sua testa che spunta a lato. Ha due grosse cuffie alle orecchie e mi guarda per un attimo con un'espressione stupita, quasi preoccupata.
È brutto anche lui, come la stanza. Come il palazzo. Come questa città di merda.
Secco e con una faccia strana, un naso lungo e grosso, la fronte alta e i capelli corti spettinati. Chiude il pc con uno scatto nervoso e si toglie le cuffie.
«Credevo arrivassi domani» dice infine, visibilmente agitato. Ha la voce molto bassa e l'accento del nord.
«Te stavi a fa' una pippa, eh?» lo prendo in giro ridendo.
«No.» mi risponde.
Serissimo.
Oh, annnamo bene. Zero senso dell'umorismo.
Mi avvicino e tendo la mano.
«Flavio» dico.
Si toglie il pc dalle ginocchia, lo posa sul letto e si alza. È più basso di me. Ovviamente. Io sono alto 1.92, tutti sono più bassi di me. Sarà sull'uno e ottanta.
Allunga la mano ma io sollevo la mia all'ultimo secondo.
«Sicuro che non te stavi a fa una pippa?» dico, accennando un sorriso.
Aggrotta le sopracciglia.
«Non mi stavo masturbando.» Si indica il pacco e io glielo guardo come un cretino. «Sono passati all'incirca trenta secondi da quanto sei entrato e se fossi stato eccitato la mia erezione sarebbe ancora evidente, non credi?»
Per qualche lunghissimo secondo gli fisso il pacco, incredulo, ipnotizzato da quello che ha appena detto.
Ha veramente detto quello che ha appena detto?
La mia erezione?
Sbatto le palpebre e riesco a uscire dall'ipnosi. Lo riguardo in faccia.
«Ehm... era una battuta?» dico.
«Ah» dice lui. Poi mi fissa negli occhi serissimo. Ha gli occhi molto chiari, un colore indefinito che tende al grigio. Un colore insulso. «Perdonami, non mi è affine questo genere di umorismo. Comunque io mi chiamo Marco.» Tende di nuovo la sua mano ossuta.
Gliela stringo con la sensazione di trovarmi sul set di una candid camera. Mi guardo persino in giro in cerca delle telecamere nascoste.
Non mi è affine questo genere di umorismo.
Ma come cazzo parla questo? È veramente un calciatore? Da quanto sta qua? Come ha fatto a sopravvivere allo spogliatoio?
Non starò qui più di un mese, ma sarà sicuramente un mese di merda.
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